Queste riflessioni le scrissi alcuni anni fa, dopo avere vissuto l'esperienza da fotografo di un'Ultra nascente che fu la 100 km Madrid-Segovia, lungo l'antico percorso che da Madrid partiva per raggiungere El Camino del Norte per Santiago de Compostela.
Quel tratto di percorso prescelto per la 100 km coincideva anche con il tracciato di un'antica via "pecoaria" usata tradizionalmente per la transumanxa delle greggi.
Questa gara si svolse nell'ottobre del 2010, mentre il mio scritto venne pubblicato su FB il 2 novembre successivo.
(Maurizio Crispi) Nella nostra vita ci sono traiettorie che s'incrociano e che, a volte, si affiancano per poi divergere.
Correre le maratone e le ultra espone un po' a questo tipo di esperienza.
Ci si ritrova tutti assieme su di un campo di gara, a volte in poche decine, a volte in centinaia o a migliaia.
Si respira tutti quanti allo stesso ritmo, i cuori battono all'unisono in un'emozionante esperienza di condivisione.
Ognuno poi inizia a percorrere la strada data, intento alla conquista del proprio personale traguardo.
Nel corso della via - come del resto accade nei pellegrinaggi devozionali, che siano religiosi o laici - ci si affianca a qualcuno che va al nostro stesso passo e ci si procede accanto per un tempo più o meno lungo, con un passo più o meno sincronizzato.
L'esperienza interiore della condivisione si fa, in questi casi, ancora più forte ed intensa.
A volte con il nostro compagno di cammino si parla, a volte no. Magari prevalgono i momenti di silenzio, ma le menti sono sincronizzate nel vissto di un'esperienza condivisa, nella quale si travasano ricordi, gioie, dolori, speranze e aspettative.
Quando ci si ritrova a procedere affiancati, la nostra mente inevitabilmente fantastica sul nostro compagno di via.
Poi, il passo di uno prevale su quell'altro, oppure uno dei due viene risucchiato indietro a causa della stanchezza o d'un improvviso malessere, mentre l'altro continua ad andare avanti cavalcando la freccia del tempo, al suo ritmo cadenzato come un metronomo.
Quei destini che un attimo prima si erano incrociati, si disincrociano, divergendo, oppure uno va avanti e l'altro rimane indietro.
Forse, con quella particolare persona con la quale si erano pure divisi intensamente dei momenti interminabili e densi (anche senza dover parlare) non ci si incontrerà più per il resto della nostra vita, per quanto si continuino a percorrere senza sosta le vie del mondo.
Eppure, in noi, una traccia - una scintilla - di quell'incontro permarrà a lungo.
Tra i miei cimeli di maratona e di gare cui ho partecipato c'è una foto di grande formato (incorniciata e appesa al muro) scattata all'uscita del Queesborough Bridge (al 25° chilometro della maratona di New York, in occasione di quella che fu la mia seconda esperienza di partecipazione alla maratona della Grande Mela).
Io sono in mezzo a tanti altri e sembra che arranchi di buona lena.
Questa massa di corpi affiancati mi appare come un fiume che scorre impetuoso
Ci sono accanto a me alcuni anziani, altri più giovani, uomini, donne: siamo tutti intenti in un'esperienza condivisa - compagni di viaggio - tutti con lo sguardo rivolto lontano verso la fine della nostra strada, ma ancora il traguardo è ben distante ed è meglio non pensarci (ricordo qui che il transito sul Queensborough Bridge cade attorno al 25° km della Maratona).
La guardo spesso pensosamente, questa foto, e mi chiedo: Che fine avranno fatto queste persone? Sono ancora vive? Sono morte e se la risposta è sì, come? Quali destini avrà riservato loro la vita?
Tutte domande alle quali non posso, purtroppo, dare risposte.
Perchè so soltanto di me.
Non di altri.
Il destino ha voluto che in quel particolare momento e in quel luogo noi fossimo lì tutti assieme in un'esperienza condivisa, in un'irripetibile unità di intenti, desideri ed azione.
Tempo addietro, mi ritrovai a fare delle considerazioni sulla "corsa lenta" di lunga durata, in contrapposizione a quella più veloce pure nel caso delle ultra distanze , quella propria dei podisti amatori più raffinati (o più fanatici, a seconda di come si guarda alla cosa).
Naturalmente, sentii l'esigenza di forgiare queste mie osservazioni, quando per mancanza di allenamento "serio" e di diuturne applicazioni di sofferenza, ero ormai divenuto senza poter contrapporre alcuna dissimulazione al fatto un podista lento, assumendo l'identità di "tapascione" seconda l'espressione (non felice) in voga tra i runner più brillanti.
Ma dal fatto di essere divenuto un podista "lento" traevo molto piacere, in verità. La lentezza della mia corsa mi dava modo di scoprire delle cose.
Vennero fuori delle osservazioni tutt'altro che banali, devo dire, molto affini peraltro a quelle relative al "camminare lento": del resto, quando si scende al di sotto di certi ritmi di corsa, la differenza tra corsa lenta e camminata veloce si fa sempre più sfumata, sino a scomparire quando si appiattisce del tutto il tempo di volo.
L'articolo venne inizialmente pubblicato su podisti.net, testata giornalistica online con la quale a suo tempo collaboravo. Ma continuai a lavorarci ancora ed ancora, sino a trasformarlo in un piccolo saggio, con tanto di note di riferimenti bibliografici.
Non so, per quali via quel testo - più approfondito - giunse ad un sito web che pubblicava articoli sul "camminare profondo".
Lì il mio saggio rimase incluso per lungo tempo. Di recente avrei voluto riprenderlo per linkarlo a qualcuno interessato alla sua lettura, ma ho scoperto che purtroppo, pur essendo ancora di esso il titolo, non era più possibile l'accesso al file in .pdf.
Ho sentito così l'esigenza di riprenderlo e di darne visibilità su questo magazine.
Ma poiché è di grande ampiezza e con una formattazione che sarebbe un peccato perdere, ivi incluse le note, ho pensato di pubblicarne qui soltanto l'incipit e includere in calce il file in pdf, in modo che chiunque avesse voglia, lo possa leggere nella sua interezza.
Quando corriamo, siamo in una condizione ideale per osservare il mondo che ci circonda.
Mi spiego meglio.
Viviamo in un mondo che tende alla velocizzazione sempre più estrema.
Si valorizzano sempre di più il movimento, la velocità di esecuzione del gesto, il livello performativo, talvolta in modo così estremo che non vi è più la possibilità di capire cosa sta accadendo.
In alcuni casi ciò dipende dal fatto che nella rappresentazione mediatica della realtà vi è sempre più massiccia la tendenza a copiare i videogiochi.
Prendete il caso dei moderni film di azione: colonne sonore sparatissime, sequenze di azioni turbinose amplificate da un uso magistrale degli effetti speciali e di azioni mirabolanti messe in scena dagli stuntman. A volte l'azione è così veloce che non si capisce affatto che cosa stia accadendo; tra rumori convulsi, tonfi, botti e turbini di movimento non si riesce più a cogliere il singolo dettaglio dell'azione, se non avere la percezione confusa che sia accaduto qualcosa.
La stessa cosa succede quando ci spostiamo in treno o in automobile: velocità sempre più estreme, riduzione dei tempi di percorrenza, lo spostamento da un luogo ad un altro si riduce alla lettura e registrazione di mere cifre: il tempo necessario, misurabile in ore, minuti, secondi, per percorrere una determinata distanza, gli importi chilometrici realizzati nello spostamento.
Ma, a volte, non ci preoccupa nemmeno di questi aspetti. Si vive lo spostamento in maniera inconsapevole, a volte esprimendo paradossalmente lamentele circa il fatto che sia avvenuto in maniera poco veloce…
La velocità spesso non consente più di "guardare" cosa c'è fuori di noi, precludendo ai diversi elementi della realtà esterna l’ingresso nel nostro campo percettivo, se non in maniera confusa e turbinante, labili tracce imperfette dai contorni sfumati ed indistinti.
E spesso, anche quando non si è immersi in un’azione veloce, si cerca comunque un surrogato della velocità: basti pensare a quelli che, per correre, hanno l’assoluta necessità della musica nelle orecchie, sostituendo così al ritmo del proprio corpo quello veloce dispensato dal walkman.
Quanto maggiore è la velocità dello spostamento, tanto più siamo spinti a rinunciare a costruire nella nostra mente un'immagine della realtà che abbiamo attraversato, che sia ricca di dettagli e di elementi cromatici.
Per proseguire la lettura scarica il file in pdf, qui allegato.
Ho carpito l'immagine di copertina da un profilo social.
Non appena l'ho vista mi ha immediatamente colpito con forza, perla sua pregnanza iconica e poetica allo stesso tempo.
Cosa ci dice l'immagine?
E' molto semplice, essenziale quasi.
Un adulto e un bambino camminano tenendosi per mano nel bel mezzo di un paesaggio desolato.
Sono intenti nel cammino.
Il guardarli, così, a volo d'uccello fa sembrare entrambe le figurette minute e fragili nell'immensità e nell'asprezza del territorio circostante,una Natura che sembra essere ostile ed impervia.
La strada che seguono sembrerebbe perdersi nel cuore profondo della desolazione: e, benchè non si possa vedere cosa vi sia al di là del dosso, viene facile immaginare che proceda all'infinito.
Dove vanno? Da dove vengono?
Sembrano essere attrezzati per un lungo cammino...
Si staranno raccontando storie mentre procedono, oppure se ne stanno in silenzio, assorti?
Tante domande e, partendo da ciascuna, si può tessere una storia diversa.
Mi piace immaginare che siano diretti verso una radiosa aurora e che presto, per loro, i grigi, i neri e i rossi cupi del terreno che li circonda possano cedere il passo ad una natura ubertosa e fertile. E che il loro andare possa giungere ad una sosta, quanto meno temporanea.
Il cammino è una metafora potente della vita.
Questa foto mi ha ricordato con prepotenza la canzone di Guccini "Il vecchio e il bambino", ma anche il tragico romanzo post-apocalittico di Cormac McCarthy, La strada (e il film crudo che ne è stato tratto), ma anche - giusto per sollecitare delle immagini meno cupe, seppur malinconiche - la sequenza finale di Il Monello di Charlie Chaplin.
(foto tratta da un profilo social FB) Ho carpito l'immagine di copertina da un profilo social. Non appena l'ho vista mi ha immediatamente colpito con forza, perla sua pregnanza iconica e poetica ...
(...) Oggi ho visto un ragazzo che saliva svelto, concentrato, a piedi nudi e occhi a terra, sulle pietre. Uno sguardo alle pietre e uno ai piedi nudi, pensavo. O forse i suoi erano occhi che non vedevano nulla, guardavano dentro di sé, in profondità. Palpebre e cuore sincronici, sembrava pensare seriamente alla sua promessa, alla grazia ricevuta, a una grazia da chiedere lungo il suo pellegrinaggio. Quelli della prima fuga di Monte Pellegrino sono pavimenti del pensiero a cui rimangono attaccate tutte le figurine delle storie personali, pensavo. Quelle fughe così magnificamente silvestri, lineari e contorte allo stesso tempo, contengono, pensavo, i pensieri di tutti i palermitani; se potessero staccarsi, quei pensieri, una folla immensa di immagini avvolgerebbe come una nube la città.
(...)
(MC) Questo l'incipit dell'articolo di Cettina Vivirito sul camminare contemporaneo, dai pellegrinaggi alle erranze suburbane. Per pura coincidenza, anche io l'altro giorno, percorrendo la strada che solitamente mi riporta indietro dalla casa di campagna vicino a Palermo e che è quella stessa che conduce dalla SS113 a Ventimiglia di Sicilia, ho visto due camminare lungo la strada in direzione di Altavilla. Una signora avanti con gli anni e senza scarpe (solo i calzini a piedi), capello di paglia ad ampia tesa ad ombreggiarle il volto, incedeva a passo cadenzato, aiutandosi con un grosso bastone. Dietro di lei, a distanza di rispetto, procedeva un uomo, forse il marito, anche lui anziano, lui però con le scarpe ai piedi Ho pensato che la donna, partita da Ventimiglia di Sicilia o forse da più lontano, stesse facendo il pellegrinaggio verso la Madonna Nera di Altavilla Milicia (la cui festa cade appunto ai primi di Settembre), molto venerata in un'ampia area della Sicilia e meta di cammini devozionali, sia per chiedere una grazia sia per sciogliere un voto (adiacente alla chiesa, nella canonica, è conservata una vastissima collezione di ex voto per grazia ricevuta che, anni addietro, fu oggetto di un prezioso volume edito da Sellerio). La donna avanzava da sola, penitente a piedi scalzi, per avere il giusto assetto interiore. L'uomo era soltanto il suo accompagnatore sollecito e protettivo - ho pensato -, ma a distanza, per non rompere con chiacchiere vane la temperatura interiore e la continuità di un muto pregare di lei. E' stata per me un'immagine icastica e mi è rimasta impressa a lungo nei giorni successivi. Il camminare porta a se stessi e ci aiuta a ricomporci. E ciò avviene anche laddove non vi sia nel nostro muoverci a piedi un'esplicito assetto devozionale (o penitenziale) e vi si si ravvisi piuttosto il carattere di un'erranza che ci riporta indietro alla nostra origine nomadica, e - attraverso essa - al divino immanente in tutte le cose. Il camminare con la sua "lentezza" (circa 5 km/h, mediamente, o qualcosa di meno se non si è molto allenati) e attraverso il lento mutare di prospettiva in ciò che ci circonda, con la sua ripetitività sempre cangiante (sono i panorami mentali quelli ad essere sempre cangianti come le nuvole che trascorrono in cielo) ci riporta a ciò che è essenziale, sfrondando via un neo-bisogno appresso all'altro, rendendo superflui tutti gli oggetti che appesantiscono il cammino, e riducendoci - una volta gettate tutte le zavorre che ci appesantiscono - sempre di più all'osso della nostra essenza. E camminare è anche un atto fondante del mondo. Queste riflessioni, puramente associative, mi sono sembrate la degna premessa all'articolo di Cettina Vivirito. La lettura dell'articolo può essere accompagnata dalla musica della composizione di Kai Engel, The Run.
(Cettina Vivirito) Come tutte le mattine, scendo con il cane per la solita passeggiata. Salire per la vecchia strada di Monte Pellegrino fatta di pietre lisce lucide e smozzicate è per me come ciabattare per casa da vecchia perpetua: conosco i particolari delle curve, le nuvole che scendono basse e quelle che si nascondono dietro la montagna per poi comparire in volo veloci come aquiloni e sempre diverse.
Oggi ho visto un ragazzo che saliva svelto, concentrato, a piedi nudi e occhi a terra, sulle pietre. Uno sguardo alle pietre e uno ai piedi nudi, pensavo. O forse i suoi erano occhi che non vedevano nulla, guardavano dentro di sé, in profondità. Palpebre e cuore sincronici, sembrava pensare seriamente alla sua promessa, alla grazia ricevuta, a una grazia da chiedere lungo il suo pellegrinaggio. Quelli della prima fuga di Monte Pellegrino sono pavimenti del pensiero a cui rimangono attaccate tutte le figurine delle storie personali, pensavo. Quelle fughe così magnificamente silvestri, lineari e contorte allo stesso tempo, contengono, pensavo, i pensieri di tutti i palermitani; se potessero staccarsi, quei pensieri, una folla immensa di immagini avvolgerebbe come una nube la città.
Questo accade in una città come la nostra, Palermo; ma lungo la storia delle erranze, in altri luoghi e in altre città, dal paleolitico al nomadismo neolitico passando per il Dada al Surrealismo, dal Lettrismo all'Internazionale Situazionista, fino al Minimalismo e alla Land art, cambia la percezione del paesaggio. Così ci racconta uno speciale architetto, Francesco Careri, che non costruisce, non progetta ma pone una sfida che porta avanti con il collettivo Stalker/Osservatorio Nomade, che da diversi anni opera a Roma e non solo. Il gruppo nasce ispirandosi al movimento studentesco della Pantera che continua in qualche modo ad ispirarsi all'Osservatorio Nomade. Gli Stalker camminano, ma non si limitano a passeggiare per la città dei monumenti, delle piazze, dei grandi viali, dei parchi. La loro pratica è "estrema", è un tentativo di "mappare" la città dal di dentro, di scoprire com'è possibile vivere la città – in particolare le sue periferie – al di fuori degli spazi progettati dagli architetti, che troppo spesso sono diventati i simboli di un'invivibilità delle grandi metropoli. È possibile raggiungere Roma da Tivoli a piedi, passando per dei percorsi alternativi alla strada asfaltata? Per gli Stalker è possibile, è anzi scoperta di spazi sconosciuti: il nomadismo diventa perciò un'istanza di re-visione dello spazio urbano che non passi attraverso l'aggiunta di nuove costruzioni.
L'idea di fondo di Breton, che guida il gruppo, è quella di dar voce alla "città inconscia". Saranno i lettristi negli anni '50 a dare per la prima volta importanza all'aspetto di una pratica artistica che non lascia tracce visibili, mentre i situazionisti si allontaneranno dai lettristi, dando vita di nuovo a delle "psicogeografie". Fino ad arrivare alla Land Art, in particolare americana, che fa assurgere il passaggio in un luogo ad opera d'arte. Nella sua forma più avanzata questa pratica non lascia più nemmeno una traccia effimera sul terreno e tutto viene affidato ad una documentazione, perlopiù fotografica, che già non è più l'opera d'arte. I walkscapes sono perciò landscapes, paesaggi, letteralmente "pezzi di terra" non posseduta, ma vista, attraversata: sono pezzi di cammino che ci servono a ricostruire la geografia di un luogo, la metropoli, altrimenti inimmaginabile.
In ogni tempo il camminare ha prodotto architettura e paesaggio, e questa pratica quasi del tutto dimenticata dagli stessi architetti è stata ripristinata dai poeti, dai filosofi e dagli artisti, la cui massima espressione si trova in un libro di Bruce Chatwin, Le vie dei canti, una sorta di inno al pensiero nomade più che al nomadismo. Il camminare in effetti permette di vedere dinamizzando delle linee, linee di canti che disegnano il territorio aborigeno, linee di fuga che bucano lo schermo del paesaggio nella sua rappresentazione più tradizionale, linee di streghe, come direbbe Deleuze, che trascinano il pensiero dietro il movimento delle cose, lungo vene che disegnano nelle profondità delle acque quei tragitti delle balene che Melville descrive così bene in Moby Dick. Le strade non conducono più soltanto a luoghi, sono esse stesse dei luoghi. Jackson ha introdotto un nuovo termine nel lessico del paesaggio, "odologia" che deriva dal hodos, parola greca che significa strada, cammino, viaggio. Lo prende a prestito da uno psicologo sperimentale, Kurt Lewin, che se ne è servito negli anni '30 per caratterizzare "lo spazio vissuto" in cui si situa un individuo nel suo ambiente. Ecco perché l'approccio artistico è così importante per comprendere il nostro modo di percepire il mondo attraverso le vie che lo percorrono, nella misura in cui pone l'accento sulla dimensione dell'esperienza sensibile e affettiva del camminare. Di fatto, gli uomini oscillano sempre tra queste due dimensioni, quali che siano le loro pratiche; in quanto abitante della terra ama stabilirsi, fondare, mettere radici, imprimere il proprio segno; in quanto animale politico, invece, guidato da Ermes, dio dei viaggiatori e dei banditi, delle pietre miliari e dei passaggi, tende a lasciare la propria famiglia e la propria casa per volgersi a luoghi più stimolanti per cimentarsi e agire. Siamo stretti tra due desideri: stabilirci da qualche parte, appartenere a un luogo e trovare altrove un nuovo campo di azione.
“Camminare non è uno sport”, precisa poi Frédéric Gros. Più ci immergiamo nel mondo digitale, più cresce l’impulso di riscoprire con il corpo il mondo fisico attraverso un’azione, un’attività, che si tratti di alpinismo, free climbing, andare bicicletta o a piedi. I camminatori, e chi ha scritto sul camminare, hanno la tendenza a dividersi in due categorie: i flâneur urbani, discendenti di una lunga tradizione che va da Charles Baudelaire, ai Situazionisti, e quelli che sulle orme di Rousseau, Thoreau e Edward Thomas sono rimasti folgorati dalla natura. Che camminare significhi aprirsi al mondo, lo aveva già scritto David Le Breton, antropologo del corpo: “L’atto del camminare immerge in una forma attiva di meditazione che sollecita la partecipazione di tutti i sensi, si cammina per nessun motivo, per il piacere di gustare il tempo che passa, per scoprire luoghi e volti sconosciuti, o anche, semplicemente, per rispondere al richiamo della strada. Camminare è un modo tranquillo per reinventare il tempo e lo spazio. Prevede una lieta umiltà davanti al mondo”.
Ma già Aristotele insegnava camminando sotto i portici del Liceo e i suoi allievi si chiamavano peripatetici, dal greco peripatein (passeggiare), proprio per questo. Socrate amava camminare e dialogare e gli stoici discutevano di filosofia passeggiando sotto la Stoa, i portici di Atene. Nella Grecia classica il luogo di pellegrinaggio più famoso era Delfi dove si andava per ricevere i responsi della Pizia. Da allora camminare è diventato un atto rivoluzionario, quasi eversivo. Lao Tse ha scritto che un viaggio di mille chilometri comincia sempre con un passo. Il primo passo. Che è l’unico che conta perché senza il primo, come per il respiro, non ce ne saranno altri, perché segna un distacco. Dalla vita di tutti i giorni, dagli affetti, dalle comodità, dalla propria casa, dal lavoro.
Camminare definisce una soglia tra un prima e un dopo, oltrepassata la quale si entra in una vita dove non si è nessuno, dove si cammina nel regno dell’incognito.
Camminare a volte coincide con la protesta: marce di protesta (come la Marcia di Gandhi, nel 1930, contro la tassa britannica sul sale), marce della pace (la Pellegrina della Pace americana che nel 1953 fece voto di continuare a camminare finché il genere umano non avesse imparato la via della pace e che camminò per 28 anni e morì in uno scontro frontale), le marce contro la Guerra in Corea o in Vietnam, le marce per i diritti civili (le marce delle suffragette e quella di Martin Luther King a Birmingham nel 1963), le marce delle Madri intorno all'obelisco della Plaza de Mayo, che, per non incorrere nell'accusa di occupazione abusiva di suolo pubblico dovettero alzarsi e camminare in circolo, e ancora scioperi e cortei e processioni. Tutte queste manifestazioni si svolgono per la strada che è, per eccellenza, il luogo che appartiene a tutti e sono perciò strettamente connesse con il concetto di democrazia, come spiega Rebecca Solnit che scrive nel suo bellissimo Wanderlust. A History of Walking: “camminare non ha classi” raccontando come la questione dell’accesso ai terreni in Inghilterra sia stata nei secoli invece proprio una specie di guerra di classe (come del resto lo sono tutte le questioni di accesso a un bene comune). Il conflitto verteva su due diverse immagini del paesaggio, la prima che vedeva la campagna come un grande corpo suddiviso in parti ben distinte, la seconda come un organismo collegato da un sistema circolatorio costituito dai sentieri. Le servitù di passaggio affermavano, in accordo a questa seconda visione, che la proprietà non comportava necessariamente diritti assoluti e che i sentieri erano principi altrettanto significativi dei confini.
Ma il rapporto tra letteratura, religione, filosofia, antropologia, sociologia, politica e il camminare è sterminato: si potrebbe ancora aggiungere l’analisi dei vecchi e nuovi atteggiamenti sul rapporto tra viaggiare a piedi e natura: per un europeo, probabilmente, un viaggio nel deserto sarà un ritorno ad un antica casa ancestrale, mentre per un nordamericano come Thoreau, rappresenterà il futuro. Il camminatore campestre rivendica che camminare in città equivale a soffrire per chi ama le lunghe passeggiate nella natura, perché implica un ritmo a scatti irregolare. Scrive Gros: “Il flâneur è sovversivo. Sovverte la folla, la merce e la città, come pure i loro valori. Il camminatore dei grandi spazi, l’escursionista con lo zaino sulle spalle oppone alla civiltà l’esplosione di una rottura, la perentorietà di una negazione (ricordiamo Jack Kerouac, e il suo On the road). Il flâneur sovverte la solitudine, la velocità, l’affarismo e il consumo. In poche parole, mentre i giardini sono luoghi dove: “d’estate ci si attarda fino a sera inoltrata nella luce arancione e nei riflessi viola, nella dolcezza del buio che scende pian piano, e nella polvere di quelle migliaia di passi (…) Per chi abita in città, l’esterno è solo un luogo di transizione, un intermezzo (...) La vita reale continua in ufficio o a casa, prevalentemente all'interno di spazi chiusi”. Prevale il dentro, rispetto al fuori".
Il modo in cui viviamo, peraltro, non riguarda soltanto noi, nell'affettività non siamo mai soli: un’affettività più intensa porta con sé una forte sensazione d’inserimento – un grado più elevato di appartenenza. In questo potenziale c’è sempre un atto etico dal momento che condiziona il “dove” vogliamo andare; ci dice in che modo riusciamo ad abitare l’insicurezza. Esprime la nostra capacità di transitare, avanzare nella vita affrontando le costrizioni. Ci dice che camminare è sempre una caduta controllata. Il camminare è una metafora dell'inquietudine umana ma anche esperienza di stupore quotidiano: la mente ha bisogno, camminando, di sostare su ciò che vede, rimanendone stupita. Questo percorso è disarmonico, niente affatto lineare, e assomiglia al procedere per tentativi della ricerca filosofica e scientifica: un camminare per tentativi che esplora quindi disequilibrio più che armonia.
“Camminare è inutile come tutte le attività essenziali. Atto superfluo e gratuito, non porta a niente se non a sé stessi, dopo innumerevoli deviazioni” scrive Le Breton. Forse, dovremmo tutti trovare del tempo per farlo, forse dovremmo renderci conto che la vita – come ricorda una vignetta che circola in rete – è quella cosa che ci accade mentre siamo intenti a guardare sullo smartphone. E se camminando teniamo lo sguardo fisso sullo schermo, inciampiamo: è molto probabile. Distratti, inciampiamo e cadiamo. Camminare, invece, è ritagliare un momento di attenzione, è – appunto – deviare, ma per arrivare, in fondo, sempre allo stesso punto, al punto di partenza, e quel punto siamo noi.
Se è vero che camminare è meravigliarsi, respirare a pieni polmoni e attivare al massimo grado i nostri sensi e la nostra sensibilità, la sensibilità porta con sé anche una dose consistente di nostalgia, e muoversi è sempre stato una questione di scelte e di rinunce. Ecco che allora la nostalgia più potente del camminatore sarà quella per “...la strada abbandonata: non è dato sapere se questa portasse a una verità personale che avrebbe potuto modificare il corso della vita indirizzandola su una via propizia, o alla meraviglia di un paesaggio, di un incontro”.
Come scrive Stevenson “sapere che qualcun altro ha provato e visto le nostre stesse cose, anche se si tratta di cose poco importanti, in un modo che non è molto diverso dal nostro, resterà sempre uno dei piaceri più preziosi”.
Camminare è un’arte, è – scrive ancora Le Breton – “il privilegio di esistere, semplicemente, e sentirlo”, una magnifica riscoperta di umanità. È un’arte lenta, particolarmente preziosa oggi, in un mondo in cui il corpo risulta essere una parentesi, un ingombro. Scrisse Nietzsche: “...le nostre preoccupazioni nascono proprio dalla sedentarietà, da quella pigrizia fisica e morale, da quell’incapacità di muoversi, di cominciare”. (…) “Star seduti il meno possibile; non fidarsi dei pensieri che non sono nati all'aria aperta e in movimento – che non sono una festa anche per i muscoli. Tutti i pregiudizi vengono dagli intestini. Il sedere di pietra è il vero peccato contro lo spirito santo”. Oggi, in un’epoca di sederi di pietra, camminare è un anacronismo da salvare, nelle nostre giornate veloci, istantanee, efficienti; camminare è salvare noi stessi perché ogni cammino è custodito innanzitutto dentro di noi, prima che si declini sotto i passi.
"Non invidiava le automobili, sapeva che in automobile si attraversa ma non si conosce una terra. A piedi vai veramente in campagna, prendi sentieri e costeggi le vigne, vedi tutto. C'è la stessa differenza che guardare un'acqua e saltarci dentro", è una delle metafore più vicine alla verità di Cesare Pavese.
Stalker/Osservatorio Nomade è un collettivo di artisti ed architetti fondato a Roma nel 1995, composto da Francesco Careri, Aldo Innocenzi, Romolo Ottaviani, Giovanna Ripepi, Lorenzo e Valerio Romito. Il collettivo si definisce Laboratorio di Arte Urbana, che compie ricerche e azioni sul territorio con particolare attenzione alle aree di margine e ai vuoti urbani in via di trasformazione, coniugando in un’unica modalità di azione ed intervento la pratica artistica e l’osservazione dello spazio urbano. I progetti di Stalker hanno come prerogativa il coinvolgimento collettivo, la partecipazione del pubblico all’interno dell’intero processo creativo. In quest’ambito Stalker ha effettuato vari workshop e progetti, in zone interstiziali di città come Roma, Milano, Torino, Parigi, Berlino, Miami e Seoul. Le indagini si sviluppano su diversi piani interdisciplinari e progetti, definiti Territori Attuali. L’attraversamento di questi territori è inteso come momento creativo che recepisce gli stimoli dello spazio circostante e cerca di sbrogliarne le complessità attraverso l’immersione nei suoi processi di trasformazione. Questo bagaglio di sensazioni porta alla produzione di mappe cognitive che coniugano l’esperienza minima del quotidiano con uno sguardo più ampio e generale. Dal 2001 Stalker promuove Osservatorio Nomade, un network transdisciplinare in grado di integrare conoscenze e linguaggi capaci di cogliere, attraverso relazioni incrociate, gli aspetti sommersi inerenti la complessità del territorio metropolitano. La modalità di intervento dell’Osservatorio Nomade è fondata su pratiche spaziali esplorative, di ascolto, relazionali, conviviali e ludiche, attivate da dispositivi di interazione creativa con l’ambiente investigato, come nel caso dell’installazione urbana presentata per la Fondazione SoutHeritage. La modalità operativa descritta, oltre ad essere un inedito strumento di conoscenza, contribuisce a promuovere la diffusione di una maggiore consapevolezza della popolazione nei confronti del proprio territorio e quindi ottenere più efficaci feedback di partecipazione creativa nella gestione delle problematiche territoriali e urbanistiche. Stalker ha preso parte a numerose mostre e a importanti rassegne internazionali, tra le quali la Biennale di Architettura di Venezia nel 2000 e nel 2004, la Biennale di Tirana nel 2001, Manifesta 3 a Lubiana e Mutations a Bordeaux nel 2000.
La Marcia del sale di Gandhi. Un forte esempio del potere sovversivo e di protesta del camminare
Per accompagnare il nostro camminare e le corse in natura, con un tema musicale profondo e non chiassoso... Quando la musica è silenzio che porta a se stessi e che crea ponti... Oppure quando è catalizzatrice del senso di meraviglia per ciò che ci circonda...
(MC) Il 3 dicembre 2017 si svolgerà l'11^ tappa del Circuito Ecotrail Sicilia che, con il Trail dei Nebrodi sulla distanza di 66 km (previsto anche un percorso più breve di 20 km), porterà i trailer e gli appassionati della corsa in natura a correre sui Nebrodi, nel cuore di impareggiabili scenari. Ci pare pertinente pertanto proporre questo articolo di Cettina Vivirito che parla di "percorsi selvaggi"sui Nebrodi alla ricerca dell'ebbrezza dionisiaca. I Nebrodi, oltre che luogo di grande bellezza naturalistica, pressoché incontaminata, sono luoghi che da tempo immemore racchiudono molte magie, scaturenti forse dall'energia stessa che promana dalla Natura. Gli antichi sentirono questo, come in altri luoghi il mistero e il silenzio dei boschi viene animato, secondo le credenze locali, da esseri appartenenti al "piccolo popolo", il dio Pan e altre entità che possono aprire la via verso misteriosi mondi paralleli. Testimonianza di questa immensa energia sono i culti che, in successive epoche storiche, in questi luoghi si sono susseguiti, di cui resti significativi sono i riti e i simbolismi delle feste religiose locali che sicuramente racchiudono in sé stratificazioni sincretiche.
E che vi siano in opera forze non chiare e al di là dell'umana comprensione è indubbio: basti pensare al mistero irrisolto degli incendi spontanei di Caronia, per il momento soltanto sopito, ma mai effettivamente risolto, raccontato da Valentina Gebbia in un suo romanzo (Fuoco grande, Dario Flaccovio), in cui - al di là di tutte le ipotesi ventilate - l'Autrice propone un ritorno alla mitologia greca e alle forze animistiche che pervadono la Natura e che, qui in questi luoghi, continuano a lasciare tracce significative, manifestandosi di tanto in tanto con impeto. I riti e le usanze nel corso delle feste religiose hanno - rispetto a queste forze -proprio una funzione propiziatoria e di scongiuro, ma servono anche a ricordare che ci sono sempre elementi che possono irrompere nel mondo delle piccole certezze quotidiane. Per tutti questi motivi, camminare (o correre) nei boschi dei Nebrodi può avere una valenza perturbante poiché nel silenzio dei boschi - se si abbandona l'attitudine razionale che ci domina come frutto dell'azione della neocorteccia del cervello, ultima formazione ad essere comparsa nello sviluppo filogenetico dell'uomo - ci si può trovare a contatto con le vibrazioni dell'ominoso, cioè di forze che non siamo di comprendere appieno(e questo tipo di incontro può essere alla base delle cosiddette "estasi selvagge"). E vorrei citare qui l'elemento meraviglioso che è insito nelle "vie dei canti" degli aborigeni australiani, descritte magistralmente da quell'impenitente viaggiatore che fu Bruce Chatwin e catturate da alcuni cineasti, come ad esempio il celebrato "Picnic a Hanging Rock". L'articolo di Cettina Vivirito ci parla di tutto questo.
(Cettina Vivirito) Ricordo un incontro con Dioniso, il giorno in cui assaggiai il vino novello, nella campagna nebroidea. Camminavo con un amico per i campi, ci eravamo inoltrati in un boschetto ed io ero felice come quando ci si inoltra in un contado leggiadro, ma a distanza di tempo non me ne ricordo nemmeno, dei caratteri di quella contrada. Sono i profumi che rimangono intatti e riempiono la memoria, la sfidano con la loro varietà che non si riesce a fermare con le parole. Sono i sentori di quei fiori e quelle erbe che soltanto su queste montagne crescono e giungono nuovissimi alle narici appena lasciata la provinciale.
Arrivammo a una casetta dove un gruppo di uomini stava degustando il vino nuovo e ci osservarono con attenzione, ma subito il più anziano ci pregò di partecipare, con un tono dove mi parve di sentire la forza, di così remote origini, dell’ospitalità; i volti seri e benevoli mi diedero la dionisiaca sensazione di quel rito arcaico. Ci si sentì accomunati. Prima che ce ne andassimo, quattro di loro si alzarono a danzare dignitosamente una lenta danza in tondo. Ci salutammo in silenzio, ma lì Dioniso avrebbe continuato a stare sdraiato degustando dalla coppa.
Come in una storiella infantile raccontata da Elemire Zolla, credo che questa esperienza, in altra manifestazione, appartenga anche a quella di ogni bambino: gli si presenta un coetaneo e i due si guardano a vicenda contraccambiando noia, stando immobili e indifferenti l’uno al cospetto dell’altro. Tutt’a un tratto una parola cade nel silenzio o una corrente scatta fra i loro occhi e subito si sentono trasportati in un altro, incomparabile spazio. Distanza, differenza, intervallo di separazione sono svaniti, essi formano un’unità. Corrono furiosamente gridando, eccitandosi, soffiano fiatoni fitti fitti, come stessero nuotando in un’acqua ribollente. Dura quel che dura, qualcuno interviene, basta una voce seria e tornano in sé, separati, distinti.
Questo trasporto ha un nome proprio, Dioniso, cui Ovidiosi rivolgeva esclamando: Tu, Puer aeternus. L’incontro con Dioniso può nascere da un vinello qualunque che precipiti all'improvviso in un'esuberante risata, ogni mossa fa piegare in due dai singulti, tutto si palesa come un immenso scherzo. E’ in grado di appropriarsi della nostra vita all'improvviso in un qualunque momento. Dioniso spezza il giogo delle dualità: conscio/inconscio, persona/cosmo. Sta sempre in agguato e grazie a lui ci si congiunge all'ambiente, non si sa più che cosa siano, dove abbiano confine, il bene e il male.
Storiografi e mitografi generalmente sono d’accordo nell’escludere che il mito di Dioniso sia sorto in Grecia, dove il culto dionisiaco si radicò non prima del VIII secolo a.C. Secondo alcuni, il mito di Dioniso sarebbe di origine tracica, secondo altri di origine cretese, secondo altri di origine indiana. Storicamente documentato è invece che la versione più antica del mito di Dioniso sia coeva alle origini di Agatirno, (l'attuale Capo D'Orlando), città sacra a Dioniso; che in tutto l’orbe terracqueo solo i Nebrodi furono, di nome e di fatto, i monti di Bacco: il paesaggio dei quali, ancora oggi, è il più dionisiaco che si possa immaginare, anche se non vi sono più i cerbiatti che vi pullulavano nell’antichità, fino a quando furono animali protetti, appunto perché sacri a Dioniso; che secondo la tradizione più antica, raccolta dall’autore del più grande poema che sia stato mai composto in onore di una divinità pagana (le “Dionisiache”, in 48 canti, del Nonno di Panopoli), proprio in Sicilia sono collocati il concepimento e la nascita del primo Dioniso.
Dalla valle del torrente Manazza, in territorio dell’odierna Capo d'Orlando, e fino alla contrada Maina ed alla fonte omonima, in territorio dell'odierna Naso, vi è tutto un sentiero che, con questi stessi nomi (Manazza, Maina) ricorda l’antichissimo culto, derivando l'uno e l'altro nome dal greco mainás: da máinomai, che significa infuriare, essere invasati, per l'appunto da Dioniso o Bacco. Nella stessa valle si trova un’antichissima fonte, che i nativi hanno sempre chiamato con il nome Lia. Anche questo nome ricorda il dio Dioniso, che era invocato con l’appellativo Lièo (lo scioglitore dagli affanni). Nelle campagne di Capo d’Orlando sono stati rinvenuti numerosi oscilli (da oscillum, nome latino, composto di os e cillum, piccolo viso), ossia dischi di terracotta, raffiguranti il volto di Bacco, i quali venivano appesi ai rami degli alberi affinché, oscillando (da cui l’origine del verbo oscillare) allontanassero le forze malefiche dai campi.
Ma il culto di Dioniso o Bacco nei Nebrodi è attestato da prove certe, quali sono le monete delle antiche città di Alesa (odierna Tusa), Amestrato (odierna Mistretta), Calacte (odierna Caronia Marina) e Aluzio (odierna San Marco d’Alunzio): nelle quali monete appare la figura di Bacco, a volte accompagnata da quella di Sileno (compagno inseparabile di Bacco). Risulta quindi essere una solenne sciocchezza quella tramandata dal geografo latino Solino (del III – IV secolo d. C.) ed avallata dal Pais, secondo cui i Nebrodi avrebbero preso il nome dai cerbiatti (in greco nebrói) che vi abbondavano nell’antichità; è stato ignorato che Dioniso si chiamava pure Nebródes: i Nebrodi furono quindi, di nome e di fatto, i “monti di Bacco”.
L’inizio delle celebrazioni dei «misteri dionisiaci», così come pure quello dei «misteri eleusini», si perde nella notte dei tempi. La loro fine fu decretata ufficialmente nel 392 d.C. con l’editto di Teodosio il Grande che dichiarò il Cristianesimo religione ufficiale di Stato. Da quel momento ebbe inizio una persecuzione più o meno manifesta contro i riti non-cristiani che, nel corso dei secoli, distrusse e fece sparire non solo antichi riti e templi degli dei pagani, ma anche intere città, tra le quali la famosa Demenna che, sotto la dominazione araba, diede il nome a tutto il Val Demone. E, la cui etimologia è ricondotta da Michele Amari in Storia dei musulmani di Sicilia, al verbo greco “diameno”: “perduranti”, cioè permanenti nella fede (dell’Impero bizantino).
Nulla di strano se alcuni “ornamenti” della storia locale, quali: il vecchio toponimo Ficara, che sta a indicare un territorio coltivato, in prevalenza ad alberi di fichi; l’appositivo “de Camino” (un “Cammino Sacro” simile a quello della “Strada Sacra” di Eleusi), rinvenibile nel diploma con il quale l’imperatore Federico II, nel 1249, concesse al vescovo di Patti il grande bosco di Ficarra, Sinagra e Piraino, che comprendeva anche la chiesa di San Pietro de Camino (sita sul limitrofo Capud Brinionis) e una casa solarata dove “vi sono botti che possono contenere 160 salme di vino”, il pascolo, sotto tali boschi di greggi dei più pregevoli “castrati” della Sicilia che, come fece notare lo storico Tommaso Fazello nel 1500: “Mentre son vivi e dopo la morte recano i denti perpetuamente dorati”; l’antica consuetudine, che ancora si rinnova ogni anno, di regalare per la “Festa dei morti” fichi secchi e certi dolcini (i cosiddetti “ossa di morti”) che hanno il tronchetto superiore di farina a mo' di fallo maschile, e la parte sottostante color miele a forma di ovale che, sia pur vagamente ricorda la vagina femminile; la riproduzione spontanea della razza autoctona del cosiddetto “suino nero dei Nebrodi”; l’antico nome del porto di Brolo (considerato l’affaccio a mare di Ficarra) che gli Arabi chiamavano Marsà Dàliah, cioè “porto della vite”, possano costituire “l’adombramento” della perpetrazione di antichi riti, tradizioni, usi e costumi risalenti al periodo in cui, anche qui, imperava il culto di Cerere e Diòniso.
Col solstizio d’estate, ancora oggi, si aprono le danze delle feste pagane sui Nebrodi; compromesse col cattolicesimo, hanno l’aria e la parvenza di manifestazioni e culti religiosi, ma in realtà non sono altro che la perpetuazione di quei riti ancestrali che, una volta all’anno permettono all'autentico sentire di manifestarsi liberamente. La Valdemone, intendendo con ciò una delle tre valli in cui la Sicilia un tempo era amministrativamente divisa, dalla dominazione araba al periodo borbonico (Valdemone, Val di Noto, Val di Mazara), è quella che, ricomprendendo nel suo ambito l’Etna, a lungo considerato antiporta dell’aldilà, precisamente punto d’accesso agli inferi, (da ciò il territorio sarebbe stato detto Vallis Dæmonorum) attrae ancora oggi, a partire dalla primavera e per tutto il periodo estivo tantissime persone provenienti da ogni luogo che vogliono, attraverso le tipiche feste locali, rivivere in qualche modo, quel mito lontano.
La festa dei Giudei a San Fratello, che si svolge durante la settimana Santa da centinaia di anni è sicuramente la più spettacolare di tutte; come tutte le feste dionisiache pagane di primavera, esalta l’energia vitale della natura e degli uomini che si sprigiona con la rinascita annuale della natura, con un forte spirito orgiastico, scanzonato, anche delatorio ed esagitato, in una commistione fra sacro e profano. Gli strani personaggi che la rappresentano, abbigliati in modo appariscente con giubbe rosse, gialle e pantaloni dai colori sgargianti, indossano delle maschere grottesche dalle quali fuoriesce, a seconda dei casi, una lingua nera, una coda animalesca, simboli strani che vengono portati in giro per il paese con schiamazzi e suoni di trombe, campanacci e catene, sbeffeggiando e molestando tutti, anche le più ortodosse e compunte processioni.
La festa “du muzzuni” si svolge durante il solstizio d’estate ad Alcara li Fusi da quattromila anni e per questo è considerata la festa più antica d’Europa; conserva anch'essa i riti di propiziazione della fecondità dell’uomo e della natura, che nell'antichità si celebravano in onore di Demetra e Adone, al sopraggiungere del nuovo raccolto. Espressione della visione ciclica della vita, che è tipica delle culture agricole, il culto di Adone consisteva essenzialmente nel rito della falloforia (muzzuni) e nella preparazione dei giardini di Adone ( i lavuri) da parte delle giovani donne cui era caro il dio. Il “muzzuni” consiste in una brocca dal collo mozzato da cui fuoriescono garofani, spighe di lavanda, germogli di grano, e viene rivestito da un fazzoletto colorato e dai gioielli di famiglia raccolti nel vicinato che costituiscono il corredo delle spose contadine. Il “muzzuni”, venerato come un Santuario, diventa simbolo delle aspettative contadine per un raccolto abbondante; la sua ricorrenza è sempre stata legata a strani fenomeni dai quali si potevano trarre previsioni per il futuro: la rugiada della notte tra il 23 e il 24 giugno veniva ritenuta benefica per gli uomini e per gli animali e si racconta che in quella notte si potessero avvertire voci misteriose e luci che giravano attorno ai campanili.
Ma la festa dionisiaca che le racchiude metaforicamente tutte è forse quella in onore di San Teodoro, celebrata a Sorrentini, la più antica e la più strana borgata del pattese. Piantata a mezza costa del Melinso, con le sue case sparse alla rinfusa e prive di qualunque linearità architettonica, ha una breve piazza che è la più umile e la più suggestiva dell’intero territorio. Nella Chiesa Madre, al posto d’onore, troneggia la statua del santo scolpita nel legno; un’opera di discreta fattura ma che possiede invero requisiti sufficienti ad esaltare la grande fede di quel contado. La sua festa si celebra la prima domenica d’agosto e, come ha scritto G. Mellina Ocera, “fanatismo e barbaria si fondono in riti in cui la fede assurge alla potenza d’un mistero dionisiaco”.
Nessuno riesce a scoprire dove finisce la commedia umana per un istintivo, primordiale bisogno di clamore e dove cominci l’autentica follia della moltitudine che attende, disperatamente infatuata, il compiersi del miracolo, il segno della suprema comprensione del santo martire. La notte della vigilia, su per i sentieri vaga ininterrottamente una lunga teoria di fedeli che regge in mano fiaccole accese; è la processione dei pannusi (ddisa o ampelodesma che cresce rigogliosa in quei luoghi e che ad agosto è sufficientemente secca per ardere), dando luogo a uno spettacolo notturno carico di energia con una evocazione da tregenda, i bagliori rosseggianti trasfigurano i volti di quella moltitudine che va come insinuandosi tra gli alberi. Alla fine della lunga processione si torna alla Chiesa Madre dove viene acceso un grande falò con le fiaccole residue e attorno ad esso si inizia una danza al suono della tradizionale musica di San Teodoro girando, ora in un senso, ora in un altro, fino al finale salto sul fuoco. La danza vorrebbe ricordare il martirio del santo, morto sul rogo, in realtà ha una valenza non proprio cristiana: vengono richiamati antichi riti propiziatori caratteristici delle comunità agresti e, probabilmente, legati al culto del sole, come testimonierebbero alcuni reperti di epoca greco-romana rinvenuti a Sorrentini e nella vicina Gioiosa Guardia. Quando il sole sorge uno sparo potente indica che il Santo sta per uscire dalla chiesa per intraprendere il suo interminabile viaggio attraverso viuzze, sentieri, scale e dirupi; mentre la banda suona una speciale tarantella (che si fa risalire allo stesso santo), gli uomini si accostano alla vara della statua: si deve uscire dalla porta centrale in un unico slancio, senza incertezze nel superare l’ostacolo (vero o finto) che può pararsi davanti alle stanghe della vara che vacilla, ondeggia, arretra, avanza e riprende la corsa come un possente ariete medievale. Per l’occasione non mancano gli indemoniati i quali si accostano al santo con uno sguardo attonito, spinti dalla folla che grida e tumultua e quando non ce ne sono c’è sempre un buon fedele che si presta a fare lo spiritato; l’invasato poi, vero o finto, viene trascinato ai piedi del santo lacero e con la bava alla bocca, gli occhi stravolti mentre la folla grida: “Santu Todaru! Libiralu! Libira la criatura!” Guai al santo se non ubbidisse all’invito perentorio, correrebbe il rischio di essere investito dalle più turpi ingiurie piuttosto che essere laudato: il miracolo quindi deve compiersi e si compie.
Per tutto il giorno il santo, portato a spalla e conteso dalla folla gira per quelle viuzze come in una interminabile giostra vorticosa, soffermandosi ad ogni casa davanti alla quale i portatori ricevono le generose offerte, in denaro ma per antica costumanza insieme a grandi fiaschi di vino di strane forme dalle quali a garganella, bocche avide e mai sazie traggono nuovo vigore e più viva fiamma d’entusiasmo. Il giro viene ripreso e si ripete ancora e ancora; le scene che si succedono sono tra le più varie e qualche volta di una tenerezza toccante. Molti vecchietti attendono davanti la porta che il santo passi per donare una gran bella pianta di basilico (dono considerato regale, basileus vuol dire Re) e spesso dicendo ad alta voce: “Beddu.. Beddu!.. Pi ‘ te la sarvai sta bedda grasta di bacinicò!”.
Così il Santo riprende il suo interminabile giro tra campane squillanti e la danza dei portatori e della banda ormai alticci, facendo sfoggio di dissonanze dodecafoniche fuori programma. A mezzogiorno le campane sembrano impazzite e convulse: i portatori e i fedeli tutti abbandonano il santo su una via qualunque: è l’ora del pasto pantagruelico a base di maccarruni cu puttusu e pecora al forno e vino ancora vino fino all’ubriachezza.
Come un avamposto della memoria dionisiaca posto a seicento metri sul livello del mare, in quei muti miraggi d’orizzonte dispersi in perimetri di esiliata felicità dal gioco di correnti senza meta, sta il sogno del Re taumaturgo, della liberazione dalla possessione, dalla follia, un sogno blasfemo di rinascere alle sconfitte, ultime eresie del pensiero.
Quando il poeta scrive che «perciò sussurrando ci incorona i capelli il dio comune / e fonde in uno le coscienze come perle di vino»; quando, passeggiando, incontriamo lo sguardo immobile di un animale e ci specchiamo nella sua divinità — allora, e molte altre volte, Dioniso si manifesta e ci ripropone la consapevolezza dell’impermanenza, ci reinsegna il mondo animale e la natura vegetale. E se questo ci inquieta, Dioniso ha raggiunto il suo scopo.
Ogni tanto ci dimentichiamo che - nel mondo sportivo - esiste la piaga dei tagliatori, dei "sarti", dei "bombati", degli imbroglioni, insomma. Chi sa per quale ragione, anche la corsa sulle lunghe distanze - che tuttora si definisce "amatoriale", pur essendolo sempre di meno perché ospita nei suoi ranghi podisti sempre più agguerriti e determinati a correre ogni gara come se si trattasse di una guerra - alimenta questo fenomeno triste e svisante rispetto al più genuino spirito sportivo e al fatto che la pratica sportiva dovrebbe essere fondamentalmente, prima di ogni cosa, un buon cibo per la mente. E d'altronde anche le ultra - per quanto sempre più tecniche e richiedenti allenamenti razionali e costanti con carichi di lavoro sicuramente maggiori rimangono pur sempre la 95% un fatto amatoriale. Cesare Monetti, al termine della sua partecipazione ad una Ultra di recente nata, in verità - secondo la parola di nuovo conio, mai sentita prima per un'Ultra - una "ecoultramaratona", la "Scorrendo lungo il Liri", sulla distanza di 65 km e valida tra l'altro come Campionato Italiano IUTA 2017 80 miglia, segnala su Facebook, un episodio di questo tipo messo in atto da una "atleta" (il virgolettato ha la sua ragion di essere nel fatto che che chi compie simili azione non è un "vero" atleta, ma solo un impostore nei panni di sedicente atleta). Episodio tanto più grave se si considera che "Ciabattina" (così la chiama Monetti) con il suo imbroglio si è classificata: ancora una volta si vede come si crei uno spartiacque tra atleti onesti e i disonesti. Quanto più estremo si fa il correre, tanto più la voglia di prestazioni e di risultati induce molti a ricorrere alle vie brevi per raggiungere il proprio obiettivo: una forma svisata e sviata di volontà di potenza e di dominio, niente di diverso nelle motivazioni più profondo dal ricorso al doping. Tutto ciò turba l'animo dei molti (che fortunatamente rimangono la maggioranza) che hanno un approccio rilassato alla corsa sulle ultradistanze e che affrontano le imprese soltanto come sfida in se stessi. Il fatto che la runner in questione usasse i sandaletti che vanno di moda tra i runner "al naturale" e tra coloro che seguono la filosofia di "Born to Run" (Christopher McDougall) è un ulteriore schiaffo agli onesti e agli idealisti della corsa, perché "Ciabattina si è fatta bella di una cosa che proprio non le compete.
Oggi prenderei a schiaffi una donna. Sì, sì... Quella grande stronza che ieri alla "Ultra Scorrendo con il Liri" si è presentata al via facendo la figa con le sue ciabattine infradito dicendo anche a chi la applaudiva: "Dopo le tolgo pure"
Sì certo... hai corso davanti e dietro di me fino al 38 km...con una proiezione per il passaggio maratona sulle 4 ore, come io in effetti sono passato.
Al 38°, in effetti, sei sparita... Poi mi hanno riferito che ti sei presentata al traguardo dopo 25 km, al 65km finish line in 5h30' circa totali...
Ovvero un'ora e mezza solo dopo.
Quarta donna.
Ti hanno beccata controllando il gps.
E ti sta bene.
Fanculo a te e a chi ti ha portato in auto.
Brutta stronza... Le ciabatte mettitele... in spiaggia. Di sicuro le hai tolte...in auto, certo: perché ti facevano male i piedini magari. Comprati un paio di scarpe e vedi di imparare a non barare.
Ecco. 'Sta cosa ce l'avevo qui da stanotte alle 3.00, quando sono arrivato a casa.
PS - Ci sono forti sospetti su altre donne. E andrò a fondo.
Però così le Ultra senza controlli non sono davvero credibili e sono una farsa.
Senza senso... Ma che se ne stia a casa la prossima volta! E' uno di quei comportamenti che rovinano lo spirito genuino del mondo della corsa. Bisognerebbe che coloro che imbrogliano venissero smascherati più di frequente. E concordo con Cesare Monetti sul fatto che le Ultra senza controlli (che riguardino tutti e non solo i top runner) non hanno senso. I controlli ci devono essere eccome! Io penso che, laddove gli organizzatori non siano in grado di garantire questo aspetto anche - soprattutto - nel rispetto della dignità degli atleti onesti, dovrebbero rinunciare oppure ripiegare su una più maneggevole ultra su circuito, in cui il traffico automobilistico di eventuali accompagnatori non abbia ragione di essere. In più, secondo la buona tradizione francese, nelle loro ultra in linea, è addirittura previsto l'assistenza, ma da parte di un assistente cui è consentito di viaggiare solo ed esclusivamente in bicicletta, a partire dal 10° km in avanti. E l'assistente in bici deve regolarmente iscriversi alla gara (pagando una sua specifica quota d'iscrizione) e portare un numero di pettorale abbinato a quello dell'atleta che accompagna. Si abolisce così la piaga delle auto seguito nei circuiti o nei percorsi di gara. In più, occorrerebbe che gli atleti portassero con sé dei dispositivi che consentissero di evidenziare in qualsiasi momento la loro posizione e lo stato della loro avanzata, in modo tale da potere segnalare in tempo reale eventuali anomalie e poterle poi contestare dati storici della corsa inoppugnabili alla mano.
Fra gli altri fiumi che bagnano la regione dei Marsi, si distingue il Liri che nasce da alte montagne presso Cappadocia e scorre verso sud in una valle chiusa nell'una e nell'altra parte da continue
(Cettina Vivirito) C’è un silenzio del cielo prima del temporale, delle foreste prima che si levi il vento, del mare calmo della sera, di quelli che si amano, della nostra anima, dei camminatori solitari, poi c’è un silenzio che chiede soltanto di essere ascoltato.
Marcel Marceau che per 50 anni ha calcato le scene senza proferire una sola parola ha sostenuto che tutte le arti, silenzio compreso, hanno una loro grammatica ma prima bisogna sintonizzarsi sull'anima con il corpo, con il cuore, con lo sguardo. Non basta fare dei gesti, non basta neppure stare zitti, occorrono uno scopo, una strategia, una volontà tattica. Tacere diventa significativo quando si è assolutamente in grado di parlare ma si sceglie di non farlo non per negare la comunicazione semmai per espanderla; non per sottostare passivamente a tabù o imposizioni esterne piuttosto per aggirarli e obbedire al principio di efficacia.
“Si parla troppo”, ripeteva il premio Nobel José Saramago, convinto che solo il silenzio esiste davvero. Perché riusciamo a sentirlo (Michael Wehr, psicologo dell'Università dell’Oregon, ha scoperto i neuroni appositi), perché ne abbiamo bisogno (si moltiplicano alberghi e vacanze anti rumore) e perché, come insegnava Paul Simon, ne cogliamo il suono anche “in mezzo a diecimila persone e forse più”.
Per ascoltare occorre tacere. Senza silenzio non c’è parola, non c’è musica. Spesso però lo evitiamo, ne abbiamo quasi paura, abbiamo perso l’abitudine a stare soli. Eppure la lettura e la scrittura nascono dal silenzio, si nutrono del silenzio e il libro stesso ne è massima espressione: colmo di parole, tace.
Erling Kagge, classe '63, nel 2016 ha scritto un bellissimo libro, Il silenzio Uno spaziodell'anima, pubblicato da Einaudi Stile libero, per la traduzione di Maria Teresa Cattaneo. La sua personale ricerca del Silenzio lo ha portato al Polo Nord, al Polo Sud e sulla cima dell’Everest. Aveva raggiunto il Polo Nord nel maggio del 1990 assieme a un altro esploratore e dopo aver trascorso 50 giorni con una temperatura a meno di 54°C e bruciate quasi tutte le riserve corporee di grasso- il giorno stesso dell’arrivo al Polo passò per caso sopra di loro un aereo da ricognizione americano: i piloti rimasero sorpresi nel vederli, e gettarono loro un contenitore pieno di cibo. Al Polo Nord non c’era dunque silenzio. Non c’era nemmeno negli oceani e Kagge se ne accorse nella primavera del 1986, durante un viaggio in barca a vela lungo le coste del Cile. Una mattina all’alba, mentre faceva la guardia nel turno più duro, da mezzanotte alle quattro, udì qualcosa che sembrava un respiro lento e profondo: era una balena con il dorso grigio che inspirava ed espirava. Per qualche tempo Kagge e la balena seguirono la stessa rotta: poi la balena scomparve. Conobbe il silenzio soltanto nell’Antartide: in quel paesaggio montuoso che si estendeva a perdita d’occhio, dove tutto sembrava uniformemente bianco ma in realtà non lo era, la neve era screziata d’azzurro, di rosso, di verde e perfino di rosa, in quel luogo remoto, completamente solo, non aprì bocca e se gli si rompeva un attacco, o rischiava di cadere in un crepaccio, non imprecava. Non c’erano, come a casa, telefoni che squillavano o qualcuno che suonava alla porta. Non ebbe contatti con nessuno: né via radio né via internet; completamente solo, il futuro non contava più, del passato non gli importava nulla, aveva chiuso il mondo fuori di sé e si sentiva a proprio agio, come non era mai stato, ascoltando quel Silenzio che aveva tanto cercato.
Per Kagge dunque il Silenzio è Dio. Nelle sue riflessioni solitarie ricorda che, come riporta mirabilmente la Bibbia, nel Primo libro dei Re si racconta che Dio si manifestò a Elia dapprima come vento impetuoso, poi come terremoto, poi come fuoco: Dio in realtà non era in nessuno di questi elementi ma soltanto in una brezza leggera, in un “silenzio sottile”. Nell’ultima frase del Tractatus logico-philosophicus, Ludwig Wittgenstein scrisse: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”: forse non a caso il Tractatus fu concepito in Norvegia, nel paese di Kagge, a Skjolden, all’interno del Sognefjord.
Nel mondo di oggi è difficilissimo trovare il silenzio, tanto più il Silenzio assoluto che Kagge non riuscì mai a conoscere, nemmeno quando comandò di essere chiuso in una stanza insonorizzata che impediva l’ingresso ai suoni esterni; anche lì c’era rumore. Abbiamo perduto la capacità di concentrazione, per Kagge: smettiamo di concentrarci dopo 8 secondi, ci sentiamo a disagio quando restiamo da soli in una stanza per 12 o 15 minuti senza poter ascoltare musica, leggere o scrivere: allora apriamo la finestra per guardare fuori. Tentiamo di fare silenzio dentro di noi, ma la nostra mente è sempre piena di idee ingovernabili; i ricordi e le immagini si affollano, cercando di catturare la nostra attenzione. Ma Kagge è convinto che tutti possano trovare il silenzio dentro di sé, anche se circondati dai rumori. È una sensazione bellissima, una grande gioia: non siamo più irrequieti, non facciamo assolutamente nulla, non viviamo attraverso le esperienze degli altri, restiamo cinque minuti di più a letto o andiamo al lavoro a piedi o ci ipnotizziamo per venti minuti: saliamo le scale, prepariamo da mangiare o contempliamo un’opera d’arte, cercando di capire cosa l’artista ci ha voluto rivelare; o viviamo nella natura, restando soli per tre giorni, senza parlare con nessuno; o conversiamo come fanno i giapponesi, che serbano il silenzio anche quando discorrono.
C’è un mito gnostico, al quale forse Erling Kagge si ispira. Il Dio gnostico porta uno strano nome: Abisso. Esso non evoca cavità indefinite o la vasta distesa degli oceani primordiali. Significa che Dio è superiore a tutte le qualità umane: senza vista, senza sensibilità, senza desideri, senza immagini, senza intelligenza, senza pensieri: ignora la forma, l’ordine, l’eguaglianza e la diseguaglianza; non vive e non è senza vita; è fuori dal tempo e dallo spazio. Questo Dio indicibile, incomprensibile, ineffabile, inesplicabile, questo Dio sconosciuto, di cui non si può né affermare né negare nulla, è il Non-Essere senza limiti, l’inconcepibile Vuoto, che contiene in sé stesso la possibilità di tutti gli esseri e di tutte le cose. Dio è l’essenza del mistero, cioè il Silenzio dell’ineffabile.
C’è dunque un’intima, indissolubile relazione fra Silenzio ed “Essere”. Con perfetta corrispondenza la dinamica che muove dal silenzio passa attraverso i suoni “udibili” solo interiormente, poi ai suoni concreti e approda alle parole articolate: ne deriva che per rientrare nell’unità divina si deve compiere a ritroso il cammino dalle parole, e perciò dal pensiero, ai suoni trascendenti e infine al silenzio, cioè all’Assoluto unitario.
E' il ritiro nella foresta assegnato alla vecchiaia dalla dottrina brahmanica ortodossa: qui si trascorre una vita semplice, parca nei cibi, dedicata alla lettura di testi sacri, alla preghiera, al silenzio, alla meditazione. In altre parole, l’induismo tradizionale prevede che, dopo la vita nel mondo con i suoi piaceri, le responsabilità e i compiti, il periodo finale dell’esistenza sia dedicato esclusivamente alla cura dello spirito. Un modello certo non proponibile in Occidente oggi, ma ricco di suggestione soprattutto per il rilievo assegnato al “silenzio”, condizione (quasi) inderogabile dell’incontro con se stessi di cui sempre più si avverte l’acuta nostalgia.
Uno dei passaggi fondamentali della cultura occidentale è quello narrato da sant'Agostino nelle Confessioni in riferimento alla figura del vescovo sant'Ambrogio: “Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l’ingresso e non si usava preannunziargli l’arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente”. Agostino è sorpreso dall’osservare un fenomeno sino ad allora ignoto alla sua pur vasta esperienza intellettuale: Ambrogio leggeva in silenzio, muovendo solo le labbra mentre scandiva le parole. Per molti secoli lettura e oralità sono andate insieme per cui chi leggeva aveva la necessità di leggere a voce alta perché solo così la combinazione dei segni alfabetici (privi com’erano di segni diacritici, segni interpuntivi, maiuscole, spazi tra le parole) prendeva la forma del discorso. Nel mondo classico, e in particolare romano, poi, l’attività dello scrivere e del leggere erano considerate servili, per cui era il segretario incaricato quasi sempre di leggere a voce alta a favore del suo padrone. Con Ambrogio, uomo colto e funzionario imperiale, si ha il primo esempio certo di un passo ulteriore, quello dell’interiorità. Il silenzio implica la vera capacità di lettura: prima c’era ancora la decifrazione dei segni in suoni e poi l’ascolto dei suoni per ricostruire il discorso. Ora invece il cervello è capace di sintetizzare direttamente i segni in discorso, senza l’intermediario sonoro. La lettura silenziosa è dunque una delle grandi conquiste dell’umanità che riesce, in questo modo, a recuperare dentro di sé uno spazio nuovo, un nuovo modo di interpretare e custodire il linguaggio.
Il silenzio è solitudine, è sensazione del nulla: Emily Dickinson esprime la sua angoscia e il suo male di vivere rifugiandosi, pur avendone paura, nel silenzio. La poesia di Garcia Lorca non ama il frastuono, necessita di silenzio. Non un silenzio qualunque e nemmeno il silenzio in generale, bensì il fare silenzio proprio della ragione che indaga la Verità e che tace di fronte alla sua rivelazione.
Come ha giustamente sottolineato Susan Sontag nel saggio “The Aesthetics of Silence”, per essere definito il silenzio “non cessa mai di coinvolgere il suo opposto e di richiederne la presenza”. Più che sull’atto di negazione però, è forse proprio sul confine tra presenza e assenza, suono e taciturnità, astratto e concreto, che vanno ricercate le forme del silenzio a partire innanzitutto dal gesto che lo identifica immediatamente nella cultura occidentale, e cioè il dito indice posato sulle labbra, il cosiddetto ‘signum harpocraticum’, emblema di un silenzio religioso e sacrale: in questa posa veniva infatti rappresentato in Grecia il dio del silenzio, il bambino arpocrate, versione ellenizzata della divinità egiziana Oro. André Chastel fa notare come il gesto possa avere una connotazione ambivalente: quella passiva mutuata dalla simbologia gnostica, dove la chiusura della bocca serviva a impedire l’ingresso dei demoni nel corpo, e quella invece attiva legata al nume egiziano che, come racconta Ovidio nelle Metamorfosi, “con il dito invita al silenzio”.
Un gesto incantatorio che avrà grossa risonanza nel mondo cristiano, soprattutto in ambito monastico dove l’atto della preghiera richiedeva esplicitamente il blocco della “chiostra dei denti”, andando ad alimentare, tra i primi fedeli, una vera e propria mitologia sulla necessità di difendere la bocca da qualsiasi infiltrazione malevola.
Se nel rinascimento il silenzio in cui erano immersi i personaggi rappresentati era fonte di irritazione iconoclasta per gli artisti – basti pensare alla leggenda di Michelangelo che, adirato contro il mutismo del suo Mosè, gli avrebbe lanciato contro un martello –, esso si pone tuttavia come la caratteristica imprescindibile dell’opera plastico-visiva.
Non è un caso che, in un saggio del 1946 dal titolo emblematico L’occhio ascolta che descrive la pittura olandese del Seicento, Paul Claudel converta questo topos tradizionale della “muta eloquentia” in “scuola del silenzio”, esaltando il silenzio come una forma di ‘discorso’ visiva in grado di comunicare conoscenze (e reazioni emotive) difficilmente accessibili altrimenti. Commentando un quadro “nel genere di van Goyen” ad esempio, Claudel osserva come i giochi di luce di quello che lui definisce un insieme “ridotto al silenzio” avessero la capacità di rivelare le cose grazie a un’impregnazione oleosa simile a quella presente nel paesaggio olandese, considerato “quella tasca, quello stomaco” in cui venivano inghiottiti e digeriti i numerosi tesori e valori del mondo.
Dunque, il ‘corpo viscerale’, la sostanza materica del dipinto è ciò che secondo Claudel definisce il silenzio e la sua potenza di fascino. Il ‘farsi corpo’ del silenzio non è più così demandato a una precisa mimica del soggetto (come nel signum harpocraticum), ma si trasforma nel “farsi corpo” della pittura stessa.
Secondo una leggenda contemporanea che trova le sue origini nella tradizione rabbinica, ogni essere umano porta inscritto nella propria conformazione anatomica il segno del silenzio: il “filtro” (prolabio), l’incavo tra naso e labbra, sarebbe l’impronta lasciata dal dito di un angelo venuto a chiudere la bocca al nascituro e a fargli dimenticare tutti i saperi che possedeva nell’utero della madre. L’arte, così come la letteratura hanno forse il compito di recuperare, o perlomeno segnalare, i segreti di questo Silenzio. “Solo quando ho capito che ho un intimo bisogno di silenzio, ho potuto mettermi alla sua ricerca; nei miei recessi più intimi, sotto la cacofonia dei rumori del traffico e dei pensieri, della musica e dei macchinari, degli iphone e degli spazzaneve, lui era lì che mi aspettava”, conclude Erling Kagge.
(MC) Credo che Il Silenzio di Erling Klagge, come illustrato egreggiamente nell'articolo di Cettina Vivirito, dovrebbe essere una lettura consigliata a tutti runner, soprattutto a coloro che affrontando esperienze che combinano la performance sportiva con una ricerca interiore e che dovrebbe entrare a far parte di una loro biblioteca portatile: e il mio pensiero va indubbiamente agli ultramaratoneti, agli ultratrailer e ai camminatori di lungo corso, per i quali l'esperienza del correre e del camminare, sia durante i diuturni allenamenti sia in corso di gare si svolge "via dalla pazza folla" e via anche dalle forme di competizione sfrenata che caratterizzano le gare di corsa di poche migliaia di metri in cui il frastuono della competitività spinta azzera qualsiasi possibilità di contatto con il proprio sé interiore. Non a caso vi sono popoli che praticano la corsa di lunga durata per finalità ritual-religiose: pensiamo, ad esempio, ai Tarahumara di cui si è occupato recentemente Christopher McDougall, nel magistrale Born to run(pubblicato in Italia da Mondadori, Strade Blu, nel 2014)oppure ai monaci corridoridel Monte Hiei che praticano nel contesto del Buddhismo una singolare forma di meditazione attraverso corse estenuanti ripetute ogni giorno, sino a raggiungere l'illuminazione e a passare a ulteriori stadi trasformativi del sè; ma possiamo anche pensare a forme di esportazione di tali discipline ai contesti occidentali, in formule nuove ed inedite che, tuttavia, attraggono stuoli di seguaci: e qui possiamo citare l'Associazione di runner con diramazioni internazionali fondata dal guru Sri Chimnoy. O ancora, senza arrivare ad una partecipazione codificata ad organizzazioni che praticano la disciplina della meditazione attraverso la corsa o altre forme di sport, può essere citato il concetto di "psicoatleta" coniato da Enrico Brizzi, scrittore ma soprattutto grande camminatore. E non ci sorprende ancora, considerando questi punti di repere così brevemente menzionati il fatto che, al giorno d'oggi, in cui tutto é in crisi e non ci sono più certezze confortanti, si diffondano sempre di più le esperienze del "camminare profondo": non si può spiegare altrimenti la popolarità crescente (e rinnovata, nel senso di essere sempre più "laica") di cui gode il Cammino di Santiago che, benché intrapreso con le motivazioni più diverse (alcune delle quali apparentemente banali), man mano che, giorno dopo giorno, si macinano chilometri in una diuturna fatica, porta i camminatori verso se stessi, togliendo progressivamente assieme al sudore tutti gli orpelli del vivere quotidiano, tutto ciò che è inessenziale, sino a condurre ad un contatto intimo con il proprio nucleo interiore. Nell'esperienza degli sport di lunga durata (rientranti nella definizione di "endurance") si è inevitabilmente captati da una disciplina del silenzio, così come descritto da Kagge che, evidentemente, ha potuto attingere le sue riflessioni profonde proprio dalle sue imprese di esplorazione estrema che, inevitabilmente, hanno finito con il diventare banco di prova - e nello stesso tempo affiinamento - delle proprie risorse interiori e terreno fertile di incontro con il trascendente a-istituzionale, in quel contesto che altri studiosi hanno definito di "estasi selvaggia" (vedi, come documentato esempio, lo studio di Michel Hulin, La mistica selvaggia.Agli antipodi della coscienza, IPOC, Milano, 2012).
L'autore de "Il Silenzio". Erling Kagge (Oslo, 1963) è stato il primo uomo a raggiungere il Polo Sud in solitaria e il primo a raggiungere i «tre poli»: il Polo Nord, il Polo Sud e una cima dell'Everest. Per Einaudi ha pubblicato Il silenzio (2017), che è stato venduto in 20 Paesi. Maggiori e più dettagliate notizie su Kagge si trovano sulla voce dedicata a lui su Wkipedia (in Inglese)
(dal risguardo di copertina)In media, perdiamo la concentrazione ogni otto secondi: la distrazione è ormai uno stile di vita, l'intrattenimento perpetuo un'abitudine. E quando incontriamo il silenzio, lo viviamo come un'anomalia; invece di apprezzarlo, ci sentiamo a disagio. Erling Kagge, al contrario, del silenzio ha fatto una scelta. Nei mesi trascorsi nell'Artide, al Polo Sud o in cima all'Everest, ha imparato a fare propri gli spazi e i ritmi della natura, e a immergersi in un silenzio interiore, oltre che esteriore: un immenso tesoro e una fonte di rigenerazione che tutti possediamo a cui è però difficile attingere, immersi come siamo dal frastuono della vita quotidiana. Ma che cos'è il silenzio? Dove lo si trova? E perché oggi è piú importante che mai? Queste sono le tre domande che Kagge si pone, e trentatré sono le possibili risposte che offre. Trentatré riflessioni scaturite da esperienze, incontri e letture diverse, e tutte animate da un'unica certezza: che il silenzio sia la chiave per comprendere piú a fondo la vita.
L'articolo di Cettina Vivirito (Cuore di Lupo. Camminare con il proprio cane, pubblicato il 1° agosto), mi ha indotto a ripescare due altri piccoli racconti, frutto di osservazioni personali, di cui uno, su questo magazine assolutamente inedito, mentre l'altro era stato incluso in un precedente articolo. Sono entrambi i racconti accomunati dal tema della gioia canina nell'unirsi agli Umani in un'attività essenzialmente ludica e del tutto afinalistica.
Il cane che andava per maratone
[Maurizio Crispi]
(2007) Stefano Malatesta, viaggiatore e giornalista dedito al genere “recit de voyage” oggi praticato soltanto da pochi, qualche tempo fa, ha pubblicato un libro intrigante dal titolo “Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani” (Neri Pozza, 2000): una raccolta di scritti che raccontano di incontri memorabili con “eccentrici” siciliani. La cosa singolare è che la galleria di personaggi esordisce con la storia esemplare di Jack, il “cane che andava per mare”, evidentemente anche lui considerato dall’Autore, a pieno titolo, un “eccentrico” siciliano.
Ecco la storia. Jack era un cagnone nato e cresciuto a Lipari, la principale isola delle Eolie e aveva avuto la sorte d’essere abbandonato precocemente davanti al porticciolo di Marina Corta. Come spesso capita con i cani isolani questo cane non era di nessuno: nel caso di Jack, tuttavia c’era qualcosa di più in questo non essere di nessuno. Chi sa per quali alchimie, era stata l’esposizione precoce all’immensità del mare e alle barche alla fonda a orientare l’imprinting (il meccanismo biologico interno che ha una funzione decisiva nell’orientare le dinamiche dell’attaccamento). Per questo motivo, Jack una volta cresciuto non si era sottomesso a nessuno degli “umani”della comunità isolana, ma semplicemente ne era un personaggio. Jack, rinforzando con questo comportamento la sua naturale autonomia, manifestò la sua predilezione per il mare, per il viaggio e l’avventura. Insofferente ai limiti posti dal ristretto territorio dell’isola in cui era nato, spesso e volentieri saltava a bordo di un’imbarcazione (non aveva preferenze, sotto questo profilo) e se ne andava per mare, facendosi trasportare verso orizzonti lontani. Ogni tanto faceva ritorno: certo, non si poteva sapere dove fosse stato, perché - come tutti i cani - non aveva il dono della parola, ma ogni tanto giungevano notizie secondo le quali era stato avvistato su questa o quell'altra isola, e capitava di raccogliere dicerie di suoi sbarchi e temporanee permanenze persino a Napoli. Un bel giorno, il cagnone viaggiatore non fece più ritorno per diversi mesi consecutivamente, per poi ricomparire a Marina Corta magro e scheletrito. Visitato da un veterinario, il verdetto: era preso da una malattia che non perdona. Jack a quel punto volle morire come era vissuto: “…un mattino d’agosto, già umido e senza speranza, si tuffò in acqua da uno dei due moli – nuotava benissimo – allontanandosi per una cinquantina di metri. Poi ruotò la testa verso la piazza, come il periscopio di un sommergibile e si lasciò affondare”.
Ancora oggi, tuttavia, lo si potrebbe immaginare che viaggia impavido su di una barca o nave, alla ricerca di orizzonti lontani...
È evidente che una simile storia abbia acceso la fantasia di Malatesta, lui stesso appassionato viaggiatore, tanto da indurlo a dargli l’onore di essere il primo, singolare, personaggio della sua galleria di "eccentrici" Siciliani. Questa storia ci dice anche o – suggestivamente – ci induce a supporre che i nostri amici cani possano coltivare dei propri gusti specifici e che, talvolta, spinti da una singolare irrequietezza possano desiderare di gettare uno sguardo al di là dell’angusto orizzonte della propria ciotola per lanciarsi in qualche avventura.
L’altro giorno, durante la maratona di Palermo, abbiamo avuto modo di conoscere un altro cagnone “eccentrico”.
Lo abbiamo visto proprio nella zona arrivi, davanti all’ingresso del Giardino Inglese, dove - da un lato - arrivavano i podisti che concludevano la maratona e - dall’altro - quelli che, avendo percorso già una buona metà del secondo giro, avevano davanti a sé gli ultimi 7 km di gara. Bene, proprio qui, c’era un grosso cane randagio (dalla pelliccia grigio-marrone sporco) – un senza-collare – che, incurante della pioggia battente, se ne stava a trottare indefessamente avanti ed indietro, con grande stupore di tutti i presenti. Correva con i podisti in arrivo, accompagnandoli negli ultimi due-trecento metri, e con loro superava il traguardo; quindi, invertiva subito dopo il senso di marcia e, agganciandosi ad uno dei podisti che arrivava correndo in direzione contraria, lo affiancava per seguirlo per alcune centinaia di metri. Quindi, ancora una volta invertita la direzione di marcia, riprendeva il suo gioco, attento ad non intralciare il procedere dei maratoneti – quello gioioso e lesto di coloro in arrivo e quello più pacato dei podisti in transito. Il cagnone non ha mostrato per un solo momento d’essere stanco o trafelato: composto, dignitoso e compreso com’era dava l’impressione che la sua mission fosse quella di correre assieme ai podisti, immedesimato nell’esperienza della maratona.
Un cane “maratoneta” dunque: Malatesta probabilmente lo avrebbe battezzato come “il cane che voleva andare per maratone” e lo avrebbe considerato degno di stare nella galleria dei suoi “eccentrici” siciliani.
Un’altra spiegazione più prosaica, invece, vorrebbe collocare il simpatico ed intraprendente cagnone nella categoria dei cani “smarriti”: in accordo con tale spiegazione, egli, andando avanti ed indietro, era alla ricerca del suo padrone perduto. Come sottoprodotto del vissuto abbandonico, l’esigenza di accompagnare ogni maratoneta in transito scaturiva dalla speranza di essere “riconosciuto” o “adottato” dopo tanto tempo di solitudine. E poiché ogni maratoneta avrebbe potuto essere quello buono, ciascuno di loro doveva essere accompagnato. Tra questa spiegazione un po’ struggente e melanconica che fa pensare ad una storia di abbandono e di incapacità di adattarsi alla solitudine, io indubbiamente preferisco la rappresentazione ben più visionaria del cane intraprendente ed avventuroso (o anche "eroico", se vogliamo) “che vuole andare per maratone”…
In accordo con la storia riportata da Malatesta si potrebbe immaginare che il cane maratoneta, prossimo alla fine dei suoi giorni possa voler correre un’ultima volta e morire correndo.
Questa riflessione mi porta inevitabilmente pensare a tanti maratoneti “umani” per i quali la corsa è divenuta fonte di vita e di benessere e che non possono tollerare l’idea di abbandonare la consuetudine con essa, anche quando ci sarebbero delle ragioni di malattia che dovrebbero distogliere un essere ragionevole e pensante dal sottoporsi a sforzi eccessivi. Poiché spesso al correre si legano indissolubilmente le radici emozionali della nostra psiche, rinunciare è impossibile: bisognerebbe che qualcuno ci legasse e questo sarebbe la stessa cosa che morire. Allora si può comprendere perché alcuni decidano di sfidare i buoni consigli e le prescrizioni mediche, decidendo ciò che ritengono migliore e più adeguato per il proprio benessere emozionale.
Capita così che alcuni, esattamente come il cane che andava per mare (che, rappresentando per lui il mare - in una maniera oltremodo poetica – l’elemento primigenio – o, si potrebbe dire, la “casa delle origini" - decise di tornare al mare per l’ultima volta anziché spirare miserevolmente sulla terraferma), decidano di morire correndo, così come hanno vissuto correndo. Credo che su questa scelta, per quanto dolorosa possa essere per chi rimane, occorre sospendere il giudizio e lasciare che chiunque possa avere un margine di scelta su tutto ciò che concerne il proprio vivere ed il proprio morire.
Questo scritto, in forma ridotta, era stato pubblicato nel 2007 in un numero di "Nell'Attesa", periodico siciliano a stampa su temi medici e culturali.
Il cagnolo che amava il trail (Maurizio Crispi)
(2013) I cani sono degli esseri veramente strani e affascinanti. A volte, fanno delle cose in un modo tale che noi siamo portati che siano o esattamente come noi, animati dalle stesse pulsioni e spinti dalle stesse motivazioni. Una volta, osservai in un cane senza padrone questo comportamento sconcertante. Fu in occasione di una delle maratone di Palermo. C'era un grosso cane sgraziato, con la pelliccia di diverse tonalità di marrone (come esito di un’infinità di incroci) che aspettava i podisti in arrivo, ben piazzato a circa trecento metri dal traguardo e che, non appena intercettava un runner isolato oppure un gruppetto si metteva a correre a perdifiato accanto a loro, tagliava il traguardo e quindi, invertendo il senso di marcia, faceva ritorno al punto di partenza per ripetere la stessa cosa.
Era davvero instancabile e baldanzoso: un vero piacere stare ad osservarlo in questa sua iterazione. Fui talmente colpito e commosso da questo comportamento che volli scrivere un articolo dedicato al "cane che andava per maratone", ispirandomi nel titolo - a mia volta - alla strana storia raccontata dal giornalista e viaggiatore Stefano Malatesta sul cane "andava per mare", un cane stromboliano senza padrone (ma di tutti) che se ne stava sul molo dello scalo isolano tutto il santo giorno e che, poi, all'improvviso, preso da un inspiegabile furore odisseico balzava su di un peschereccio o su di un aliscafo che gli capitava a tiro e se ne andava per mare lungo rotte che nessuno sapeva descrivere: ogni tanto, arrivava all’isola la notizia di un suo avvistamento. Fatto sta che, poi, questo cane appassionato dei viaggi marittimi – con l’indole dell’intrepido navigatore - ritornava nella sua isola a distanza di giorni o, in alcuni casi, di settimane (cifr.Stefano Malatesta, Il cane che andava per mare ed altri eccentrici siciliani, Neri Pozza, 2006).
In occasione di un trail siciliano, l'ultimo del 2012 (l'Ecotrail della Ficuzza, il 23 dicembre scorso, per l'esattezza), ho fatto la conoscenza con un giovane cane del posto. Come sovente capita in questi casi, era uno di quei cani che sono di tutti e di nessuno, un cane della comunità che sopravvive grazie al fatto che tutti un po' se ne occupano, riparandolo e nutrendolo. Un cagnolo ben pasciuto e in buona salute, vispo come non mai, con una bella pellicciotta nera e morbida. Un diavoletto. Appena ha visto la mia cagnetta al guinzaglio ha cominciato a giocare con lei, con una modalità ossessiva e vischiosa. Prendeva tra i suoi denti il guinzaglio cui era legata e cominciava a tirare, a tirare e a strattonare, quasi volesse portarla con sé. Un comportamento prima divertente, ma poi molesto, tanto che io ad un certo punto alla cagnetta ho mollato un calcione, senza intenzione di far male (quindi, in realtà, poco più di un calcetto) ma solo per darle una dichiarazione esplicita di chi stava al comando in quel momento.
Il cagnolo allora s’è dedicato ad altro, allora, attratto dalla miriade di podisti che si preparavano allo start, condividendo l’eccitazione del pre-gara che interrompeva il tranquillo tran-tran quotidiano del piccolo borgo rurale.
Ed è stato così che, quando tutti furono ben allineati sulla linea di partenza, lei schizzò subito in avanti a tutta birra. Boh! - pensai io - Guarda un po'! Più avanti, eravamo in attesa del passaggio degli atleti, al primo posto di ristoro, ubicato al 7° km circa. Ed ecco arrivare il gruppo di testa: davanti Abdelkebir Boumalik e Giuseppe Cuttaia, i due mattatori del circuito Ecotrail Sicilia 2012, seguiti da Max Buccafusca, atleta eccellente su strada nelle gare brevi e qui alla sua prima esperienza trail, e... - potete immaginarvelo – chi arriva? Ma proprio il diavoletto nero di prima, di gran carriera, quasi alla testa della corsa. Grande è stata la meraviglia nell'avvistare quel canuzzo mattacchiona. Ma le sorprese non sono finite qua.
Dopo questi passaggi, ci posizioniamo io e il video-operatore in un punto del percorso ubicato a circa un chilometro dal tavolo dei ristori, che i trailer avrebbero incrociato nuovamente attorno al 17° km di gara.
Aspettiamo e aspettiamo su di un bel poggio erboso a cui si arriva dopo un erto sentiero, stretto e fangoso, fiancheggiato da rovi inestricabili.
Ed ecco che arriva il primo al comando solitario della corsa. Chi? Ma è lui l'eroico cagnolo nero! La meraviglia è alle stelle e si fa ancora più grande, quando vediamo che si ferma ansimante. Forse, si fermerà qui - pensiamo.
Ma no! Si è stoppato, animato da un canino fair play. Quando arriva Boumalik, ora alla testa della corsa "umana", il cagnolo riparte a razzo assieme a lui. E ora siamo in zona arrivi, in attesa dei primi. Sono tutti assiepati attorno al gonfiabile dell'arrivo. Ed eccoli i primi: a tagliare il traguardo per primo è il forte Boumalik che non smentisce le promesse, dietro di lui, non troppo distaccato Giuseppe Cuttaia. Terzo atleta al traguardo è... proprio lei l'intrepido cagnozzo che, in una splendida giornata di sole, si è laureata mascotte del Trail siciliano 2012! Nessuno degli astanti ci ha fatto caso, anche perché nessuno conosceva gli antefatti.
Racconto tutto ad Aldo Siragusa, valente organizzatore e speaker della manifestazione. Gli dico: rendiamo onore a chi se lo è conquistato.
E mentre si susseguono gli arrivi lui racconta al microfono la storia del valoroso cagnolo.
E, a questo punto, tutti lo cercano, tutti vogliono vederlo, carezzarlo, coccolarlo. Dov’è, dov’è l’eroe? – si chiedono.
Ed eccolo! E’ là che se ne sta stravaccato sul bel prato verde, ansimante.
Tutti gli si fanno attorno, tutti lo vezzeggiano, chi gli porta da bere, chi da mangiare.
Tutti si rendono conto che sono davanti ad un piccolo miracolo, quello di un cagnolo che per pura gioiosità, generosamente, ha corso tutti e 23 i km dell'Ecotrail della Ficuzza. A volte si rimane davvero colpiti dalla meraviglia della natura degli animali e ci si chiede, se nel fare certe cose, afinalisticamente, non sperimentino quello stesso piacere, la cui ricerca spinge instancabilmente noi umani.
Il racconto sul "cagnolo che amava il trail" è stato originariamente incluso in un articolo più lungo, pubblicato il 21.12.2013, dal titolo:
(Cettina Vivirito) Camminare in mezzo alla natura con il proprio cane rappresenta uno dei momenti più autentici che la vita ci possa riservare. I passi del cane di fianco a noi, il senso di un'alleanza antica, la sintonia di una comunicazione che non ha bisogno di parole. Come proiettati in una dimensione ancestrale, come se riecheggiassero in noi ricordi remoti, esperienze che magicamente riemergono dai fondali del nostro passato filogenetico e che ancora riposano in qualche lontana regione della mente, nella memoria del tessuto di cui è fatto il cuore. E' un'immergersi in una dimensione plurisensoriale: sommersi dagli odori che salgono dal terreno e si mescolano con le essenze vegetali, il silenzio rotto a tratti solo dal canto degli uccelli e dal ronzare degli insetti, la luce che s'insinua tra le emergenze arboree disegnando chiaroscuri e sfumature tonali di verde mentre la nostra mano sfiora arbusti e cortecce e impara a distinguere le diverse gradazioni del tatto.
Il cane è lì con noi anche quando corre avanti lungo il tragitto o si tuffa dentro sentieri odorosi o si perde lungo un'autostrada olfattiva. Sentiamo il suo respiro, condividiamo il suo entusiasmo, comprendiamo le sue ragioni: siamo un corpo unico nello spazio. Quando il cane si volta improvvisamente verso di noi come ad accertarsi che ci siamo, che ci sta proteggendo abbastanza, nel suo sguardo c'è tutto il segreto di un rapporto che sfida il tempo. Si passeggia quindi insieme a lui per recuperare il proprio tempo in una dimensione bella quanto non assimilabile ad altro. Si cammina insieme perché si condivide con il cane l'avventura dell'imprevisto, perché insieme a lui si può finalmente abbandonare il timone della barca e lasciarsi trasportare dalla corrente. Si cammina lentamente insieme perché è eterno ogni attimo vissuto senza affanno in una dimensione di totale libertà. Per dirla con il filosofo e etologo Roberto Marchesini “...durante migliaia di anni di convivenza tra l'uomo e il cane entrambi si sono plasmati vicendevolmente, l’uno ha addomesticato l’altro ricamandosi nelle più profonde rifiniture fino a diventare un curioso yin e yang filogenetico, in un gioco complesso di incastri e richiami, come una chiocciola e il suo guscio: l’uno si rifugia nell’altro”. Cuore umano, quello del cane, cuore di lupo, quello dell'uomo.
La relazione con il cane affonda le sue radici nel lontano paleolitico e ci parla di una dimensione di vita nomadica, quella dei raccoglitori e dei cacciatori che si spostavano continuamente su vasti territori e spesso migravano nei cambi stagionali alla ricerca dei territori migliori dove poter trovare le risorse di sopravvivenza. Esseri umani e lupi viaggiavano fianco a fianco in queste migrazioni condividendo lo stile semi-nomadico del branco che conquista un territorio ma non si ferma. Gli accampamenti di fortuna diventavano luoghi di accumulo di rifiuti dove il lupo poteva rifornirsi alla bisogna, mentre gli ululati del branco diventavano per l'essere umano garanzia di controllo territoriale.
Le due specie cominciarono a convivere e a trovare vantaggiosa questa vicinanza: ciò permise adozioni miste e passaggi culturali tra loro. Insomma il lupo lentamente stava virando nel cane e l'essere umano stava assumendo caratteri lupini, nell'organizzazione del gruppo e nelle dinamiche di caccia. Uomini e lupi s'incontravano nella perlustrazione di territori, l'uno più attento agli indizi visivi, l'altro a quelli olfattivi: insieme costituivano un organismo perfetto capace di colonizzare ogni ambiente e di riuscire vincente nelle più diverse situazioni.
Tuttavia non esiste nessuna dimostrazione possibile che un lupo sia diventato o possa divenire effettivamente un ausilio nell'attività venatoria umana, né che possa divenire un guardiano o un commensale dell'uomo: le peculiarità etologiche che hanno permesso al cane di divenire l'animale domestico per antonomasia sono uniche e totalmente assenti nel lupo. Il cane potrebbe non discendere direttamente dal lupo, bensì condividere un'origine comune tramite Canis lupus variabilis, già dotato presumibilmente in nuce di quelle caratteristiche etologiche che riconosciamo ancor oggi nel nostro migliore amico.
Konrad Lorenz, nel suo affascinante libretto “E l'uomo incontrò il cane” si chiede se tutto sia andato realmente così: nessuno di noi c’era, questo è vero, però, da tutto ciò che sappiamo, potrebbe proprio essere andata così. L’unica cosa veramente certa è che il progenitore della maggior parte dei nostri cani non è il lupo nordico, come un tempo in generale si credeva. “(…) Quando l’uomo passò a costruirsi capanne su palafitte e si fabbricò anche la piroga, ciò condusse necessariamente anche a un mutamento nei rapporti fra lui e i suoi compagni a quattro zampe: questi infatti non potevano più vegliare sulla casa dell’uomo circondandola da ogni parte. Si deve supporre che l’uomo allora, proprio nel periodo in cui passò alle abitazioni su palafitte, abbia preso con sé degli esemplari particolarmente mansueti di sciacalli dorati non ancora addomesticati, ma abili cacciatori e come tali preziosi, e ne abbia fatto degli animali domestici nel vero senso del termine. (...)
Si può immaginare che un giorno una donna, o una bambina che voleva giocare alla bambola, abbia raccolto un cucciolo abbandonato e lo abbia allevato in seno alla famiglia umana. Forse quel cagnolino era l’unico sopravvissuto di una cucciolata caduta vittima di una tigre. Il cucciolo piangeva, ma nessuno si occupava di lui, poiché evidentemente la gente a quel tempo aveva ancora i nervi d’acciaio. Ma, mentre gli uomini erano occupati a cacciare nelle foreste e le donne erano intente alla pesca, una bimbetta seguì quel lamento e trovò in una grotta il cucciolo, che le venne incontro senza timore sulle zampette ancora incerte e cominciò a leccarle e a succhiarle le mani protese. Quel batuffolo morbido e tondo ha certamente risvegliato, già nella figlia dell’uomo della prima età della pietra, l’impulso a prenderlo in braccio, a coccolarlo e a trascinarlo continuamente in giro con sé, non altrimenti di quanto accade a una bimba dei nostri giorni. Gli impulsi materni da cui nascono tali gesti sono infatti antichi come il mondo. E così la bimba dell’età della pietra, imitando all’inizio come per gioco ciò che ha visto fare dalle donne adulte, gli ha dato da mangiare, e l’avidità con cui la bestiola si è gettata sul cibo che le veniva offerto l’ha resa felice, come sono felici le nostre mogli e madri quando gli ospiti mostrano di gradire il loro cibo. Insomma, la gioia è immensa e quando i genitori fanno ritorno trovano, sorpresi sì ma per nulla entusiasti, uno sciacallino più che sazio. Naturalmente il rude guerriero vuoi buttare subito in acqua la bestiola, ma la figlioletta piange e si aggrappa singhiozzando alle ginocchia del padre, che traballa e lascia cadere il cucciolo. Quando vuole riprenderlo, il piccolo è già di nuovo al sicuro nelle braccia della bambina, che se ne sta nell’angolo più oscuro della capanna, tutta tremante e con il faccino inondato di lacrime. E poiché anche i padri dell’età della pietra non hanno mai avuto un cuore di pietra con le loro figliolette, il cucciolo finisce col rimanere.(...)”.
L’attaccamento di un cane nasce da due fonti istintuali fondamentalmente diverse. Soprattutto nelle nostre razze europee esso è in gran parte conseguenza di quei vincoli che legano il cucciolo selvatico ai suoi genitori, vincoli che però nell’animale domestico permangono come manifestazione parziale di un generale infantilismo. L’altra radice dell’attaccamento è nella fedeltà che lega il cane selvatico alla figura del capo branco, ma anche nell’affetto personale che unisce fra di loro i compagni di branco.
Questa seconda radice è più forte in tutti i cani di discendenza lupina che non nei discendenti dallo sciacallo, poiché nella vita del lupo la coesione del branco ha assai maggiore importanza. Se si prende un cucciolo di una specie canina non addomesticata e lo si alleva nella famiglia umana come un cane di casa, ci si può facilmente convincere che l’attaccamento giovanile dell’animale selvatico corrisponde esattamente a quei legami sociali che la maggior parte dei nostri cani domestici conservano per tutta la vita con i loro padroni. Il nostro lupacchiotto è pauroso, si nasconde volentieri negli angoli bui, è molto riluttante ad attraversare uno spazio libero, tenta facilmente di mordere se un estraneo lo accarezza: è, dalla nascita, un Angstbeisser, un animale che morde per paura, ma col padrone si comporta in tutto e per tutto come un cucciolo di cane, anche per quanto riguarda l’attaccamento. Di un’altra natura è l’attaccamento e la fedeltà di quelle razze che hanno nelle vene sangue lupino. In luogo del persistente attaccamento infantile che distingue soprattutto i nostri comuni cani domestici, discendenti dallo sciacallo dorato, prevale in quelli una fedeltà virile. Mentre lo sciacallo è in sostanza un animale selvatico stanziale e si nutre principalmente di carogne di animali, il lupo è un predatore quasi puro e nella caccia, specialmente quando si tratta di selvaggina grossa, deve poter contare sulla solidarietà dei compagni di branco. Per soddisfare le sue notevoli esigenze alimentari un branco di lupi è costretto a superare grandi distanze. Durante queste migrazioni deve mantenersi ben compatto per poter sopraffare le prede più grosse. Una rigida organizzazione sociale, una perfetta ubbidienza al capo del branco e un'assoluta solidarietà nella lotta contro gli animali più pericolosi sono le condizioni preliminari per il successo nella precaria esistenza dei lupi. Ciò spiega la già accennata differenza di carattere fra i cani aureus, discendenti dallo sciacallo, e quelli di origine lupina; i primi vedono nel padrone il genitore, i secondi il capo del branco; quelli sono infantilmente devoti, questi hanno una fedeltà, per così dire, “da uomo a uomo”.
Sempre Lorenz sostiene che “nella facoltà di capire il padrone nei suoi sentimenti più profondi, tutti i cani aureus ad alto livello di addomesticamento sono molto superiori. Con ragione noi usiamo giudicare le qualità morali di persone legate da vincoli di amicizia secondo la loro disponibilità a compiere il più grande sacrificio senza pensare a una contropartita”.
Nietzsche, che, a differenza della maggior parte degli uomini, usava la brutalità, seppure verbale, solo come una maschera dietro la quale si nascondeva un’autentica bontà d’animo, disse: “Sia tua ambizione amare sempre più dell’altro, non essere mai secondo!” Con gli esseri umani, in determinate circostanze, possiamo anche riuscire ad adempiere a questo comandamento, ma nei legami di amicizia che abbiamo con i nostri cani siamo invece sempre i “secondi”. L’uomo, l’essere dotato di ragione e di un elevato e responsabile senso morale, l’uomo, la cui più bella e nobile professione di fede è la religione della fratellanza, proprio nell’attitudine al più puro amore fraterno viene per secondo dopo un animale da preda! Anche il più nobile affetto umano non sgorga dalla ragione e da una morale specificamente umana, ma da strati molto più profondi e primordiali, puramente emotivi e, quindi, sempre istintuali. Anche il più esemplare e altruistico comportamento morale perde per la nostra sensibilità ogni valore quando non nasce da motivazioni di questo tipo, bensì dalla ragione. Ma proprio questo cuore è rimasto ancor oggi nell’uomo lo stesso che negli animali sociali più evoluti, per quanto le vette raggiunte dal suo intelletto, e quindi anche dalla sua morale razionale, siano incomparabilmente più alte. Per Lorenz, grande compagno di innumerevoli cani non è difficile accorgersi che “(...) Il semplice fatto che il mio cane mi ami più di quanto io ami lui è una realtà innegabile, che mi colma sempre di una certa vergogna. Il cane è sempre disposto a dare la sua vita per me. Se fossi stato minacciato da un Leone o da una tigre Ali, Bully, Tito, Stasi e tutti gli altri, avrebbero affrontato senza un attimo di esitazione l’impari lotta per proteggere, anche solo per pochi istanti, la mia vita. E io?”
Oggi quando usciamo di casa con il nostro cane ci ritroviamo catapultati in una realtà che non ricorda più i sentieri dei nostri progenitori del paleolitico e che si discosta in modo impressionante da quel mondo rurale che ancora prevaleva cento anni fa. Viviamo in grandi metropoli affollate e caotiche per la presenza in spazi ristretti di automobili, persone e altri cani; tutto questo ha un impatto tremendo sulle capacità della persona e del cane di trovare il giusto accordo nella concertazione che inevitabilmente una passeggiata al guinzaglio richiede. Il cane è portato ad affidarsi a noi, ma noi non siamo in grado di accreditarci agli occhi del cane o per i nostri comportamenti incoerenti, o perché siamo rinunciatari o, peggio, perché speriamo di farci ascoltare attraverso la violenza. Eppure una cosa fondamentale risulta sotto gli occhi di tutti, oggi, in maniera oltremodo evidente: ci sono tanti, tanti cani in città, a volte due o tre camminano insieme a un solo padrone, cosa che dovrebbe imporre una seria riflessione: qualcosa del cane ci sta ancora sfuggendo? O il nostro cuore di lupo reclama un amore antico e verace introvabile nella nostra pur tanto declamata “fratellanza”?
Ospitiamo qui il bell'articolo di Cettina Vivirito, primo di una promettente collaborazione che andrà ad implementare i "dintorni" di questo magazine, dal momento che la Nostra si è poco occupata di sport e di sport di lunga durata, ma può sicuramente offrirci riflessioni di ampio respiro su tematiche inedite e poco esplorate. A proposito di questo notevole articolo (e a proposito di cani e corsa sono stati diversi gli articoli pubblicati sul magazine) aggiungerei che, secondo alcune vedute recenti di tipo socio-antropologico, sarebbe stato proprio l'incontro tra uomo e cane ancestrale a creare le premesse per un'ulteriore evoluzione dell'assetto mentale degli Umani, facendoli evolvere dalla loro condizione ferina. Secondo queste teorie, l'emotività e la dimensione affettiva che noi consideriamo aspetti qualificanti della nostra Umanità, non sarebbero stati originariamente nella nostra natura, ma sarebbe stata la convivenza con il cane ad orientare in questa direzione il nostro assetto psichico.
( Maurizio Crispi ) Can che corre non abbaia... Tutti si allenano ed anche lui ha detto: "Perchè no?". E, così, corre lungo un graffito che adorna il percorso del Regent's Canal (Londra), subito ...
(Maurizio Crispi) La foto riportata sopra (che venne fatto attorno a mezzogiorno sulla spiaggia di Mondello Valdesi di Palermo, il 17 ottobre 2012) mostra i miei primordi della corsa, quello che si
Correndo si fanno incontri straordinari, si trovano cose e ci si imbatte in sorprese inaspettate. E' questo il grande dono che ci regala lo stare sulla strada, perseguendo la nostra comune passione
Ci sono libri che si portano addosso pesanti etichette, e le etichette non sono mai belle, specie se fatte in modo da relegare un libro all'interno di un'asfittica definizione di "genere". Zanna ...
(MF) Alina Losurdo è una runner di discreto livello che corre le maratone, talvolta anche le ultra, ma è anche appassionata di cani e, spesso e volentieri, specie negli ultimi anni la si può vedere
Tempo addietro abbiamo seguito su queste pagine la polemica suscitata dal fatto che un'amica podista - Alina Lo Surdo - frequentatrice di maratone e ultra, assieme ai suoi cani, sia stata accusata da altri runner di utilizzare quei cani per trarre vantaggio nella sua corsa (un'affermazione peraltro rivelatrice di un'ottusità intellettuale inaudita, perché i cani - soprattutto nelle lunghe distanze - non trainano mai il proprio "padrone", piuttosto bisogna di continuo incitarli a procedere).
Ma la notizia relativa al fatto accaduto alla 50 km di Romagna 2016 (la classica gara che si svolge a Castelbolognese il 25 aprile di ogni anno) la dice lunga sull'intolleranza nei confronti dei nostri amici a quattro zampe, sull'ottusità e sul fiscalismo dei Giudici di Gara FIDAL applicatori di regolamenti che possono andar bene per i pochi top runner presenti, ma non certamente per le centinaia di amatori che rappresentano di fatto il nerbo di siffatte manifestazioni, e soprattutto sull'incapacità di vedere questi eventi sportivi come momenti aggregativi e di gioiosità condivisa.
L'amico Claudio Guidotti è stato ingiustamente squalificato per aver tagliato il traguardo assieme al suo cane fedele (tra l'altro, l'aveva preso al guinzaglio solo per correre gioiosamente con lui gli ultimi 30 metridi una gara che per lui era stata molto sofferta) per effetto d'una fiscale decisione presa da uno dei giudici FIDAL presenti in zona arrivi.
Guidotti avrebbe pur potuto, nei tempi dovuti, presentare ricorso contro la decisione iniqua. Non sappiamo se l'ha fatto o se lo farà.
Ma soprattutto è stato sopraffatto dall'amarezza e la necessità di liberarsi di un peso attraverso pubbliche dichiarazioni, come è il caso della sua testimonianza nell'articolo di seguito linkato.
A lui il nostro pieno supporto morale.
Andando avanti di questo passo, uno potrebbe essere squalificato perchè decide di portare in braccio il proprio bimbo, come manifestazione di gioiosità. E un giudice di gara ottuso quanto basta e zelante potrebbe farlo, sempre applicando in maniera rigida i regolamenti... Sicuramente troverebbe una norma ad hoc.
E che dire di quelli che alla Maratona di Londra corrono portando sulle spalle un frigorifero? In Italia, sicuramente verrebbero squalificati... Lo sport amatoriale anche di buon livello dovrebbe avere come primo obiettivo quello di praticare un'attività sportiva in una cornice di sana gioia, divertimento e condivisione. L'applicazione rigida delle norme a podisti amatoriali che non ambiscono a raggiungere i primi posti della squalifica contribuiscono a inaridire lo spirito amatoriale, a spingere sempre più su le prestazioni degli amatori che finiscono con il sentirsi anche loro "professionisti" e a creare le premesse di uno scimmiottamento dello sport competitivo di punta. Mi auguro che ci possano essere tanti che decidano di tagliare il traguardo con il proprio cane al guinzaglio, tirando un carrettino, battendo per terra un pallone da Basket, facendo acrobazie da saltimbanco e quant'altro. Un anziano signore sino a qualche anno partecipava alla Cento km del Passatore con il proprio cane (anche anomato dal desiderio di portare un messaggio di pace). Il cane era tutto bardato di lustrini e di piccoli messaggi e di lustrini: e portava il pettorale! Quel signore infatti per essere al sicuro di ogni contestazione iscriveva il suo cane regolarmente, con - ovviamente - l'assenso degli organizzatori che lo consideravano - lui con il suo cane - un'attrattiva della manifestazione podistica e del suo pluralismo di motivazioni.
Ma ecco la doccia fredda, appena tagliato il traguardo: mi piomba addosso uno zelante e intransigente giudice FIDAL e con una certa arroganza mi comunica che sono stato SQUALIFICATO (la prima volta in 42 anni di attività podistica). Motivo: perché a 30 metri dall'arrivo ho preso il mio cane, la mia Laika per il guinzaglio e ho fatto l'arrivo con lei (cosa che ho fatto anche nei 7 anni precedenti, senza mai nessuna contestazione). Bisogna notate bene che il giudice stesso ha riconosciuto di avermi visto prendere il cane a 30 metri dall'arrivo (attenzione 30 metri su 50 chilometri...), neanche fossi il primo, visto che in classifica ero in 530^ posizione. Faccio notare, se non mi è sfuggito, che sul regolamento della gara non ho trovato nessuna clausola, che darebbe atto alla mia squalifica.
Quanto accaduto lunedì 25 aprile a Castel Bolognese alla 50 km di Romagna è una cosa che da un lato fa sorridere e dall'altra suscita anche un po' di rabbia. Un fatto anomalo ...
(MF) Alina Losurdo è una runner di discreto livello che corre le maratone, talvolta anche le ultra, ma è anche appassionata di cani e, spesso e volentieri, specie negli ultimi anni la si può vedere
Ma stiamo scherzando? Qua non c'è più il senso delle cose, se una cosa che è in sé bella ed esclusiva espressione dello spirito di amicizia e di solidarietà che lega un uomo ad un cane innocuo, viene intesa come un mezzo subdolo per trarre un illecito vantaggio, siamo arrivati alla frutta - se non peggio - in una cattiva interpretazione dello spirito agonistico amatoriale, in cui ciò che deve avere il sopravvento è il benessere, è il buonumore, è l'armonia ed anche la capacità di interpretare il proprio personale di essere nella maratona che si potrebbe voler correre, al imite, anche portando in una gabbietta il proprio canarino preferito o il proprio gatto Silvestro.
Ottusi e meschini quanti non comprendono la gioia pura che vi può essere nel correre con il proprio cane e che, animati da uno spirito savonarelesco o da occhiuto inquisitore. vogliono applicare alla lettera regole e ingiunzioni: organizzatori, giudici di gara e atleti che vedono il loro correre soltanto come competizione spinta all'estremo, ma senza ombra di divertimento!
Mi chiamo Maurizio Crispi. Sono un runner con oltre 200 tra maratone e ultra: ancora praticante per leisure, non gareggio più. Da giornalista pubblicista, oltre ad alimentare questa pagina collaboro anche con altre testate non solo sportive.
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Il perchè di questo titolo
Perchè ho dato alla mia pagina questo titolo?
Volevo mettere assieme deio temi diversi eppure affini: prioritariamente le
ultramaratone (l'interesse per le quali porta con sè ad un interesse altrettanto grande per imprese di endurance di altro tipo, riguardanti per esempio il nuoto o le camminate prolungate), in
secondo luogo le maratone.
Ma poi ho pensato che non si poteva prescindere dal dare altri riferimenti come il
podismo su altre distanze, il trail e l'ultratrail, ma anche a tutto ciò che fa da "alone" allo sport agonistico e che lo sostanzia: cioè, ho sentito l'esigenza di dare spazio a tutto ciò che fa
parte di un approccio soft alle pratiche sportive di lunga durata, facendoci rientrare anche il camminare lento e la pratica della bici sostenibile. Secondo me, non c'è possibilità di uno sport
agonistico che esprima grandi campioni, se non c'è a fare da contorno una pratica delle sue diverse forme diffusa e sostenibile.
Nei "dintorni" della mia testata c'è dunque un po' di tutto questo: insomma, tutto
il resto.
L'idea motrice di questo nuovo web site è scaturita da una pagina Facebook che ho
creato, con titolo simile ("Ultramaratone, maratone e dintorni"), avviata
dall'ottobre 2010, con il proposito di dare spazio e visibilità ad una serie di materiali sul podismo agonistico e non, ma anche su altri sport, che mi pervenivano dalle fonti più disparate
e nello stesso tempo per avere un "contenitore" per i numerosi servizi fotografici che mi capitava di realizzare.
La pagina ha avuto un notevole successo, essendo di accesso libero per tutti: dalla data di creazione ad oggi,
sono stati più di 64.000 i contatti e le visite.
L'unico limite di quella pagina era nel fatto che i suoi contenuti non vengono indicizzati su Google e in altri
motori di ricerca e che, di conseguenza, non risultava agevole la ricerca degli articoli sinora pubblicati (circa 340 alla data - metà aprile 2011 circa - in cui ho dato vita a Ultrasport
Maratone e dintorni).
Ho tuttavia lasciato attiva la pagina FB come contenitore dei link degli articoli pubblicati su questa pagina
web e come luogo in cui continuerò ad aprire le gallerie fotografiche relative agli eventi sportivi - non solo podistici - che mi trovo a seguire.
L'idea, in ogni caso, è quella di dare massimo spazio e visibilità non solo ad eventi di sport agonistico ma
anche a quelli di sport "sostenibile" e non competitivo...