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7 novembre 2017 2 07 /11 /novembre /2017 10:22
Elisa Nicoli, L'Italia selvaggia. Guida alla scoperta di luoghi incontaminati per tutti i piedi, Altraeconomia editore, 2017

Per l’editore Altreconomia è uscito recentemente (2017) il volume “L’Italia selvaggia. Guida alla scoperta di luoghi incontaminati per tutti i piedi” scritto da Elisa Nicoli scrittrice, giornalista, documentarista nel filone dei suoi interessi per l'ambiente.
Si tratta di un libro piccolo, ma denso di proposte. La prefazione è di Franco Michieli, l’esploratore che collabora da anni con la Compagnia dei Cammini.
Esistono ancora in questa Italia cementificata luoghi selvaggi, dove la natura signoreggia e la presenza umana è rarefatta? Sono pochi, ed Elisa vi propone di conoscerli camminandoci dentro.
La dichiarazione di intenti è chiara: «Questo libro è alla portata di tutti, anche di chi è alle prime armi con l’escursionismo e non ha esperienza di selvatico. Se invece siete degli esploratori “patentati”, forse questo libro non fa per voi. In altre parole, non ce la sentiamo di mandare i nostri lettori allo sbaraglio, su tracce di sentieri che si perdono. Questo libro vuole essere un’iniziazione al selvaggio, uno sfiorarlo, un intravederlo, a volte un anelarlo, raggiungendolo solo in pochi momenti…».
Alle giuste e necessarie indicazioni preliminari seguono 14 schede di luoghi selvaggi.
Si comincia con la famosa Val Grande.
Di ogni luogo Elisa intervista uno specialista del luogo, guide, scrittori, guardiaparco, persone che vivono lì. A seguire, l’autrice  elenca i buoni motivi per visitare quell’area, gli itinerari da fare a piedi, consigliando anche posti tappa, libri e mappe.
Un libro da possedere e da consultare come vero e proprio Baedeker se si ha voglia di esplorare a piedi oasi ancora incontaminate del territorio italiano, molte delle quali sono state già da molti anni oggetto di trekking organizzati da "La Compagnia dei Cammini".

(dalle soglie del testo) Da Nord a Sud le aree selvagge sono anche la Val Codera, i Lagorai, la Valtramontina, poi negli Appennini la Valle dello Scesta, in Abruzzo la Cicerana e i Monti della Meta, poi più a sud l’Orsomarso, l’Aspomonte, in Sicilia Cava d’Ispica e in Sardegna il Supramonte.
(risguardo di copertina) Lo spirito con cui avvicinarsi ai luoghi selvaggi, lo zaino perfetto, la preparazione fisica e tutte le cose che è bene sapere prima di partire. 14 aree selvagge dal Nord al Sud dell'Italia, isole comprese: Val Grande, Valle Cervo, Val Coderà, Val di Vesta, Lagorai, Valtramontina, Fosso del Capanno, Valle dello Scesta, Cicerana, Monti della Meta-Mainarde, Aspromonte, Orsomarso, Cava d'Ispica, Supramonte. Gli itinerari più belli, la natura da scoprire e i consigli del genius loci, il "custode" del territorio. Un vasto repertorio, con decine di percorsi nella wilderness, dalle Alpi agli Appennini, dai grandi Parchi alle piccole oasi segrete. Infine, i focus su wild swimming e fiumi, canyon e gole, foreste ataviche, coste e dune solitarie, paesi fantasma.

Elisa Nicoli é scrittrice e documentarista, insegna in giro per l'Italia a fare sapone, detersivi e cosmetici. E' "autoproduttrice" e camminatrice per passione.

Da anni si occupa di tematiche ambientali, attraverso diversi media.

Nata a Bolzano, ha studiato Scienze della Comunicazione a Padova ed è tornato nella sua natìa Bolzano, dopo aver vissuto per un anno a Lione e due anni a Roma.

Ha finora scritto cinque libri, per diverse case editrici e realizzato diversi documentari.

Per dettagli e contatti leggete il sito www.elisanicoli.it e per saperne di più sull'autoproduzione www.autoproduco.it.

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21 settembre 2017 4 21 /09 /settembre /2017 19:39

(...) Oggi ho visto un ragazzo che saliva svelto, concentrato, a piedi nudi e occhi a terra, sulle pietre. Uno sguardo alle pietre e uno ai piedi nudi, pensavo. O forse i suoi erano occhi che non vedevano nulla, guardavano dentro di sé, in profondità. Palpebre e cuore sincronici, sembrava pensare seriamente alla sua promessa, alla grazia ricevuta, a una grazia da chiedere lungo il suo pellegrinaggio. Quelli della prima fuga di Monte Pellegrino sono pavimenti del pensiero a cui rimangono attaccate tutte le figurine delle storie personali, pensavo. Quelle fughe così magnificamente silvestri, lineari e contorte allo stesso tempo, contengono, pensavo, i pensieri di tutti i palermitani; se potessero staccarsi, quei pensieri, una folla immensa di immagini avvolgerebbe come una nube la città.
(...)

Cettina Vivirito

(MC) Questo l'incipit dell'articolo di Cettina Vivirito sul camminare contemporaneo, dai pellegrinaggi alle erranze suburbane. Per pura coincidenza, anche io l'altro giorno, percorrendo la strada che solitamente mi riporta indietro dalla casa di campagna vicino a Palermo e che è quella stessa che conduce dalla SS113 a Ventimiglia di Sicilia, ho visto due camminare lungo la strada in direzione di Altavilla. Una signora avanti con gli anni e senza scarpe (solo i calzini a piedi), capello di paglia ad ampia tesa ad ombreggiarle il volto, incedeva a passo cadenzato, aiutandosi con un grosso bastone. Dietro di lei, a distanza di rispetto, procedeva un uomo, forse il marito, anche lui anziano, lui però con le scarpe ai piedi Ho pensato che la donna, partita da Ventimiglia di Sicilia o forse da più lontano, stesse facendo il pellegrinaggio verso la Madonna Nera di Altavilla Milicia (la cui festa cade appunto ai primi di Settembre), molto venerata in un'ampia area della Sicilia e meta di cammini devozionali, sia per chiedere una grazia sia per sciogliere un voto (adiacente alla chiesa, nella canonica, è  conservata una vastissima collezione di ex voto per grazia ricevuta che, anni addietro, fu oggetto di un prezioso volume edito da Sellerio).
La donna avanzava da sola, penitente a piedi scalzi, per avere il giusto assetto interiore. L'uomo era soltanto il suo accompagnatore sollecito e protettivo - ho pensato -, ma a distanza, per non rompere con chiacchiere vane la temperatura interiore e la continuità di un muto pregare di lei.
E' stata per me un'immagine icastica e mi è rimasta impressa a lungo nei giorni successivi.
Il camminare porta a se stessi e ci aiuta a ricomporci. E ciò avviene anche laddove non vi sia nel nostro muoverci a piedi un'esplicito assetto devozionale (o penitenziale) e vi si si ravvisi piuttosto il carattere di un'erranza che ci riporta indietro alla nostra origine nomadica, e - attraverso essa - al divino immanente in tutte le cose.
Il camminare con la sua "lentezza" (circa 5 km/h, mediamente, o qualcosa di meno se non si è molto allenati) e attraverso il lento mutare di prospettiva in ciò che ci circonda, con la sua ripetitività sempre cangiante (sono i panorami mentali quelli ad essere sempre cangianti come le nuvole che trascorrono in cielo) ci riporta a ciò che è essenziale, sfrondando via un neo-bisogno appresso all'altro, rendendo superflui tutti gli oggetti che appesantiscono il cammino, e riducendoci - una volta gettate tutte le zavorre che ci appesantiscono - sempre di più all'osso della nostra essenza. E camminare è anche un atto fondante del mondo.
Queste riflessioni, puramente associative, mi sono sembrate la degna premessa all'articolo di Cettina Vivirito.
La lettura dell'articolo può essere accompagnata dalla musica della composizione di Kai Engel, The Run.

Pellegrino nel Cammino di Santiago

(Cettina Vivirito) Come tutte le mattine, scendo con il cane per la solita passeggiata. Salire per la vecchia strada di Monte Pellegrino fatta di pietre lisce lucide e smozzicate è per me come ciabattare per casa da vecchia perpetua: conosco i particolari delle curve, le nuvole che scendono basse e quelle che si nascondono dietro la montagna per poi comparire in volo veloci come aquiloni e sempre diverse.

Oggi ho visto un ragazzo che saliva svelto, concentrato, a piedi nudi e occhi a terra, sulle pietre. Uno sguardo alle pietre e uno ai piedi nudi, pensavo. O forse i suoi erano occhi che non vedevano nulla, guardavano dentro di sé, in profondità. Palpebre e cuore sincronici, sembrava pensare seriamente alla sua promessa, alla grazia ricevuta, a una grazia da chiedere lungo il suo pellegrinaggio. Quelli della prima fuga di Monte Pellegrino sono pavimenti del pensiero a cui rimangono attaccate tutte le figurine delle storie personali, pensavo. Quelle fughe così magnificamente silvestri, lineari e contorte allo stesso tempo, contengono, pensavo, i pensieri di tutti i palermitani; se potessero staccarsi, quei pensieri, una folla immensa di immagini avvolgerebbe come una nube la città.

Questo accade in una città come la nostra, Palermo; ma lungo la storia delle erranze, in altri luoghi e in altre città, dal paleolitico al nomadismo neolitico passando per il Dada al Surrealismo, dal Lettrismo all'Internazionale Situazionista, fino al Minimalismo e alla Land art, cambia la percezione del paesaggio. Così ci racconta uno speciale architetto, Francesco Careri, che non costruisce, non progetta ma pone una sfida che porta avanti con il collettivo Stalker/Osservatorio Nomade, che da diversi anni opera a Roma e non solo. Il gruppo nasce ispirandosi al movimento studentesco della Pantera che continua in qualche modo ad ispirarsi all'Osservatorio Nomade. Gli Stalker camminano, ma non si limitano a passeggiare per la città dei monumenti, delle piazze, dei grandi viali, dei parchi. La loro pratica è "estrema", è un tentativo di "mappare" la città dal di dentro, di scoprire com'è possibile vivere la città – in particolare le sue periferie – al di fuori degli spazi progettati dagli architetti, che troppo spesso sono diventati i simboli di un'invivibilità delle grandi metropoli. È possibile raggiungere Roma da Tivoli a piedi, passando per dei percorsi alternativi alla strada asfaltata? Per gli Stalker è possibile, è anzi scoperta di spazi sconosciuti: il nomadismo diventa perciò un'istanza di re-visione dello spazio urbano che non passi attraverso l'aggiunta di nuove costruzioni.

L'idea di fondo di Breton, che guida il gruppo, è quella di dar voce alla "città inconscia". Saranno i lettristi negli anni '50 a dare per la prima volta importanza all'aspetto di una pratica artistica che non lascia tracce visibili, mentre i situazionisti si allontaneranno dai lettristi, dando vita di nuovo a delle "psicogeografie". Fino ad arrivare alla Land Art, in particolare americana, che fa assurgere il passaggio in un luogo ad opera d'arte. Nella sua forma più avanzata questa pratica non lascia più nemmeno una traccia effimera sul terreno e tutto viene affidato ad una documentazione, perlopiù fotografica, che già non è più l'opera d'arte. I walkscapes sono perciò landscapes, paesaggi, letteralmente "pezzi di terra" non posseduta, ma vista, attraversata: sono pezzi di cammino che ci servono a ricostruire la geografia di un luogo, la metropoli, altrimenti inimmaginabile.

In ogni tempo il camminare ha prodotto architettura e paesaggio, e questa pratica quasi del tutto dimenticata dagli stessi architetti è stata ripristinata dai poeti, dai filosofi e dagli artisti, la cui massima espressione si trova in un libro di Bruce Chatwin, Le vie dei canti, una sorta di inno al pensiero nomade più che al nomadismo. Il camminare in effetti permette di vedere dinamizzando delle linee, linee di canti che disegnano il territorio aborigeno, linee di fuga che bucano lo schermo del paesaggio nella sua rappresentazione più tradizionale, linee di streghe, come direbbe Deleuze, che trascinano il pensiero dietro il movimento delle cose, lungo vene che disegnano nelle profondità delle acque quei tragitti delle balene che Melville descrive così bene in Moby Dick. Le strade non conducono più soltanto a luoghi, sono esse stesse dei luoghi. Jackson ha introdotto un nuovo termine nel lessico del paesaggio, "odologia" che deriva dal hodos, parola greca che significa strada, cammino, viaggio. Lo prende a prestito da uno psicologo sperimentale, Kurt Lewin, che se ne è servito negli anni '30 per caratterizzare "lo spazio vissuto" in cui si situa un individuo nel suo ambiente. Ecco perché l'approccio artistico è così importante per comprendere il nostro modo di percepire il mondo attraverso le vie che lo percorrono, nella misura in cui pone l'accento sulla dimensione dell'esperienza sensibile e affettiva del camminare. Di fatto, gli uomini oscillano sempre tra queste due dimensioni, quali che siano le loro pratiche; in quanto abitante della terra ama stabilirsi, fondare, mettere radici, imprimere il proprio segno; in quanto animale politico, invece, guidato da Ermes, dio dei viaggiatori e dei banditi, delle pietre miliari e dei passaggi, tende a lasciare la propria famiglia e la propria casa per volgersi a luoghi più stimolanti per cimentarsi e agire. Siamo stretti tra due desideri: stabilirci da qualche parte, appartenere a un luogo e trovare altrove un nuovo campo di azione.

Pellegrini in cammino

Camminare non è uno sport”, precisa poi Frédéric Gros. Più ci immergiamo nel mondo digitale, più cresce l’impulso di riscoprire con il corpo il mondo fisico attraverso un’azione, un’attività, che si tratti di alpinismo, free climbing, andare bicicletta o a piedi. I camminatori, e chi ha scritto sul camminare, hanno la tendenza a dividersi in due categorie: i flâneur urbani, discendenti di una lunga tradizione che va da Charles Baudelaire, ai Situazionisti, e quelli che sulle orme di Rousseau, Thoreau e Edward Thomas sono rimasti folgorati dalla natura. Che camminare significhi aprirsi al mondo, lo aveva già scritto David Le Breton, antropologo del corpo: “L’atto del camminare immerge in una forma attiva di meditazione che sollecita la partecipazione di tutti i sensi, si cammina per nessun motivo, per il piacere di gustare il tempo che passa, per scoprire luoghi e volti sconosciuti, o anche, semplicemente, per rispondere al richiamo della strada. Camminare è un modo tranquillo per reinventare il tempo e lo spazio. Prevede una lieta umiltà davanti al mondo”.

Ma già Aristotele insegnava camminando sotto i portici del Liceo e i suoi allievi si chiamavano peripatetici, dal greco peripatein (passeggiare), proprio per questo. Socrate amava camminare e dialogare e gli stoici discutevano di filosofia passeggiando sotto la Stoa, i portici di Atene. Nella Grecia classica il luogo di pellegrinaggio più famoso era Delfi dove si andava per ricevere i responsi della Pizia. Da allora camminare è diventato un atto rivoluzionario, quasi eversivo. Lao Tse ha scritto che un viaggio di mille chilometri comincia sempre con un passo. Il primo passo. Che è l’unico che conta perché senza il primo, come per il respiro, non ce ne saranno altri, perché segna un distacco. Dalla vita di tutti i giorni, dagli affetti, dalle comodità, dalla propria casa, dal lavoro.

Camminare definisce una soglia tra un prima e un dopo, oltrepassata la quale si entra in una vita dove non si è nessuno, dove si cammina nel regno dell’incognito.

Camminare a volte coincide con la protesta: marce di protesta (come la Marcia di Gandhi, nel 1930, contro la tassa britannica sul sale), marce della pace (la Pellegrina della Pace americana che nel 1953 fece voto di continuare a camminare finché il genere umano non avesse imparato la via della pace e che camminò per 28 anni e morì in uno scontro frontale), le marce contro la Guerra in Corea o in Vietnam, le marce per i diritti civili (le marce delle suffragette e quella di Martin Luther King a Birmingham nel 1963), le marce delle Madri intorno all'obelisco della Plaza de Mayo, che, per non incorrere nell'accusa di occupazione abusiva di suolo pubblico dovettero alzarsi e camminare in circolo, e ancora scioperi e cortei e processioni. Tutte queste manifestazioni si svolgono per la strada che è, per eccellenza, il luogo che appartiene a tutti e sono perciò strettamente connesse con il concetto di democrazia, come spiega Rebecca Solnit che scrive nel suo bellissimo Wanderlust. A History of Walking: “camminare non ha classi” raccontando come la questione dell’accesso ai terreni in Inghilterra sia stata nei secoli invece proprio una specie di guerra di classe (come del resto lo sono tutte le questioni di accesso a un bene comune). Il conflitto verteva su due diverse immagini del paesaggio, la prima che vedeva la campagna come un grande corpo suddiviso in parti ben distinte, la seconda come un organismo collegato da un sistema circolatorio costituito dai sentieri. Le servitù di passaggio affermavano, in accordo a questa seconda visione, che la proprietà non comportava necessariamente diritti assoluti e che i sentieri erano principi altrettanto significativi dei confini.

Ma il rapporto tra letteratura, religione, filosofia, antropologia, sociologia, politica e il camminare è sterminato: si potrebbe ancora aggiungere l’analisi dei vecchi e nuovi atteggiamenti sul rapporto tra viaggiare a piedi e natura: per un europeo, probabilmente, un viaggio nel deserto sarà un ritorno ad un antica casa ancestrale, mentre per un nordamericano come Thoreau, rappresenterà il futuro. Il camminatore campestre rivendica che camminare in città equivale a soffrire per chi ama le lunghe passeggiate nella natura, perché implica un ritmo a scatti irregolare. Scrive Gros: “Il flâneur è sovversivo. Sovverte la folla, la merce e la città, come pure i loro valori. Il camminatore dei grandi spazi, l’escursionista con lo zaino sulle spalle oppone alla civiltà l’esplosione di una rottura, la perentorietà di una negazione (ricordiamo Jack Kerouac, e il suo On the road). Il flâneur sovverte la solitudine, la velocità, l’affarismo e il consumo. In poche parole, mentre i giardini sono luoghi dove: “d’estate ci si attarda fino a sera inoltrata nella luce arancione e nei riflessi viola, nella dolcezza del buio che scende pian piano, e nella polvere di quelle migliaia di passi (…) Per chi abita in città, l’esterno è solo un luogo di transizione, un intermezzo (...) La vita reale continua in ufficio o a casa, prevalentemente all'interno di spazi chiusi”. Prevale il dentro, rispetto al fuori".

Il modo in cui viviamo, peraltro, non riguarda soltanto noi, nell'affettività non siamo mai soli: un’affettività più intensa porta con sé una forte sensazione d’inserimento – un grado più elevato di appartenenza. In questo potenziale c’è sempre un atto etico dal momento che condiziona il “dove” vogliamo andare; ci dice in che modo riusciamo ad abitare l’insicurezza. Esprime la nostra capacità di transitare, avanzare nella vita affrontando le costrizioni. Ci dice che camminare è sempre una caduta controllata. Il camminare è una metafora dell'inquietudine umana ma anche esperienza di stupore quotidiano: la mente ha bisogno, camminando, di sostare su ciò che vede, rimanendone stupita. Questo percorso è disarmonico, niente affatto lineare, e assomiglia al procedere per tentativi della ricerca filosofica e scientifica: un camminare per tentativi che esplora quindi disequilibrio più che armonia.

Pellegrini

Camminare è inutile come tutte le attività essenziali. Atto superfluo e gratuito, non porta a niente se non a sé stessi, dopo innumerevoli deviazioni” scrive Le Breton. Forse, dovremmo tutti trovare del tempo per farlo, forse dovremmo renderci conto che la vita – come ricorda una vignetta che circola in rete – è quella cosa che ci accade mentre siamo intenti a guardare sullo smartphone. E se camminando teniamo lo sguardo fisso sullo schermo, inciampiamo: è molto probabile. Distratti, inciampiamo e cadiamo. Camminare, invece, è ritagliare un momento di attenzione, è – appunto – deviare, ma per arrivare, in fondo, sempre allo stesso punto, al punto di partenza, e quel punto siamo noi.

Se è vero che camminare è meravigliarsi, respirare a pieni polmoni e attivare al massimo grado i nostri sensi e la nostra sensibilità, la sensibilità porta con sé anche una dose consistente di nostalgia, e muoversi è sempre stato una questione di scelte e di rinunce. Ecco che allora la nostalgia più potente del camminatore sarà quella per  “...la strada abbandonata: non è dato sapere se questa portasse a una verità personale che avrebbe potuto modificare il corso della vita indirizzandola su una via propizia, o alla meraviglia di un paesaggio, di un incontro”.

Come scrive Stevenson “sapere che qualcun altro ha provato e visto le nostre stesse cose, anche se si tratta di cose poco importanti, in un modo che non è molto diverso dal nostro, resterà sempre uno dei piaceri più preziosi”. 

Camminare è un’arte, è – scrive ancora Le Breton – “il privilegio di esistere, semplicemente, e sentirlo”, una magnifica riscoperta di umanità. È un’arte lenta, particolarmente preziosa oggi, in un mondo in cui il corpo risulta essere una parentesi, un ingombro. Scrisse Nietzsche: “...le nostre preoccupazioni nascono proprio dalla sedentarietà, da quella pigrizia fisica e morale, da quell’incapacità di muoversi, di cominciare”. (…) “Star seduti il meno possibile; non fidarsi dei pensieri che non sono nati all'aria aperta e in movimento – che non sono una festa anche per i muscoli. Tutti i pregiudizi vengono dagli intestini. Il sedere di pietra è il vero peccato contro lo spirito santo”. Oggi, in un’epoca di sederi di pietra, camminare è un anacronismo da salvare, nelle nostre giornate veloci, istantanee, efficienti; camminare è salvare noi stessi  perché ogni cammino è custodito innanzitutto dentro di noi, prima che si declini sotto i passi.

"Non invidiava le automobili, sapeva che in automobile si attraversa ma non si conosce una terra. A piedi vai veramente in campagna, prendi sentieri e costeggi le vigne, vedi tutto. C'è la stessa differenza che guardare un'acqua e saltarci dentro", è una delle metafore più vicine alla verità di Cesare Pavese.

La Marcia del sale di Gandhi. Un forte esempio del potere sovversivo e di protesta del camminare

Per accompagnare il nostro camminare e le corse in natura, con un tema musicale profondo e non chiassoso... Quando la musica è silenzio che porta a se stessi e che crea ponti... Oppure quando è catalizzatrice del senso di meraviglia per ciò che ci circonda...

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14 settembre 2017 4 14 /09 /settembre /2017 08:32
Percorsi selvaggi sui Nebrodi alla ricerca dell'ebbrezza dionisiaca

(MC) Il 3 dicembre 2017 si svolgerà l'11^ tappa del Circuito Ecotrail Sicilia che, con il Trail dei Nebrodi sulla distanza di 66 km (previsto anche un percorso più breve di 20 km), porterà i trailer e gli appassionati della corsa in natura a correre sui Nebrodi, nel cuore di impareggiabili scenari. Ci pare pertinente pertanto proporre questo articolo di Cettina Vivirito che parla di "percorsi selvaggi"sui Nebrodi alla ricerca dell'ebbrezza dionisiaca.
I Nebrodi, oltre che luogo di grande bellezza naturalistica, pressoché incontaminata, sono luoghi che da tempo immemore racchiudono molte magie, scaturenti forse dall'energia stessa che promana dalla Natura. Gli antichi sentirono questo, come in altri luoghi il mistero e il silenzio dei boschi viene animato, secondo le credenze locali, da esseri appartenenti al "piccolo popolo", il dio Pan e altre entità che possono aprire la via verso misteriosi mondi paralleli. 
Testimonianza di questa immensa energia sono i culti che, in successive epoche storiche, in questi luoghi si sono susseguiti, di cui resti significativi sono i riti e i simbolismi delle feste religiose locali che sicuramente racchiudono in sé stratificazioni sincretiche.

 

Percorsi selvaggi sui Nebrodi alla ricerca dell'ebbrezza dionisiaca

E che vi siano in opera forze non chiare e al di là dell'umana comprensione è indubbio: basti pensare al mistero irrisolto degli incendi spontanei di Caronia, per il momento soltanto sopito, ma mai effettivamente risolto, raccontato da Valentina Gebbia in un suo romanzo (Fuoco grande, Dario Flaccovio), in cui - al di là di tutte le ipotesi ventilate - l'Autrice propone un ritorno alla mitologia greca e alle forze animistiche che pervadono la Natura e che, qui in questi luoghi, continuano a lasciare tracce significative, manifestandosi di tanto in tanto con impeto. I riti e le usanze nel corso delle feste religiose hanno - rispetto a queste forze -proprio una funzione propiziatoria e di scongiuro, ma servono anche a ricordare che ci sono sempre elementi  che possono irrompere nel mondo delle piccole certezze quotidiane.
Per tutti questi motivi, camminare (o correre) nei boschi dei Nebrodi può avere una valenza perturbante poiché nel silenzio dei boschi - se si abbandona l'attitudine razionale che ci domina come frutto dell'azione della neocorteccia del cervello, ultima formazione ad essere comparsa nello sviluppo filogenetico dell'uomo - ci si può trovare a contatto con le vibrazioni dell'ominoso, cioè di forze che non siamo di comprendere appieno(e questo tipo di incontro può essere alla base delle cosiddette "estasi selvagge"). E vorrei citare qui l'elemento meraviglioso che è insito nelle "vie dei canti" degli aborigeni australiani, descritte magistralmente da quell'impenitente viaggiatore che fu Bruce Chatwin e catturate da alcuni cineasti, come ad esempio il celebrato "Picnic a Hanging Rock".
L'articolo di Cettina Vivirito ci parla di tutto questo.

Percorsi selvaggi sui Nebrodi alla ricerca dell'ebbrezza dionisiaca (Cettina Vivirito)

(Cettina Vivirito) Ricordo un incontro con Dioniso, il giorno in cui assaggiai il vino novello, nella campagna nebroidea. Camminavo con un amico per i campi, ci eravamo inoltrati in un boschetto ed io ero felice come quando ci si inoltra in un contado leggiadro, ma a distanza di tempo non me ne ricordo nemmeno, dei caratteri di quella contrada. Sono i profumi che rimangono intatti e riempiono la memoria, la sfidano con la loro varietà che non si riesce a fermare con le parole. Sono i sentori di quei fiori e quelle erbe che soltanto su queste montagne crescono e giungono nuovissimi alle narici appena lasciata la provinciale.

Arrivammo a una casetta dove un gruppo di uomini stava degustando il vino nuovo e ci osservarono con attenzione, ma subito il più anziano ci pregò di partecipare, con un tono dove mi parve di sentire la forza, di così remote origini, dell’ospitalità; i volti seri e benevoli mi diedero la  dionisiaca sensazione di quel rito arcaico. Ci si sentì accomunati. Prima che ce ne andassimo, quattro di loro si alzarono a danzare dignitosamente una lenta danza in tondo. Ci salutammo in silenzio, ma lì Dioniso avrebbe continuato a stare sdraiato degustando dalla coppa.

Come in una storiella infantile raccontata da Elemire Zolla, credo che questa esperienza, in altra manifestazione, appartenga anche a quella di ogni bambino: gli si presenta un coetaneo e i due si guardano a vicenda contraccambiando noia, stando immobili e indifferenti l’uno al cospetto dell’altro. Tutt’a un tratto una parola cade nel silenzio o una corrente scatta fra i loro occhi e subito si sentono trasportati in un altro, incomparabile spazio. Distanza, differenza, intervallo di separazione sono svaniti, essi formano un’unità. Corrono furiosamente gridando, eccitandosi, soffiano fiatoni fitti fitti, come stessero nuotando in un’acqua ribollente. Dura quel che dura, qualcuno interviene, basta una voce seria e tornano in sé, separati, distinti.

Questo trasporto ha un nome proprio, Dioniso, cui Ovidio si rivolgeva esclamando: Tu, Puer aeternus. L’incontro con Dioniso può nascere da un vinello qualunque che precipiti all'improvviso in un'esuberante risata, ogni mossa fa piegare in due dai singulti, tutto si palesa come un immenso scherzo. E’ in grado di appropriarsi della nostra vita all'improvviso in un qualunque momento. Dioniso spezza il giogo delle dualità: conscio/inconscio, persona/cosmo. Sta sempre in agguato e grazie a lui ci si congiunge all'ambiente, non si sa più che cosa siano, dove abbiano confine, il bene e il male.

Storiografi e mitografi generalmente sono d’accordo nell’escludere che il mito di Dioniso sia sorto in Grecia, dove il culto dionisiaco si radicò non prima del VIII secolo a.C. Secondo alcuni, il mito di Dioniso sarebbe di origine tracica, secondo altri di origine cretese, secondo altri di origine indiana. Storicamente documentato è invece che la versione più antica del mito di Dioniso sia coeva alle origini di Agatirno, (l'attuale Capo D'Orlando), città sacra a Dioniso; che in tutto l’orbe terracqueo solo i Nebrodi furono, di nome e di fatto, i monti di Bacco: il paesaggio dei quali, ancora oggi, è il più dionisiaco che si possa immaginare, anche se non vi sono più i cerbiatti che vi pullulavano nell’antichità, fino a quando furono animali protetti, appunto perché sacri a Dioniso; che secondo la tradizione più antica, raccolta dall’autore del più grande poema che sia stato mai composto in onore di una divinità pagana (le “Dionisiache”, in 48 canti, del Nonno di Panopoli), proprio in Sicilia sono collocati il concepimento e la nascita del primo Dioniso.

Percorsi selvaggi sui Nebrodi alla ricerca dell'ebbrezza dionisiaca (Cettina Vivirito)

Dalla valle del torrente Manazza, in territorio dell’odierna Capo d'Orlando, e fino alla contrada Maina ed alla fonte omonima, in territorio dell'odierna Naso, vi è tutto un sentiero che, con questi stessi nomi (Manazza, Maina) ricorda l’antichissimo culto, derivando l'uno e l'altro nome dal greco mainás: da máinomai, che significa infuriare, essere invasati, per l'appunto da Dioniso o Bacco. Nella stessa valle si trova un’antichissima fonte, che i nativi hanno sempre chiamato con il nome Lia. Anche questo nome ricorda il dio Dioniso, che era invocato con l’appellativo Lièo (lo scioglitore dagli affanni). Nelle campagne di Capo d’Orlando sono stati rinvenuti numerosi oscilli (da oscillum, nome latino, composto di os e cillum, piccolo viso), ossia dischi di terracotta, raffiguranti il volto di Bacco, i quali venivano appesi ai rami degli alberi affinché, oscillando (da cui l’origine del verbo oscillare) allontanassero le forze malefiche dai campi.

Ma il culto di Dioniso o Bacco nei Nebrodi è attestato da prove certe, quali sono le monete delle antiche città di Alesa (odierna Tusa), Amestrato (odierna Mistretta), Calacte (odierna Caronia Marina) e Aluzio (odierna San Marco d’Alunzio): nelle quali monete appare la figura di Bacco, a volte accompagnata da quella di Sileno (compagno inseparabile di Bacco). Risulta quindi essere una solenne sciocchezza quella tramandata dal geografo latino Solino (del III – IV secolo d. C.) ed avallata dal Pais, secondo cui i Nebrodi avrebbero preso il nome dai cerbiatti (in greco nebrói) che vi abbondavano nell’antichità; è stato ignorato che Dioniso si chiamava pure Nebródes: i Nebrodi furono quindi, di nome e di fatto, i “monti di Bacco”.

L’inizio delle celebrazioni dei «misteri dionisiaci», così come pure quello dei «misteri eleusini», si perde nella notte dei tempi. La loro fine fu decretata ufficialmente nel 392 d.C. con l’editto di Teodosio il Grande che dichiarò il Cristianesimo religione ufficiale di Stato. Da quel momento ebbe inizio una persecuzione più o meno manifesta contro i riti non-cristiani che, nel corso dei secoli, distrusse e fece sparire non solo antichi riti e templi degli dei pagani, ma anche intere città, tra le quali la famosa Demenna che, sotto la dominazione araba, diede il nome a tutto il Val Demone. E, la cui etimologia è ricondotta da Michele Amari in Storia dei musulmani di Sicilia, al verbo greco “diameno”: “perduranti”, cioè permanenti nella fede (dell’Impero bizantino).
 

Percorsi selvaggi sui Nebrodi alla ricerca dell'ebbrezza dionisiaca - La Festa di San Fratello

Nulla di strano se alcuni “ornamenti” della storia locale, quali: il vecchio toponimo Ficara, che sta a indicare un territorio coltivato, in prevalenza ad alberi di fichi; l’appositivo “de Camino” (un “Cammino Sacro” simile a quello della “Strada Sacra” di Eleusi), rinvenibile nel diploma con il quale l’imperatore Federico II, nel 1249, concesse al vescovo di Patti il grande bosco di Ficarra, Sinagra e Piraino, che comprendeva anche la chiesa di San Pietro de Camino (sita sul limitrofo Capud Brinionis) e una casa solarata dove “vi sono botti che possono contenere 160 salme di vino”, il pascolo, sotto tali boschi di greggi dei più pregevoli “castrati” della Sicilia che, come fece notare lo storico Tommaso Fazello nel 1500: “Mentre son vivi e dopo la morte recano i denti perpetuamente dorati”; l’antica consuetudine, che ancora si rinnova ogni anno, di regalare per la “Festa dei morti” fichi secchi e certi dolcini (i cosiddetti “ossa di morti”) che hanno il tronchetto superiore di farina a mo' di fallo maschile, e la parte sottostante color miele a forma di ovale che, sia pur vagamente ricorda la vagina femminile; la riproduzione spontanea della razza autoctona del cosiddetto “suino nero dei Nebrodi”; l’antico nome del porto di Brolo (considerato l’affaccio a mare di Ficarra) che gli Arabi chiamavano Marsà Dàliah, cioè “porto della vite”, possano costituire “l’adombramento” della perpetrazione di antichi riti, tradizioni, usi e costumi risalenti al periodo in cui, anche qui, imperava il culto di Cerere e Diòniso.

Col solstizio d’estate, ancora oggi, si aprono le danze delle feste pagane sui Nebrodi; compromesse col cattolicesimo, hanno l’aria e la parvenza di manifestazioni e culti religiosi, ma in realtà non sono altro che la perpetuazione di quei riti ancestrali che, una volta all’anno permettono all'autentico sentire di manifestarsi liberamente. La Valdemone, intendendo con ciò una delle tre valli in cui la Sicilia un tempo era amministrativamente divisa, dalla dominazione araba al periodo borbonico (Valdemone, Val di Noto, Val di Mazara), è quella che, ricomprendendo nel suo ambito l’Etna, a lungo considerato antiporta dell’aldilà, precisamente punto d’accesso agli inferi, (da ciò il territorio sarebbe stato detto Vallis Dæmonorum) attrae ancora oggi, a partire dalla primavera e per tutto il periodo estivo tantissime persone provenienti da ogni luogo che vogliono, attraverso le tipiche feste locali, rivivere in qualche modo, quel mito lontano.

La festa dei Giudei a San Fratello, che si svolge durante la settimana Santa da centinaia di anni è sicuramente la più spettacolare di tutte; come tutte le feste dionisiache pagane di primavera, esalta l’energia vitale della natura e degli uomini che si sprigiona con la rinascita annuale della natura, con un forte spirito orgiastico, scanzonato, anche delatorio ed esagitato, in una commistione fra sacro e profano. Gli strani personaggi che la rappresentano, abbigliati in modo appariscente con giubbe rosse, gialle e pantaloni dai colori sgargianti, indossano delle maschere grottesche dalle quali fuoriesce, a seconda dei casi, una lingua nera, una coda animalesca, simboli strani che vengono portati in giro per il paese con schiamazzi e suoni di trombe, campanacci e catene, sbeffeggiando e molestando tutti, anche le più ortodosse e compunte processioni.

Percorsi selvaggi sui Nebrodi alla ricerca dell'ebbrezza dionisiaca

La festa “du muzzuni” si svolge durante il solstizio d’estate ad Alcara li Fusi da quattromila anni e per questo è considerata la festa più antica d’Europa; conserva anch'essa i riti di propiziazione della fecondità dell’uomo e della natura, che nell'antichità si celebravano in onore di Demetra e Adone, al sopraggiungere del nuovo raccolto. Espressione della visione ciclica della vita, che è tipica delle culture agricole, il culto di Adone consisteva essenzialmente nel rito della falloforia (muzzuni) e nella preparazione dei giardini di Adone ( i lavuri) da parte delle giovani donne cui era caro il dio. Il “muzzuni” consiste in una brocca dal collo mozzato da cui fuoriescono garofani, spighe di lavanda, germogli di grano, e viene rivestito da un fazzoletto colorato e dai gioielli di famiglia raccolti nel vicinato che costituiscono il corredo delle spose contadine. Il “muzzuni”, venerato come un Santuario, diventa simbolo delle aspettative contadine per un raccolto abbondante; la sua ricorrenza è sempre stata legata a strani fenomeni dai quali si potevano trarre previsioni per il futuro: la rugiada della notte tra il 23 e il 24 giugno veniva ritenuta benefica per gli uomini e per gli animali e si racconta che in quella notte si potessero avvertire voci misteriose e luci che giravano attorno ai campanili.

Ma la festa dionisiaca che le racchiude metaforicamente tutte è forse quella in onore di San Teodoro, celebrata a Sorrentini, la più antica e la più strana borgata del pattese. Piantata a mezza costa del Melinso, con le sue case sparse alla rinfusa e prive di qualunque linearità architettonica, ha una breve piazza che è la più umile e la più suggestiva dell’intero territorio. Nella Chiesa Madre, al posto d’onore, troneggia la statua del santo scolpita nel legno; un’opera di discreta fattura ma che possiede invero requisiti sufficienti ad esaltare la grande fede di quel contado. La sua festa si celebra la prima domenica d’agosto e, come ha scritto G. Mellina Ocera, “fanatismo e barbaria si fondono in riti in cui la fede assurge alla potenza d’un mistero dionisiaco”.

Nessuno riesce a scoprire dove finisce la commedia umana per un istintivo, primordiale bisogno di clamore e dove cominci l’autentica follia della moltitudine che attende, disperatamente infatuata, il compiersi del miracolo, il segno della suprema comprensione del santo martire. La notte della vigilia, su per i sentieri vaga ininterrottamente una lunga teoria di fedeli che regge in mano fiaccole accese; è la processione dei pannusi (ddisa o ampelodesma che cresce rigogliosa in quei luoghi e che ad agosto è sufficientemente secca per ardere), dando luogo a uno spettacolo notturno carico di energia con una evocazione da tregenda, i bagliori rosseggianti trasfigurano i volti di quella moltitudine che va come insinuandosi tra gli alberi. Alla fine della lunga processione si torna alla Chiesa Madre dove viene acceso un grande falò con le fiaccole residue e attorno ad esso si inizia una danza al suono della tradizionale musica di San Teodoro girando, ora in un senso, ora in un altro, fino al finale salto sul fuoco. La danza vorrebbe ricordare il martirio del santo, morto sul rogo, in realtà ha una valenza non proprio cristiana: vengono richiamati antichi riti propiziatori caratteristici delle comunità agresti e, probabilmente, legati al culto del sole, come testimonierebbero alcuni reperti di epoca greco-romana rinvenuti a Sorrentini e nella vicina Gioiosa Guardia. Quando il sole sorge uno sparo potente indica che il Santo sta per uscire dalla chiesa per intraprendere il suo interminabile viaggio attraverso viuzze, sentieri, scale e dirupi; mentre la banda suona una speciale tarantella (che si fa risalire allo stesso santo), gli uomini si accostano alla vara della statua: si deve uscire dalla porta centrale in un unico slancio, senza incertezze nel superare l’ostacolo (vero o finto) che può pararsi davanti alle stanghe della vara che vacilla, ondeggia, arretra, avanza e riprende la corsa come un possente ariete medievale. Per l’occasione non mancano gli indemoniati i quali si accostano al santo con uno sguardo attonito, spinti dalla folla che grida e tumultua e quando non ce ne sono c’è sempre un buon fedele che si presta a fare lo spiritato; l’invasato poi, vero o finto, viene trascinato ai piedi del santo lacero e con la bava alla bocca, gli occhi stravolti mentre la folla grida: “Santu Todaru! Libiralu! Libira la criatura!” Guai al santo se non ubbidisse all’invito perentorio, correrebbe il rischio di essere investito dalle più turpi ingiurie piuttosto che essere laudato: il miracolo quindi deve compiersi e si compie.

Percorsi selvaggi sui Nebrodi alla ricerca dell'ebbrezza dionisiaca

Per tutto il giorno il santo, portato a spalla e conteso dalla folla gira per quelle viuzze come in una interminabile giostra vorticosa, soffermandosi ad ogni casa davanti alla quale i portatori ricevono le generose offerte, in denaro ma per antica costumanza insieme a grandi fiaschi di vino di strane forme dalle quali a garganella, bocche avide e mai sazie traggono nuovo vigore e più viva fiamma d’entusiasmo. Il giro viene ripreso e si ripete ancora e ancora; le scene che si succedono sono tra le più varie e qualche volta di una tenerezza toccante. Molti vecchietti attendono davanti la porta che il santo passi per donare una gran bella pianta di basilico (dono considerato regale, basileus vuol dire Re) e spesso dicendo ad alta voce: “Beddu.. Beddu!.. Pi ‘ te la sarvai sta bedda grasta di bacinicò!”.

Così il Santo riprende il suo interminabile giro tra campane squillanti e la danza dei portatori e della banda ormai alticci, facendo sfoggio di dissonanze dodecafoniche fuori programma. A mezzogiorno le campane sembrano impazzite e convulse: i portatori e i fedeli tutti abbandonano il santo su una via qualunque: è l’ora del pasto pantagruelico a base di maccarruni cu puttusu e pecora al forno e vino ancora vino fino all’ubriachezza.

Come un avamposto della memoria dionisiaca posto a seicento metri sul livello del mare, in quei muti miraggi d’orizzonte dispersi in perimetri di esiliata felicità dal gioco di correnti senza meta, sta il sogno del Re taumaturgo, della liberazione dalla possessione, dalla follia, un sogno blasfemo di rinascere alle sconfitte, ultime eresie del pensiero.

Quando il poeta scrive che «perciò sussurrando ci incorona i capelli il dio comune / e fonde in uno le coscienze come perle di vino»; quando, passeggiando, incontriamo lo sguardo immobile di un animale e ci specchiamo nella sua divinità — allora, e molte altre volte, Dioniso si manifesta e ci  ripropone la consapevolezza dell’impermanenza, ci reinsegna il mondo animale e la natura vegetale. E se questo ci inquieta, Dioniso ha raggiunto il suo scopo.

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25 agosto 2017 5 25 /08 /agosto /2017 09:14
Erling Kagge, Il Silenzio. Uno Spazio per l'Anima, Einaudi Stile Libero, 2017

(Cettina Vivirito) C’è un silenzio del cielo prima del temporale, delle foreste prima che si levi il vento, del mare calmo della sera, di quelli che si amano, della nostra anima, dei camminatori solitari, poi c’è un silenzio che chiede soltanto di essere ascoltato.

Marcel Marceau che per 50 anni ha calcato le scene senza proferire una sola parola ha sostenuto che tutte le arti, silenzio compreso, hanno una loro grammatica ma prima bisogna sintonizzarsi sull'anima con il corpo, con il cuore, con lo sguardo. Non basta fare dei gesti, non basta neppure stare zitti, occorrono uno scopo, una strategia, una volontà tattica. Tacere diventa significativo quando si è assolutamente in grado di parlare ma si sceglie di non farlo non per negare la comunicazione semmai per espanderla; non per sottostare passivamente a tabù o imposizioni esterne piuttosto per aggirarli e obbedire al principio di efficacia.

Si parla troppo”, ripeteva il premio Nobel José Saramago, convinto che solo il silenzio esiste davvero. Perché riusciamo a sentirlo (Michael Wehr, psicologo dell'Università dell’Oregon, ha scoperto i neuroni appositi), perché ne abbiamo bisogno (si moltiplicano alberghi e vacanze anti rumore) e perché, come insegnava Paul Simon, ne cogliamo il suono anche “in mezzo a diecimila persone e forse più”.

Per ascoltare occorre tacere. Senza silenzio non c’è parola, non c’è musica. Spesso però lo evitiamo, ne abbiamo quasi paura, abbiamo perso l’abitudine a stare soli. Eppure la lettura e la scrittura nascono dal silenzio, si nutrono del silenzio e il libro stesso ne è massima espressione: colmo di parole, tace.

Erling Kagge, classe '63, nel 2016 ha scritto un bellissimo libro, Il silenzio Uno spazio dell'anima, pubblicato da Einaudi Stile libero, per la traduzione di Maria Teresa Cattaneo. La sua personale ricerca del Silenzio lo ha portato al Polo Nord, al Polo Sud e sulla cima dell’Everest. Aveva raggiunto il Polo Nord nel maggio del 1990 assieme a un altro esploratore e dopo aver trascorso 50 giorni con una temperatura a meno di 54°C e bruciate quasi tutte le riserve corporee di grasso- il giorno stesso dell’arrivo al Polo passò per caso sopra di loro un aereo da ricognizione americano: i piloti rimasero sorpresi nel vederli, e gettarono loro un contenitore pieno di cibo. Al Polo Nord non c’era dunque silenzio. Non c’era nemmeno negli oceani e Kagge se ne accorse nella primavera del 1986, durante un viaggio in barca a vela lungo le coste del Cile. Una mattina all’alba, mentre faceva la guardia nel turno più duro, da mezzanotte alle quattro, udì qualcosa che sembrava un respiro lento e profondo: era una balena con il dorso grigio che inspirava ed espirava. Per qualche tempo Kagge e la balena seguirono la stessa rotta: poi la balena scomparve.  Conobbe il silenzio soltanto nell’Antartide: in quel paesaggio montuoso che si estendeva a perdita d’occhio, dove tutto sembrava uniformemente bianco ma in realtà non lo era, la neve era screziata d’azzurro, di rosso, di verde e perfino di rosa, in quel luogo remoto, completamente solo, non aprì bocca e se gli si rompeva un attacco, o rischiava di cadere in un crepaccio, non imprecava. Non c’erano, come a casa, telefoni che squillavano o qualcuno che suonava alla porta. Non ebbe contatti con nessuno: né via radio né via internet; completamente solo, il futuro non contava più, del passato non gli importava nulla, aveva chiuso il mondo fuori di sé e si sentiva a proprio agio, come non era mai stato, ascoltando quel Silenzio che aveva tanto cercato.

Per Kagge dunque il Silenzio è Dio. Nelle sue riflessioni solitarie ricorda che, come riporta mirabilmente la Bibbia, nel Primo libro dei Re si racconta che Dio si manifestò a Elia dapprima come vento impetuoso, poi come terremoto, poi come fuoco: Dio in realtà non era in nessuno di questi elementi ma soltanto in una brezza leggera, in un “silenzio sottile”. Nell’ultima frase del Tractatus logico-philosophicus, Ludwig Wittgenstein scrisse: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”: forse non a caso il Tractatus fu concepito in Norvegia, nel paese di Kagge, a Skjolden, all’interno del Sognefjord.

Nel mondo di oggi è difficilissimo trovare il silenzio, tanto più il Silenzio assoluto che Kagge non riuscì mai a conoscere, nemmeno quando comandò di essere chiuso in una stanza insonorizzata che impediva l’ingresso ai suoni esterni; anche lì c’era rumore. Abbiamo perduto la capacità di concentrazione, per Kagge: smettiamo di concentrarci dopo 8 secondi, ci sentiamo a disagio quando restiamo da soli in una stanza per 12 o 15 minuti senza poter ascoltare musica, leggere o scrivere: allora apriamo la finestra per guardare fuori. Tentiamo di fare silenzio dentro di noi, ma la nostra mente è sempre piena di idee ingovernabili; i ricordi e le immagini si affollano, cercando di catturare la nostra attenzione. Ma Kagge è convinto che tutti possano trovare il silenzio dentro di sé, anche se circondati dai rumori. È una sensazione bellissima, una grande gioia: non siamo più irrequieti, non facciamo assolutamente nulla, non viviamo attraverso le esperienze degli altri, restiamo cinque minuti di più a letto o andiamo al lavoro a piedi o ci ipnotizziamo per venti minuti: saliamo le scale, prepariamo da mangiare o contempliamo un’opera d’arte, cercando di capire cosa l’artista ci ha voluto rivelare; o viviamo nella natura, restando soli per tre giorni, senza parlare con nessuno; o conversiamo come fanno i giapponesi, che serbano il silenzio anche quando discorrono.

C’è un mito gnostico, al quale forse Erling Kagge si ispira. Il Dio gnostico porta uno strano nome: Abisso. Esso non evoca cavità indefinite o la vasta distesa degli oceani primordiali. Significa che Dio è superiore a tutte le qualità umane: senza vista, senza sensibilità, senza desideri, senza immagini, senza intelligenza, senza pensieri: ignora la forma, l’ordine, l’eguaglianza e la diseguaglianza; non vive e non è senza vita; è fuori dal tempo e dallo spazio. Questo Dio indicibile, incomprensibile, ineffabile, inesplicabile, questo Dio sconosciuto, di cui non si può né affermare né negare nulla, è il Non-Essere senza limiti, l’inconcepibile Vuoto, che contiene in sé stesso la possibilità di tutti gli esseri e di tutte le cose. Dio è l’essenza del mistero, cioè il Silenzio dell’ineffabile.

C’è dunque un’intima, indissolubile relazione fra Silenzio ed “Essere”. Con perfetta corrispondenza la dinamica che muove dal silenzio passa attraverso i suoni “udibili” solo interiormente, poi ai suoni concreti e approda alle parole articolate: ne deriva che per rientrare nell’unità divina si deve compiere a ritroso il cammino dalle parole, e perciò dal pensiero, ai suoni trascendenti e infine al silenzio, cioè all’Assoluto unitario.

E' il ritiro nella foresta assegnato alla vecchiaia dalla dottrina brahmanica ortodossa: qui si trascorre una vita semplice, parca nei cibi, dedicata alla lettura di testi sacri, alla preghiera, al silenzio, alla meditazione. In altre parole, l’induismo tradizionale prevede che, dopo la vita nel mondo con i suoi piaceri, le responsabilità e i compiti, il periodo finale dell’esistenza sia dedicato esclusivamente alla cura dello spirito. Un modello certo non proponibile in Occidente oggi, ma ricco di suggestione soprattutto per il rilievo assegnato al “silenzio”, condizione (quasi) inderogabile dell’incontro con se stessi di cui sempre più si avverte l’acuta nostalgia.

Uno dei passaggi fondamentali della cultura occidentale è quello narrato da sant'Agostino nelle Confessioni in riferimento alla figura del vescovo sant'Ambrogio: “Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l’ingresso e non si usava preannunziargli l’arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente”. Agostino è sorpreso dall’osservare un fenomeno sino ad allora ignoto alla sua pur vasta esperienza intellettuale: Ambrogio leggeva in silenzio, muovendo solo le labbra mentre scandiva le parole. Per molti secoli lettura e oralità sono andate insieme per cui chi leggeva aveva la necessità di leggere a voce alta perché solo così la combinazione dei segni alfabetici (privi com’erano di segni diacritici, segni interpuntivi, maiuscole, spazi tra le parole) prendeva la forma del discorso. Nel mondo classico, e in particolare romano, poi, l’attività dello scrivere e del leggere erano considerate servili, per cui era il segretario incaricato quasi sempre di leggere a voce alta a favore del suo padrone. Con Ambrogio, uomo colto e funzionario imperiale, si ha il primo esempio certo di un passo ulteriore, quello dell’interiorità. Il silenzio implica la vera capacità di lettura: prima c’era ancora la decifrazione dei segni in suoni e poi l’ascolto dei suoni per ricostruire il discorso. Ora invece il cervello è capace di sintetizzare direttamente i segni in discorso, senza l’intermediario sonoro. La lettura silenziosa è dunque una delle grandi conquiste dell’umanità che riesce, in questo modo, a recuperare dentro di sé uno spazio nuovo, un nuovo modo di interpretare e custodire il linguaggio.

Il silenzio è solitudine, è sensazione del nulla: Emily Dickinson esprime la sua angoscia e il suo male di vivere rifugiandosi, pur avendone paura, nel silenzio. La poesia di Garcia Lorca non ama il frastuono, necessita di silenzio. Non un silenzio qualunque e nemmeno il silenzio in generale, bensì il fare silenzio proprio della ragione che indaga la Verità e che tace di fronte alla sua rivelazione.

Come ha giustamente sottolineato Susan Sontag nel saggio “The Aesthetics of Silence”, per essere definito il silenzio “non cessa mai di coinvolgere il suo opposto e di richiederne la presenza”. Più che sull’atto di negazione però, è forse proprio sul confine tra presenza e assenza, suono e taciturnità, astratto e concreto, che vanno ricercate le forme del silenzio a partire innanzitutto dal gesto che lo identifica immediatamente nella cultura occidentale, e cioè il dito indice posato sulle labbra, il cosiddetto ‘signum harpocraticum’, emblema di un silenzio religioso e sacrale: in questa posa veniva infatti rappresentato in Grecia il dio del silenzio, il bambino arpocrate, versione ellenizzata della divinità egiziana Oro. André Chastel fa notare come il gesto possa avere una connotazione ambivalente: quella passiva mutuata dalla simbologia gnostica, dove la chiusura della bocca serviva a impedire l’ingresso dei demoni nel corpo, e quella invece attiva legata al nume egiziano che, come racconta Ovidio nelle Metamorfosi, “con il dito invita al silenzio”.

Un gesto incantatorio che avrà grossa risonanza nel mondo cristiano, soprattutto in ambito monastico dove l’atto della preghiera richiedeva esplicitamente il blocco della “chiostra dei denti”, andando ad alimentare, tra i primi fedeli, una vera e propria mitologia sulla necessità di difendere la bocca da qualsiasi infiltrazione malevola.

Se nel rinascimento il silenzio in cui erano immersi i personaggi rappresentati era fonte di irritazione iconoclasta per gli artisti – basti pensare alla leggenda di Michelangelo che, adirato contro il mutismo del suo Mosè, gli avrebbe lanciato contro un martello –, esso si pone tuttavia come la caratteristica imprescindibile dell’opera plastico-visiva.

Non è un caso che, in un saggio del 1946 dal titolo emblematico L’occhio ascolta che descrive la pittura olandese del Seicento, Paul Claudel converta questo topos tradizionale della “muta eloquentia” in “scuola del silenzio”, esaltando il silenzio come una forma di ‘discorso’ visiva in grado di comunicare conoscenze (e reazioni emotive) difficilmente accessibili altrimenti. Commentando un quadro “nel genere di van Goyen” ad esempio, Claudel osserva come i giochi di luce di quello che lui definisce un insieme “ridotto al silenzio” avessero la capacità di rivelare le cose grazie a un’impregnazione oleosa simile a quella presente nel paesaggio olandese, considerato “quella tasca, quello stomaco” in cui venivano inghiottiti e digeriti i numerosi tesori e valori del mondo.

Dunque, il ‘corpo viscerale’, la sostanza materica del dipinto è ciò che secondo Claudel definisce il silenzio e la sua potenza di fascino. Il ‘farsi corpo’ del silenzio non è più così demandato a una precisa mimica del soggetto (come nel signum harpocraticum), ma si trasforma nel “farsi corpo” della pittura stessa.

Secondo una leggenda contemporanea che trova le sue origini nella tradizione rabbinica, ogni essere umano porta inscritto nella propria conformazione anatomica il segno del silenzio: il “filtro” (prolabio), l’incavo tra naso e labbra, sarebbe l’impronta lasciata dal dito di un angelo venuto a chiudere la bocca al nascituro e a fargli dimenticare tutti i saperi che possedeva nell’utero della madre. L’arte, così come la letteratura hanno forse il compito di recuperare, o perlomeno segnalare, i segreti di questo Silenzio. “Solo quando ho capito che ho un intimo bisogno di silenzio, ho potuto mettermi alla sua ricerca; nei miei recessi più intimi, sotto la cacofonia dei rumori del traffico e dei pensieri, della musica e dei macchinari, degli iphone e degli spazzaneve, lui era lì che mi aspettava”, conclude Erling Kagge.

 

 

(MC) Credo che Il Silenzio di Erling Klagge, come illustrato egreggiamente nell'articolo di Cettina Vivirito,  dovrebbe essere una lettura consigliata a tutti runner, soprattutto a coloro che affrontando esperienze che combinano la performance sportiva con una ricerca interiore e che dovrebbe entrare a far parte di una loro biblioteca portatile: e il mio pensiero va indubbiamente agli ultramaratoneti, agli ultratrailer e ai camminatori di lungo corso, per i quali l'esperienza del correre e del camminare, sia durante i diuturni allenamenti sia in corso di gare si svolge "via dalla pazza folla" e via anche dalle forme di competizione sfrenata che caratterizzano le gare di corsa di poche migliaia di metri in cui il frastuono della competitività spinta azzera qualsiasi possibilità di contatto con il proprio sé interiore.
Non a caso vi sono popoli che praticano la corsa di lunga durata per finalità ritual-religiose: pensiamo, ad esempio, ai Tarahumara di cui si è occupato recentemente Christopher McDougall, nel magistrale Born to run (pubblicato in Italia da Mondadori, Strade Blu, nel 2014) oppure ai monaci corridori del Monte Hiei che praticano nel contesto del Buddhismo una singolare forma di meditazione attraverso corse estenuanti ripetute ogni giorno, sino a raggiungere l'illuminazione e a passare a ulteriori stadi trasformativi del sè; ma possiamo anche pensare a forme di esportazione di tali discipline ai contesti occidentali, in formule nuove ed inedite che, tuttavia, attraggono stuoli di seguaci: e qui possiamo citare l'Associazione di runner con diramazioni internazionali fondata dal guru Sri Chimnoy. O ancora, senza arrivare ad una partecipazione codificata ad organizzazioni che praticano la disciplina della meditazione attraverso la corsa o altre forme di sport, può essere citato il concetto di "psicoatleta" coniato da Enrico Brizzi, scrittore ma soprattutto grande camminatore. E non ci sorprende ancora, considerando questi punti di repere così brevemente menzionati il fatto che, al giorno d'oggi, in cui tutto é in crisi e non ci sono più certezze confortanti, si diffondano sempre di più le esperienze del "camminare profondo": non si può spiegare altrimenti la popolarità crescente (e rinnovata, nel senso di essere sempre più "laica") di cui gode il Cammino di Santiago che, benché intrapreso con le motivazioni più diverse (alcune delle quali apparentemente banali), man mano che, giorno dopo giorno, si macinano chilometri in una diuturna fatica, porta i camminatori verso se stessi, togliendo progressivamente assieme al sudore tutti gli orpelli del vivere quotidiano, tutto ciò che è inessenziale, sino a condurre ad un contatto intimo con il proprio nucleo interiore.
Nell'esperienza degli sport di lunga durata (rientranti nella definizione di "endurance") si è inevitabilmente captati da una disciplina del silenzio, così come descritto da Kagge che, evidentemente, ha potuto attingere le sue riflessioni profonde  proprio dalle sue imprese di esplorazione estrema che, inevitabilmente, hanno finito con il diventare banco di prova - e nello stesso tempo affiinamento - delle proprie risorse interiori e terreno fertile di incontro con il trascendente a-istituzionale, in quel contesto che altri studiosi hanno definito di "estasi selvaggia" (vedi, come documentato esempio, lo studio di Michel Hulin, La mistica selvaggia.Agli antipodi della coscienza, IPOC, Milano, 2012).

Erling Kagge, Il Silenzio. Uno Spazio per l'Anima, Einaudi Stile Libero, 2017

L'autore de "Il Silenzio"Erling Kagge (Oslo, 1963) è stato il primo uomo a raggiungere il Polo Sud in solitaria e il primo a raggiungere i «tre poli»: il Polo Nord, il Polo Sud e una cima dell'Everest. Per Einaudi ha pubblicato Il silenzio (2017), che è stato venduto in 20 Paesi.
Maggiori e più dettagliate notizie  su Kagge si trovano sulla voce dedicata a lui su Wkipedia (in Inglese)

(dal risguardo di copertina)  In media, perdiamo la concentrazione ogni otto secondi: la distrazione è ormai uno stile di vita, l'intrattenimento perpetuo un'abitudine. E quando incontriamo il silenzio, lo viviamo come un'anomalia; invece di apprezzarlo, ci sentiamo a disagio. Erling Kagge, al contrario, del silenzio ha fatto una scelta. Nei mesi trascorsi nell'Artide, al Polo Sud o in cima all'Everest, ha imparato a fare propri gli spazi e i ritmi della natura, e a immergersi in un silenzio interiore, oltre che esteriore: un immenso tesoro e una fonte di rigenerazione che tutti possediamo a cui è però difficile attingere, immersi come siamo dal frastuono della vita quotidiana. Ma che cos'è il silenzio? Dove lo si trova? E perché oggi è piú importante che mai? Queste sono le tre domande che Kagge si pone, e trentatré sono le possibili risposte che offre. Trentatré riflessioni scaturite da esperienze, incontri e letture diverse, e tutte animate da un'unica certezza: che il silenzio sia la chiave per comprendere piú a fondo la vita.

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14 agosto 2017 1 14 /08 /agosto /2017 09:27
Paesaggio e Paesologia, essere e tempo: uno sguardo che cambia. Elogio della lentezza, come nuovo orizzonte della Politica

(Cettina Vivirito) C'è più vita in dieci chilometri lenti e a piedi che in una rotta transoceanica che ti affoga nella tua solitudine progettante, un'ingordigia che non sa digerire - scrive Franco Cassano nel suo “Andare lenti”, rivolto probabilmente a una parte del mondo, in aumento, che sta riscoprendo la voglia di fermarsi, andare lentamente, farsi permeare dalle cose e non travolgere. Vivere in modalità “slow”: più lenti ma più sereni di contro a quelli che non a torto sono stati definiti “scoraggiatori militanti”: sono quelli che dicono che la vita è altrove. La vita è ovunque, semplicemente, ed è forse la riscoperta di questa banalità la vera rivoluzione.

Franco Arminio: benvenuti nella paesologia

Dunque, la prima cosa da fare è parteggiare per le colline, per i cani, per i baci, parteggiare per le albe, per chi cammina, riunirsi per leggere un libro, per sentire un suonatore di fisarmonica, per zappare un orto, per raccogliere l’uva di una vigna. Ecco le assemblee del nuovo secolo, ci dice un altro profeta della lentezza, Franco Arminio. Ma già Milan Kundera aveva notato che C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio (…) la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuol farci capire che ormai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata di se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria. E potrei citarne altri, come  Carl Honoré, che nel suo “Elogio della lentezza” sottolinea che questo desiderio non è neppure un tentativo di riportare il mondo a una sorta di utopia preindustriale, piuttosto ricerca di equilibrio, essere svelti quando ha senso essere svelti ed essere lenti quando è necessaria la lentezza. Cercare di vivere seguendo quello che i musicisti chiamano il “tempo giusto”, ossia la velocità più adeguata. Che dire poi di Jim Jarmusch, il regista/autore che più di ogni altro ha riletto in chiave critica la mitologia on the road e il rapporto fra l’uomo e il paesaggio americano?

Chi fa politica ha da sempre il compito di cambiare la storia o orientarla con responsabilità; ognuno di noi può farlo, per sé e per la comunità in cui vive decidendo liberamente se  occuparsene in prima persona o incaricarne una potenza rappresentativa, come i partiti, per esempio: sono però circa trent'anni che la politica non orienta più niente, e l'unica cosa che sa fare bene è rubare. Viviamo in un periodo in cui le speranze sono solo individuali, associazionistiche, solo private perché il partito - quale che fosse, -  ha perso il suo significato di riferimento sociale, culturale e politico da quando ha perso la capacità di chiamarsi tale: sono finiti il PCI il PLI il PSI - forse il PD ha mantenuto il nome (e solo quello)-, ovviamente tutti molto discutibili rispetto alle ispirazioni iniziali ma avevano una caratteristica: rappresentavano l'essere; uno era radicale, era comunista, era liberale, era socialista e quella identità corrispondeva a dei valori di consapevolezza, di cultura. Si è perso tutto. Sono nate le margherite le leghe le querce le forze, si è perso l'essere a favore dello stare: io sto di qua o sto di là. Creando delle cose inverosimili in cui persone di diversissimo orientamento stanno insieme “contro” qualcun altro e in questo il bipolarismo berlusconiano è stata la nostra vera tragedia: i ladri che vediamo oggi sono esattamente uguali a quelli di prima ma diversi nella misura in cui rubano per se stessi e non più per una causa, per un'ideale, per un partito. La politica è diventata una delle cose più terribili del nostro tempo, e quindi che qualcuno possa tentare di fare “storia” da solo, pur essendo una dimensione romantica, disperata e terribile risulta oggi senz'altro più affidabile individualmente di quanto può esserlo un partito: approdiamo con fiducia ai nuovi profeti come Franco Arminio, o Carlo Petrini, il presidente di slow food: due intellettuali ultimi e unici che hanno indicato un indirizzo politico ma non si occupano di “politica” nel senso più tristemente noto.

Franco Arminio e paesologia

La filosofia di Slow Food che Petrini rappresenta parte dalla riscoperta del piacere attraverso la cultura materiale. Il piacere di cui parla è quello alimentare, sensibile, condiviso e responsabile. Per avvicinarsi a questa conquista, che deve essere di tutti, bisogna secondo Petrini innanzi tutto riflettere sulla lentezza, recuperare ritmi esistenziali compatibili con una qualità della vita che deve essere totale. Non è un’eresia dire che il piacere alimentare - spesso tabù, represso, riservato soltanto a élite facoltose – va democraticamente perseguito per tutti nel mondo. Non è eresia lavorare perché anche i più poveri ne possano godere. Dire “piacere alimentare” significa ricercare le produzioni lente, ricche di tradizione e in armonia con gli ecosistemi; significa difendere i saperi lenti, che scompaiono insieme alle culture del cibo; significa lavorare per la sostenibilità delle produzioni alimentari e quindi per la salute della Terra e la felicità delle persone. Un atto di riconciliazione urgente, tanto essenziale nella sostanza pratica quanto profondamente religioso che racconta uno stato d'animo diffuso. Filosofia sorretta da un fare, da un'azione, che rompe l'indifferenza e ridimensiona la rassegnazione imperante.

Il livello dello scontro sul modo di concepire le nostre vite si è molto aggravato in questi ultimi anni ma rispetto a questa realtà la politica continua a rimanere assente, mentre un gastronomo semplice quando viene a conoscenza che in Puglia, ad esempio, schiavizzano gli uomini per la raccolta dei pomodori, non può più essere un'entità neutra che si occupa solo di ricette o di tecnica culinaria: piuttosto si trasforma in intelligenza affettiva, qualcosa che la politica ha smarrito. Lentezza non è sinonimo di ottusità e non necessariamente va contro la modernità. Né va inteso come un valore assoluto: semmai è una medicina omeopatica che tutti dovremmo prendere solo se ci fermassimo un attimo a riflettere. Bello sarebbe che dallo "slow food" passassimo alla "slow life", ma sarebbe talmente radicale un cambiamento del genere che se fosse applicato modificherebbe nel profondo il mondo in cui viviamo, sarebbe una sorta di austera anarchia; d'altronde le nostre comunità hanno una creatività e una capacità di interpretare il territorio che nessuna organizzazione potrebbe mai dare, provviste come sono di un sentimento di comunanza ideale, di sinceri combattenti per la democrazia, per i diritti civili. Il futuro dei luoghi sta probabilmente nell’intreccio di azioni personali e civili. Per evitare l’infiammazione della residenza e le chiusure localistiche occorre abitarli (i luoghi) con intimità e distanza. E questo vale per i cittadini e più ancora per gli amministratori. Bisogna intrecciare in ogni scelta importante competenze locali e contributi esterni. Intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia, parola di Arminio.

Fare festa a un luogo, raccontarlo, attraversarlo, cantarci dentro passando dalla coscienza di classe alla coscienza del luogo, tentando di resistere alla miseria spirituale dilagante.

Che nome si può dare a questa religione che arriva fuori tempo? La paesologia è quasi una nuova scienza che s'insinua tra le speranze del nuovo secolo, è un piccolo tentativo che ha a che fare con la religione nel senso che vuole legare delle emozioni, delle vaghe suggestioni intorno al finire di un mondo e all’inizio di un altro. Senza la fine dalla modernità non ci sarebbe paesologia, ma non si tratta di una disciplina rurale e neppure paesana: si tratta di inventare uno spazio impensato, capace di intercettare i flussi buoni e tenere lontani quelli cattivi. In fondo è come una guerra partigiana: resistere al nemico comune che si chiama denaro. Nel momento in cui il denaro diventa teologia, allora bisogna scendere sul terreno del sacro e creare altre teologie.

Arminio e paesologia

La paesologia peraltro vuole mettere in evidenza i luoghi sgraziati, quelli che sarebbero luoghi luminosi anche se non ci fosse nessun essere umano dentro. Vuole aver cura della bellezza che si è salvata dal diluvio della modernità. Il cambiamento si rifonda qui, nei luoghi dove si ripianta il grano buono, si potano gli ulivi con amore, si dà foraggio sano alle mucche. Tutte tracce di una politica che parte dalla natura. La festa paesologica produce felicità in luoghi che di norma sono affranti, luoghi in cui si cresce con l’idea della fuga. L'intuizione dei profeti della lentezza è che invece questo è il tempo di restare dove si nasce, è il tempo di credere ai paesaggi che ci hanno formato perché in fondo siamo l’aria che abbiamo respirato, il cibo che abbiamo mangiato. E se in certi luoghi non si potrà piantare il grano si potranno seminare campi, si potrà seminare poesia: trasformare i paesaggi sconsolati, di margine e disabitati in  paesaggi solenni. All'opposto di una bellezza “firmata” come quella di Venezia, di Firenze, di Roma e in generale delle grandi capitali d'Europa, esiste una bellezza non firmata, quella dei nostri uliveti coltivati dai nostri nonni con grande fatica. Negli anni '50, quando la sinistra marxista era in auge, non è stato mai realizzato un documentario in cui si parlasse della bellezza di questi posti, erano considerati luoghi da rottamare insieme alla civiltà contadina ed è con questa logica che è arrivata l'ILVA a Taranto; dobbiamo liberarci dai bulloni e dalle macchine prima ancora che le macchine si liberino di noi, facendo altro. Per quanto questi profeti siano disperatamente solitari è da loro che possiamo aspettarci l'unica speranza possibile emancipandoci da quell'idea di progresso che fu fondamentale nella mitologia del novecento: nel manifesto futurista Dio viene sostituito dall'automobile con una netta sostituzione dei relativi valori. "Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità" recitava il Manifesto del futurismo nel 1909; le parole si rovesciarono, il paesaggio divenne territorio, le belle arti divennero beni culturali il godimento della bellezza si trasformò in fruizione, con grande velocità tutto prese una direzione prevedibile verso le città, verso l'industrializzazione in una condizione di cecità generale. Forse non tutti sanno che l'Italia ha 25 milioni di edifici costruiti in alzato: di questi 25 milioni 12 milioni sono stati costruiti dal tempo di Segesta fino al 1959 e 13 milioni dal '60 ad oggi: cioè abbiamo costruito in sessant'anni una quantità di architetture pari a quelle che furono costruite in 2700 anni! Abbiamo costruito orrore, periferie degradate, grattacieli ovunque distruggendo e cancellando. Quando abbiamo finito di distruggere le città, abbiamo cominciato a distruggere il paesaggio, e un esempio evidente ne sono le pale eoliche. Ancora un altro profeta, Cesare Brandi, raccontava della più bella strada d'Italia, quella che da Palermo va a Mazara passando per Mozia, meravigliosa per la grande varietà del paesaggio; se oggi vedesse le 850 pale eoliche -tutte ferme- che stanno piantate lì probabilmente morirebbe d'infarto.

Ecco che una fondante mitologia del nostro tempo dev'essere quella della lentezza, senza alcuna promessa che non sia quella di preservare ed evitare con forza che ciò che abbiamo venga ancora e ulteriormente distrutto.

Paesologia

Se “conservazione” è una parola positivamente adottata dai direttori di musei e in generale nell'ambito delle belle arti, politicamente è al contrario considerata parola negativa, sinonimo di restaurazione, di regressione: i fatti ci hanno dimostrato e continuano a dimostrarci che non è sempre vero; a tal proposito ho trovato una straordinaria assonanza tra il pensiero dei profeti di cui sopra e un pensiero espresso nel 1957 da un uomo generalmente considerato un vero conservatore come Leo Longanesi,  che scrisse:

"La miseria è ancora l'unica forza vitale del paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto il frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custoditi soltanto dalla miseria; dove essa è sopraffatta dal sopraggiungere del capitale ecco che si assiste alla completa rovina di ogni patrimonio artistico e morale perché il povero è di antiche tradizioni e vive di una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi mentre il ricco è improvvisato, di fresca data; nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che lo umilia, la sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall'imbroglio, da facili traffici - sempre o quasi imitando qualcosa che è nato fuori di qui- perciò quando l'Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga noi ci ritroveremo a vivere in un paese di cui non conosceremo più né il volto né l'anima".

E' corretto precisare ancora una volta che i profeti di cui ci siamo occupati sono persone notoriamente “di sinistra” giusto per confermare che “sinistra” non indica più nemmeno una direzione, non vuol dire più niente, forse soltanto che è da lì che si proviene, affettivamente e intellettualmente.

Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia (…). Andare lenti è ruminare, imitare lo sguardo infinito dei buoi, l'attesa paziente dei cani, sapersi riempire la giornata con un tramonto, pane e olio.

E' il tornare alle cose necessarie.  Andare lenti è essere provincia senza disperare,  è quello che potrà offrire riparo ai profughi del pensiero veloce, è “misura” impensabile senza l'andare a piedi, senza fermarsi a guardare gli escrementi degli altri uomini in fuga su macchine veloci. Nessuna saggezza può venire dalla rimozione dei rifiuti. E' da questi, dal loro accumulo, dalla merda industriale del mondo che bisogna ripartire se si vuole pensare al futuro.

(MC) Ecco un articolo, quello di Cettina Vivirito, che di primo acchitto potrebbe sembrare non pertinente con la mission di questo magazine, ma che invece lo è profondamente, soprattutto perchè una fascia oggi sempre più cospicui di ultrarunner e di ultracamminatori si immergono sempre di più in un contatto profondo e radicale con il territorio e con il paesaggio, conquistando lo statuto di "psicoatleti", secondo la definizione coniata da Enrico Brizzi, e di "paesologi". In entrambi i casi si tratta, il più delle volte, di uno status "in pectore" di cui non si ha piena consapevolezza. Forse, quest'articolo può contribuire ad aiutare costoro ad acquistare una maggiore consapevolezza di ciò e a dare ulteriore valore alla loro passione per la corsa e il cammino profondi che, indubbiamente, possono diventare gesti "politici" nel senso più profondo e autentico del termine.

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1 agosto 2017 2 01 /08 /agosto /2017 09:52
Fred, il cane di Cettina Vivirito

(Cettina Vivirito) Camminare in mezzo alla natura con il proprio cane rappresenta uno dei momenti più autentici che la vita ci possa riservare. I passi del cane di fianco a noi, il senso di un'alleanza antica, la sintonia di una comunicazione che non ha bisogno di parole. Come proiettati in una dimensione ancestrale, come se riecheggiassero in noi ricordi remoti, esperienze che magicamente riemergono dai fondali del nostro passato filogenetico e che ancora riposano in qualche lontana regione della mente, nella memoria del tessuto di cui è fatto il cuore. E' un'immergersi in una dimensione plurisensoriale: sommersi dagli odori che salgono dal terreno e si mescolano con le essenze vegetali, il silenzio rotto a tratti solo dal canto degli uccelli e dal ronzare degli insetti, la luce che s'insinua tra le emergenze arboree disegnando chiaroscuri e sfumature tonali di verde mentre la nostra mano sfiora arbusti e cortecce e impara a distinguere le diverse gradazioni del tatto.

Il cane è lì con noi anche quando corre avanti lungo il tragitto o si tuffa dentro sentieri odorosi o si perde lungo un'autostrada olfattiva. Sentiamo il suo respiro, condividiamo il suo entusiasmo, comprendiamo le sue ragioni: siamo un corpo unico nello spazio. Quando il cane si volta improvvisamente verso di noi come ad accertarsi che ci siamo, che ci sta proteggendo abbastanza, nel suo sguardo c'è tutto il segreto di un rapporto che sfida il tempo. Si passeggia quindi insieme a lui per recuperare il proprio tempo in una dimensione bella quanto non assimilabile ad altro. Si cammina insieme perché si condivide con il cane l'avventura dell'imprevisto, perché insieme a lui si può finalmente abbandonare il timone della barca e lasciarsi trasportare dalla corrente. Si cammina lentamente insieme perché è eterno ogni attimo vissuto senza affanno in una dimensione di totale libertà. Per dirla con il filosofo e etologo Roberto Marchesini...durante migliaia di anni di convivenza tra l'uomo e il cane  entrambi si sono plasmati vicendevolmente, l’uno ha addomesticato l’altro ricamandosi nelle più profonde rifiniture fino a diventare un curioso yin e yang filogenetico, in un gioco complesso di incastri e richiami, come una chiocciola e il suo guscio: l’uno si rifugia nell’altro”. Cuore umano, quello del cane, cuore di lupo, quello dell'uomo.

La relazione con il cane affonda le sue radici nel lontano paleolitico e ci parla di una dimensione di vita nomadica, quella dei raccoglitori e dei cacciatori che si spostavano continuamente su vasti territori e spesso migravano nei cambi stagionali alla ricerca dei territori migliori dove poter trovare le risorse di sopravvivenza. Esseri umani e lupi viaggiavano fianco a fianco in queste migrazioni condividendo lo stile semi-nomadico del branco che conquista un territorio ma non si ferma. Gli accampamenti di fortuna diventavano luoghi di accumulo di rifiuti dove il lupo poteva rifornirsi alla bisogna, mentre gli ululati del branco diventavano per l'essere umano garanzia di controllo territoriale.

Le due specie cominciarono a convivere e a trovare vantaggiosa questa vicinanza: ciò permise adozioni miste e passaggi culturali tra loro. Insomma il lupo lentamente stava virando nel cane e l'essere umano stava assumendo caratteri lupini, nell'organizzazione del gruppo e nelle dinamiche di caccia. Uomini e lupi s'incontravano nella perlustrazione di territori, l'uno più attento agli indizi visivi, l'altro a quelli olfattivi: insieme costituivano un organismo perfetto capace di colonizzare ogni ambiente e di riuscire vincente nelle più diverse situazioni.

Tuttavia non esiste nessuna dimostrazione possibile che un lupo sia diventato o possa divenire effettivamente un ausilio nell'attività venatoria umana, né che possa divenire un guardiano o un commensale dell'uomo: le peculiarità etologiche che hanno permesso al cane di divenire l'animale domestico per antonomasia sono uniche e totalmente assenti nel lupo. Il cane potrebbe non discendere direttamente dal lupo, bensì condividere un'origine comune tramite Canis lupus variabilis, già dotato presumibilmente in nuce di quelle caratteristiche etologiche che riconosciamo ancor oggi nel nostro migliore amico.

Fred, il cane di Cettina Vivirito

Konrad Lorenz, nel suo affascinante libretto “E l'uomo incontrò il cane” si chiede se tutto sia andato realmente così: nessuno di noi c’era, questo è vero, però, da tutto ciò che sappiamo, potrebbe proprio essere andata così. L’unica cosa veramente certa è che il progenitore della maggior parte dei nostri cani non è il lupo nordico, come un tempo in generale si credeva. “(…) Quando l’uomo passò a costruirsi capanne su palafitte e si fabbricò anche la piroga, ciò condusse necessariamente anche a un mutamento nei rapporti fra lui e i suoi compagni a quattro zampe: questi infatti non potevano più vegliare sulla casa dell’uomo circondandola da ogni parte. Si deve supporre che l’uomo allora, proprio nel periodo in cui passò alle abitazioni su palafitte, abbia preso con sé degli esemplari particolarmente mansueti di sciacalli dorati non ancora addomesticati, ma abili cacciatori e come tali preziosi, e ne abbia fatto degli animali domestici  nel vero senso del termine. (...)

Si può immaginare che un giorno una donna, o una bambina che voleva giocare alla bambola, abbia raccolto un cucciolo abbandonato e lo abbia allevato in seno alla famiglia umana. Forse quel cagnolino era l’unico sopravvissuto di una cucciolata caduta vittima di una tigre. Il cucciolo piangeva, ma nessuno si occupava di lui, poiché evidentemente la gente a quel tempo aveva ancora i nervi d’acciaio. Ma, mentre gli uomini erano occupati a cacciare nelle foreste e le donne erano intente alla pesca, una bimbetta seguì quel lamento e trovò in una grotta il cucciolo, che le venne incontro senza timore sulle zampette ancora incerte e cominciò a leccarle e a succhiarle le mani protese. Quel batuffolo morbido e tondo ha certamente risvegliato, già nella figlia dell’uomo della prima età della pietra, l’impulso a prenderlo in braccio, a coccolarlo e a trascinarlo continuamente in giro con sé, non altrimenti di quanto accade a una bimba dei nostri giorni. Gli impulsi materni da cui nascono tali gesti sono infatti antichi come il mondo. E così la bimba dell’età della pietra, imitando all’inizio come per gioco ciò che ha visto fare dalle donne adulte, gli ha dato da mangiare, e l’avidità con cui la bestiola si è gettata sul cibo che le veniva offerto l’ha resa felice, come sono felici le nostre mogli e madri quando gli ospiti mostrano di gradire il loro cibo. Insomma, la gioia è immensa e quando i genitori fanno ritorno trovano, sorpresi sì ma per nulla entusiasti, uno sciacallino più che sazio. Naturalmente il rude guerriero vuoi buttare subito in acqua la bestiola, ma la figlioletta piange e si aggrappa singhiozzando alle ginocchia del padre, che traballa e lascia cadere il cucciolo. Quando vuole riprenderlo, il piccolo è già di nuovo al sicuro nelle braccia della bambina, che se ne sta nell’angolo più oscuro della capanna, tutta tremante e con il faccino inondato di lacrime. E poiché anche i padri dell’età della pietra non hanno mai avuto un cuore di pietra con le loro figliolette, il cucciolo finisce col rimanere.(...)”.

Fred il cane di Cettina Vivirito

L’attaccamento di un cane nasce da due fonti istintuali fondamentalmente diverse. Soprattutto nelle nostre razze europee esso è in gran parte conseguenza di quei vincoli che legano il cucciolo selvatico ai suoi genitori, vincoli che però nell’animale domestico permangono come manifestazione parziale di un generale infantilismo. L’altra radice dell’attaccamento è nella fedeltà che lega il cane selvatico alla figura del capo branco, ma anche nell’affetto personale che unisce fra di loro i compagni di branco.

Questa seconda radice è più forte in tutti i cani di discendenza lupina che non nei discendenti dallo sciacallo, poiché nella vita del lupo la coesione del branco ha assai maggiore importanza. Se si prende un cucciolo di una specie canina non addomesticata e lo si alleva nella famiglia umana come un cane di casa, ci si può facilmente convincere che l’attaccamento giovanile dell’animale selvatico corrisponde esattamente a quei legami sociali che la maggior parte dei nostri cani domestici conservano per tutta la vita con i loro padroni. Il nostro lupacchiotto è pauroso, si nasconde volentieri negli angoli bui, è molto riluttante ad attraversare uno spazio libero, tenta facilmente di mordere se un estraneo lo accarezza: è, dalla nascita, un Angstbeisser, un animale che morde per paura, ma col padrone si comporta in tutto e per tutto come un cucciolo di cane, anche per quanto riguarda l’attaccamento. Di un’altra natura è l’attaccamento e la fedeltà di quelle razze che hanno nelle vene sangue lupino. In luogo del persistente attaccamento infantile che distingue soprattutto i nostri comuni cani domestici, discendenti dallo sciacallo dorato, prevale in quelli una fedeltà virile. Mentre lo sciacallo è in sostanza un animale selvatico stanziale e si nutre principalmente di carogne di animali, il lupo è un predatore quasi puro e nella caccia, specialmente quando si tratta di selvaggina grossa, deve poter contare sulla solidarietà dei compagni di branco. Per soddisfare le sue notevoli esigenze alimentari un branco di lupi è costretto a superare grandi distanze. Durante queste migrazioni deve mantenersi ben compatto per poter sopraffare le prede più grosse. Una rigida organizzazione sociale, una perfetta ubbidienza al capo del branco e un'assoluta solidarietà nella lotta contro gli animali più pericolosi sono le condizioni preliminari per il successo nella precaria esistenza dei lupi. Ciò spiega la già accennata differenza di carattere fra i cani aureus, discendenti dallo sciacallo, e quelli di origine lupina; i primi vedono nel padrone il genitore, i secondi il capo del branco; quelli sono infantilmente devoti, questi hanno una fedeltà, per così dire, “da uomo a uomo”.

Sempre Lorenz sostiene che “nella facoltà di capire il padrone nei suoi sentimenti più profondi, tutti i cani aureus ad alto livello di addomesticamento sono molto superiori. Con ragione noi usiamo giudicare le qualità morali di persone legate da vincoli di amicizia secondo la loro disponibilità a compiere il più grande sacrificio senza pensare a una contropartita”.
 

Fred il cane di Cettina Vivirito

Nietzsche, che, a differenza della maggior parte degli uomini, usava la brutalità, seppure verbale, solo come una maschera dietro la quale si nascondeva un’autentica bontà d’animo, disse: “Sia tua ambizione amare sempre più dell’altro, non essere mai secondo!” Con gli esseri umani, in determinate circostanze, possiamo anche riuscire ad adempiere a questo comandamento, ma nei legami di amicizia che abbiamo con i nostri cani siamo invece sempre i “secondi”. L’uomo, l’essere dotato di ragione e di un elevato e responsabile senso morale, l’uomo, la cui più bella e nobile professione di fede è la religione della fratellanza, proprio nell’attitudine al più puro amore fraterno viene per secondo dopo un animale da preda! Anche il più nobile affetto umano non sgorga dalla ragione e da una morale specificamente umana, ma da strati molto più profondi e primordiali, puramente emotivi e, quindi, sempre istintuali. Anche il più esemplare e altruistico comportamento morale perde per la nostra sensibilità ogni valore quando non nasce da motivazioni di questo tipo, bensì dalla ragione. Ma proprio questo cuore è rimasto ancor oggi nell’uomo lo stesso che negli animali sociali più evoluti, per quanto le vette raggiunte dal suo intelletto, e quindi anche dalla sua morale razionale, siano incomparabilmente più alte. Per Lorenz, grande compagno di innumerevoli cani non è difficile accorgersi che “(...) Il semplice fatto che il mio cane mi ami più di quanto io ami lui è una realtà innegabile, che mi colma sempre di una certa vergogna. Il cane è sempre disposto a dare la sua vita per me. Se fossi stato minacciato da un Leone o da una tigre Ali, Bully, Tito, Stasi e tutti gli altri, avrebbero affrontato senza un attimo di esitazione l’impari lotta per proteggere, anche solo per pochi istanti, la mia vita. E io?

Oggi quando usciamo di casa con il nostro cane ci ritroviamo catapultati in una realtà che non ricorda più i sentieri dei nostri progenitori del paleolitico e che si discosta in modo impressionante da quel mondo rurale che ancora prevaleva cento anni fa. Viviamo in grandi metropoli affollate e caotiche per la presenza in spazi ristretti di automobili, persone e altri cani; tutto questo ha un impatto tremendo sulle capacità della persona e del cane di trovare il giusto accordo nella concertazione che inevitabilmente una passeggiata al guinzaglio richiede. Il cane è portato ad affidarsi a noi, ma noi non siamo in grado di accreditarci agli occhi del cane o per i nostri comportamenti incoerenti, o perché siamo rinunciatari o, peggio, perché speriamo di farci ascoltare attraverso la violenza. Eppure una cosa fondamentale risulta sotto gli occhi di tutti, oggi, in maniera oltremodo evidente: ci sono tanti, tanti cani in città, a volte due o tre camminano insieme a un solo padrone, cosa che dovrebbe imporre una seria riflessione: qualcosa del cane ci sta ancora sfuggendo? O il nostro cuore di lupo reclama un amore antico e verace introvabile nella nostra pur tanto declamata “fratellanza”?

Ospitiamo qui il bell'articolo di Cettina Vivirito, primo di una promettente collaborazione che andrà ad implementare i "dintorni" di questo magazine, dal momento che la Nostra si è poco occupata di sport e di sport di lunga durata, ma può sicuramente offrirci riflessioni di ampio respiro su tematiche inedite e poco esplorate.
A proposito di questo notevole articolo (e a proposito di cani e corsa sono stati diversi gli articoli pubblicati sul magazine) aggiungerei che, secondo alcune vedute recenti di tipo socio-antropologico, sarebbe stato proprio l'incontro tra uomo e cane ancestrale a creare le premesse per un'ulteriore evoluzione dell'assetto mentale degli Umani, facendoli evolvere dalla loro condizione ferina. Secondo queste teorie, l'emotività e la dimensione affettiva che noi consideriamo aspetti qualificanti della nostra Umanità, non sarebbero stati originariamente nella nostra natura, ma sarebbe stata la convivenza con il cane ad orientare in questa direzione il nostro assetto psichico.

Cettina Vivirito e il suo cane Fred
Cettina Vivirito e il suo cane Fred
Cettina Vivirito e il suo cane Fred
Cettina Vivirito e il suo cane Fred
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Cettina Vivirito e il suo cane Fred
Cettina Vivirito e il suo cane Fred

Cettina Vivirito e il suo cane Fred

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6 ottobre 2016 4 06 /10 /ottobre /2016 09:44
Giro della provincia di Ragusa a piedi. Il grazie di Salvatore Sulsenti ad Amiciper e a Fabiola Caporalini. Fabiola mi disse: Vai!

Come è noto, Salvatore Sulsenti, nel corso del mese di luglio 2016 (per l'esattezza dal 6 al 9 del mese in questione) ha compiuto il Giro della Provincia di Ragusa a piedi, una quattro giorni di camminata con zaino in spalla. Questo Giro è stato un ripiego rispetto al più ambizioso progetto del Giro di Sicilia a Piedi che egli aveva in animo di compiere, la cui attuazione è stata rimandata per motivi organizzativi, ma anche in assenza di sponsor che gli consentissero di compiere l'impresa in economia.
Ma, sin dall'inizio, Salvatore ha avuto un grande supporter che è stata l'amica Fabiola Caporalini che ha avuto fiducia in lui e sin dall'iniziaìo lo ha ha supportato perchè egli in contraccammbio portasse avanti la causa della Onlus AMICIPER di cui Fabiola Caporalini si occupa con passione e dedizione..
A lei si deve l'input finale che ha convinto Salvatore Sulsenti a non lasciar perdere tutto, in preda alla sfiducia, e a lanciarsi nel Giro della Provincia di Ragusa a Piedi.
Fabiola Caporalini scrive poesie e ha la passione per i libri che si concretizza nell'avere una libreria a Tolentino in provincia di Macerata (Libreria Nautilus) che promuove anche laboratori di scrittura e tutto ciò che serve a coltivare la passione per la carta stampata.
Qui di seguito il tributo di Salvatore Sulsenti all'amica Fabiola e alla Onlus Amiciper.
E ancora di seguito una sua testimonianza sulle origini di questa amicizia.

Salvatore Sulsenti alla vigilia della 50 km dell'Etna (11 settembre 2016)(Salvatore Sulsenti) I numeri sono comodi. Non si prestano ad interpretazioni. I numeri sanno mantenere un segreto ma i numeri hanno un’anima sterile e triste. I numeri non narrano della paura, della tristezza e della mia solitudine durante il Giro di Ragusa, e Provincia, a Piedi. 12 comuni, 4 giorni, quasi 200 km, decine di storie incontrate interpretate da uomini e donne che incontravo per la prima volta. Il mio non è stato un cammino ma un pellegrinaggio verso me stesso e verso una vita nuova. Sono stato ad un passo dal mollare tutto, molto vicino ad arrendermi e lasciare che la vita mi piovesse addosso, ormai stanco dal progettare un giro che non ha risorse se non la sola visione che andava fatto. Mi chiama Fabiola, mia immediata e pronta sostenitrice ed anima vivace dell’Onlus AMICIPER di Tolentino (Macerata).

Dopo pochi minuti Fabiola mi dice solo: "Fai il giro!".

Ed il giro di Ragusa ho fatto, tornando a sorridere. Un giro propedeutico al più ambizioso Giro di Sicilia, utile insomma a scaldare i motori in attesa che le risorse siano sufficienti.
Amiciper mi ha scelto subito come testimonial e compagno nella diffusione delle iniziative solidali che in Burkina Faso, insieme con il MAGIS (Movimento e Azione dei Gesuiti Italiani per lo Sviluppo), porta avanti.

Amiciper ha realizzato ben 9 pozzi e mira a costruire il decimo.

Da una nota di Amiciper: “Nell’Africa subsahariana la scarsità dell’acqua costringe donne e bambini, che si occupano dell’approvvigionamento idrico, a compiere moltissimi chilometri ogni giorno, per cercare pozze di acqua che si raccoglie durante la stagione delle piogge, o per raggiungere i pochissimi pozzi esistenti. Il lungo cammino di Salvatore simboleggerà anche questo faticoso percorso che gli africani affrontano ogni giorno alla ricerca di acqua”.

Ho camminato per alcune decine di chilometri in questo giro di Ragusa con una riserva idrica costituita da 3 bottigliette da mezzo litro, dimostratesi assolutamente insufficienti.

Ho sofferto la sete per diverse ore sotto un sole impietoso e senza un albero gentile che mi offrisse la sua chioma.
A Chiaramonte Gulfi sono entrato in un albergo, quasi una cattedrale nel deserto almeno per me, e mi sono diretto verso la sala da pranzo attratto dal vocio del personale di sala che si apprestava al pranzo prima del loro inizio turno. Ho chiesto dell’acqua e la possibilità di riposare su una sedia alcuni minuti.

Mi é stata data una fresca bottiglia d’acqua di 2 litri e mi è stata indicata una poltroncina in veranda. Ho bevuto subito metà del contenuto della bottiglia, riversando l’altra metà nelle borracce che ho con me.
La strada è ancora tanta e devo andare, mi rinfresco in toilette.

Sono pronto, la sete sembra essersi allontanata definitivamente. Chiedo di pagare la bottiglia d’acqua: “Non serve vada pure, gliela offriamo noi”.
Ringrazio commosso, ma non sorpreso della generosità, e parto. Un sole torrido mi riporta subito in terra e mi ricorda che ho davanti a me ben 14 km con 38 gradi. La mia scorta finisce prima del previsto e comincio a rallentare il passo. La strada sembra non finire ed i tornanti si succedono.
La sete prende il sopravvento ed una inusuale solitudine sembra affiancarmi. Non demordo e decido di ascoltare della musica per distrarmi, senza riuscire efficacemente nell'intento.
Arrivo a Monterosso Almo ed un bar all'ingresso del paese prima ed una fonte a 200 metri tornano a farmi sorridere.

Amiciper ha la sede in viale Brodolini al n° 70.

Il CAP è 62029 a Tolentino (MC) ed il Codice Fiscale è: 92019090437 e i recapiti telefonici sono 0733/18.32.738 – 340/25.02.102

Questo è solo un indirizzo che non potrà mai dirvi chi è Fabiola e chi sono gli uomini e le donne di AMICIPER.

Dentro un cassetto conservo gelosamente una raccolta di poesie regalatomi nel novembre del 1998 da Fabiola con la seguente dedica: “A Salvatore che possiede un dono speciale: quello di far sorridere gli altri”. Fabiola fa riferimento alla mia passione nello scrivere calembour e nonsense, che presentai alla redazione del Corriere di Macerata, occasione in cui la conobbi. A distanza di anni conservo, gelosamente, l’unica copia di “Rovesciata Clessidra Purpurea”, la prima pubblicazione di Fabiola Caporalini. Nel rileggere le poesie e la dedica torno io sempre a sorridere come se questa dedica fosse uno specchio. Nella realtà è Fabiola che ci fa sorridere e fa sorridere chi le sta intorno. Madre, moglie, poeta, imprenditrice ed anche anima gentile dell’Onlus Amiciper di Tolentino Fabiola è una donna di una profonda ed evidente sensibilità che elargisce senza mai risparmiarsi.
“Fabiola Caporalini è nata a Sarnano (MC) nel 1972. Quasi contemporaneamente è nato in lei i desiderio di poter scrivere, di volersi esprimere in una forma e in un linguaggio tutt’altro che semplici, quelli della poesia, dove la comunicazione di sé è più intensa, più ricca e profonda…” dalla quarta di copertina della raccolta di poesie di Fabiola (Rovesciata Clessidra Purpurea, edita da Blu di Prussia).
Sii “...pazzo delirio della mano che freme tra le parole” e come vento in tempesta corri per il Mondo e per le genti.
Ciao Fabiola.

Salvatore Sulsenti (Giro di Sicilia a piedi)

Chi siamo… (…) …un gruppo di amici di Tolentino e dintorni che vogliono iniziare un’ avventura entusiasmante nel mondo della solidarietà! Storia L’idea è partita da Massimiliano Cervigni, un cittadino di Tolentino noto per le sue performance ciclistiche, che per aver raccolto alcune bici usate da destinare agli abitanti dell’Africa, è stato invitato dal “Comitato bici d’Italia in Africa” in Burkina Faso e lì ha conosciuto Padre Umberto Libralato, un gesuita del gruppo missionario Magis (Movimento e Azione dei Gesuiti italiani per lo Sviluppo; www.magisitalia.org). Da quella esperienza è nata la volontà di creare un gruppo di solidarietà, chiamato “Amici per” che da aprile 2008 ha iniziato ad operare e da settembre è iscritta all’albo delle associazioni ONLUS della Regione Marche. Iniziative Come prima esperienza il gruppo si è lanciato nella campagna di raccolta di cellulari usati appoggiandosi al Magis. Si tratta di un gesto di solidarietà e responsabilità ambientale in quanto i materiali preziosi e riciclabili contenuti nei cellulari permettono di ricavare denaro da investire in Africa sotto forma di cucine solari, grazie alle quali si impedisce il taglio indiscriminato della foresta, e contribuiscono alla costruzione di un orfanotrofio per bambini malati di AIDS. La raccolta è iniziata ad aprile 2008 e continua tutt’ora.

Pozzi per l’acqua potabile. Il secondo progetto è stato la realizzazione di un pozzo per l’acqua potabile nella regione africana del Burkina Faso dove il Magis opera da molti anni. Il pozzo è stato terminato nell’estate del 2009 (costo 9000€). A partire dall’autunno 2009 avevamo in progetto la realizzazione di un secondo pozzo, i cui lavori sono partiti dal marzo 2010, a testimonianza dell’importanza fondamentale dell’acqua non solo per la vita, ma anche per lo sviluppo socioeconomico dei paesi in via di sviluppo. Tali lavori sono terminati alla fine di maggio 2010 (costo 10.000€). Alcuni di noi si sono recati sul posto per visitare il villaggio che si serve del pozzo nel mese di ottobre 2010. Nella primavera del 2011 è partito il progetto di realizzazione del terzo e quarto pozzo per l’acqua potabile per il quale l’associazione sta raccogliendo i fondi. Nel mese di aprile sono stati versati gli acconti del 50% per il terzo e quarto pozzo in via di ultimazione. Il costo complessivo per la realizzazione del terzo e quarto pozzo ammonta a 17334€. Nel mese di maggio è stato versato il secondo ed ultimo acconto per l’ultimazione dei due pozzi. Dopo la partita di beneficenza “90 minuti per un pozzo” (30 aprile 2011), sono subito partiti i lavori per il quinto pozzo che è stato terminato nel luglio 2011 per un costo complessivo di 9000€. Nel mese di gennaio 2012, l’associazione ha dato il via ai lavori per il 6° e 7° pozzo costriuti in Burkina Faso. Più in dettaglio, il 6° pozzo è stato iniziato tramite il MAGIS nella persona di Padre Umberto Libralato, grazie alla donazione in ricordo della Signora Mariangeli Maria, mentre per il 7° finanziato interamente da Amici per, l’’associazione ha già versato un acconto di € 8000,00 al MAGIS. 10 Maggio 2012: L’associazione Amici per è lieta di comunicare il termine dei lavori per il 6° e 7° pozzo (18.000€). In particolare, il sesto pozzo è stato realizzato grazie al contributo in memoria di Mariangeli Maria mentre il settimo è stato finanziato da fondi vari raccolti dall’associazione. A presto saranno visibili le immagini relative ai 2 nuovi pozzi. Dopo la cena di beneficienza “Sport e Solidarietà” del 24 novembre 2012, il saldo del conto corrente dell’associazione è di € 4850,00 e Padre Umberto Libralato, nel suo prossimo viaggio in Burkina Faso del 5 dicembre 2012, darà l’inizio all’8° pozzo dell’associazione. Nel mese di aprile 2013 sono partiti i lavori per lo scavo dell’ 8° pozzo che termineranno a giugno. Il sito è localizzato in Burkina Faso a 80 Km a nord di Kajà. I lavori sono terminati il 1° luglio 2013. Durante un viaggio fatto nell’ autunno 2013, alcuni volontari dell’associazione hanno visitato il pozzo. Allo scopo di raccogliere i fondi per la realizzazione del 9° pozzo, richiesto e promesso con la partecipazione al Tour du Faso, è stata organizzata una cena di beneficenza il 14 dicembre 2013. Dopo il viaggio in Africa, svoltosi nel febbraio 2010, l’associazione ha preso visione di alcune necessità ed ha quindi deciso di attivare una serie di raccolte di materiale usato:

  • per allestire un’officina meccanica : saldatrici, compressori, frullini, molette, trapani normali e a colonna, smerigliatrici piccole e grandi, troncatrici, morse, banconi da lavoro, mole da banco ecc.
  • per le famiglie: macchine da cucire a pedale e scampoli di stoffa
  • per gli ospedali : asciugamani, lenzuola, materiale sanitario disinfettante (garze, bende, guanti monouso ecc.)
  • per la costruzione di scuole ed edifici: materiale e edile e ponteggi

Obiettivi. Lo scopo dell’associazione “Amici per” è duplice: raccogliere fondi per realizzare progetti significativi per aiutare le persone più bisognose e sensibilizzare le persone di ogni età organizzando mostre e spettacoli di interesse sociale. In particolare, si lavora per migliorare il nostro habitat locale e si collabora anche con le scuole per gettare dei semi nelle future generazioni. Per questo le nostre iniziative sono progettate per intrattenere il pubblico, ma anche per lanciare messaggi importanti. Come da statuto, dal 2008 ci stiamo impegnando per l’Africa. L’associazione attualmente conta una decina di persone e vari simpatizzanti, ma naturalmente è aperta a tutti coloro che vorranno condividere con noi ideali e obiettivi. Le iscrizioni sono sempre aperte! Vi aspettiamo!

Contatti
Telefono associazione: 0733/18.32.738
cellulare: 340/25.02.102
Sede: Viale Brodolini n° 70
Codice Fiscale: 92019090437
Chiunque volesse effettuare offerte e/o sostentamenti, può farlo tramite Bonifico alla Banca Popolare di Spoleto Agenzia di Tolentino con le seguenti coordinate: Conto N° 2635 IBAN IT04L0570469200000000002635

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13 aprile 2016 3 13 /04 /aprile /2016 21:35
Viaggio a piedi in memoria di Marta. E' iniziata il 2 aprile la lunga marcia di Chris attraverso l'Italia, in compagnia dei suoi angeli. Una toccante storia d'amore e di dedizione

Ocorrono,  a volte, esperienze dolorose pr mttere in atto progetti "eroici" e di grande spessore. E' quello che è capitato a Christian, viaggiatore e blogger che ha deciso di compiere un lungo viaggio a piedi attraverso l'Italia che ha concepito il suo progetto come strumento per l'elaborazione del lutto, ma anche come modo di far vivere i suoi cari, portandoli con sé per tutta la durata del suo viaggio
Christian è partito a piedi da Bassano del Grappa il 2 aprile 2016, giorno in cui sarebbe dovuto nascere il piccolo Leonardo, morto a causa di una malattia rara (la Fibrosi Cistica), assieme alla mamma che lo aveva in grembo, intenzionato a compiere il Giro d'Italia a piedi, confidando nell'aiuto e nelle donazioni. che andranno all'associazione #marta4kids che è stata da lui stesso fondata per favorire le ricerche su questa patologia che colpisce un bambino su 2500-3000 nati.
Christian è adesso in cammino e sta portando con sé, virtualmente, il piccolo Leonardo e la moglie, i suoi due "angeli".

Tutti i fondi che Chris riuscirà a raccogliere lungo il suo giro a piedi per l’Italia verranno interamente devoluti alla ricerca per la lotta alla Fibrosi Cistica. Si tratta di una malattia genetica ereditaria, grave, che in Italia colpisce 1 neonato su 2500/3000 e he, essendo categorizzata come malattia rara, riceve fondi per la ricerca del tutto non sono sufficienti.
La malattia esordisce durante la prima infanzia e attualmente ci sono migliaia di bambini che, assieme ai loro genitori, la combattono.
Per quanto riguarda il suo itinerario Chris ha abbozzato una mappa, seguendo l’intento di visitare tutti i centri italiani specializzati per la cura della Fibrosi Cistica, portando il suo sorriso ed aiuti ai bambini che lottano ogni giorno.
Quella di Chris, della lunga marcia che sta compiendo in compagnia dei suoi cari angeli è una storia toccante, che fa emozionare.
Spero che i lettori di questo magazine, leggendo questo post, raccolgano il messaggio e si mettano in condizione di aiutare e sotenere Chris nelorsoel suo lungo viaggio a piedi attraverso l'Italia


Chi è Christian (Chris)? Questo è il modo in cui si presenta lui stesso nel suo blog.

Viaggiatore indipendente, Chris ama esplorare i luoghi piu’ incontaminati, pescare, fare del sano trekking ed esplorare le citta’ a piedi per coglierne i suoi dettagli.
Ha girato in diverse parti del mondo a partire dalla nostra Italia, Spagna, Inghilterra, Olanda,Irlanda,Francia,Croazia ma anche in luoghi piu' lontani come Tailandia, Malesia, California, Florida, Australia,Hong Kong, Cook Island ma sono i paesaggi e la gente della Nuova Zelanda che gli sono rimasti nel cuore.

Chris

Devo ringraziare Emanuela Pagan di avermi segnalato questo storia e pubblico di seguito un suo contributo che descrive le emozioni da lei sperimentate quando del viaggio i Chris lei è venuta a conoscenza.

L'amore è la cosa più bella del mondo (Emanuela Pagan)

 

L'amore esiste.

È ossigeno per il cuore.

Ho letto la storia di Christian e Marta.

Nel dolore non c'è stata la sconfitta. La morte sembrava aver strappato tutto. Invece non è così.

L'amore esiste e vince sempre.

La vita di Christian non sarà più uguale senza la sua amata, ma non ha smesso di camminare. Nel nome di chi amava, di chi avrebbe amato.

Lo scopo del suo cammino non è uno sterile esibizionismo, non è solo un personale ricordo.

Cammina per fare del bene.

Ogni passo ha un valore, è denso di speranza per chi vive ancora, ma lotta per respirare.

Bisogna leggerla questa storia di una famiglia. Separata nel tempo, unita dal cielo lungo i chilometri.

Un amore grande non può morire mai.

Non si è mai soli sotto le stelle.

Grazie Christian per la tua forza.

Buon Cammino

Ed ecco il progetto nel dettaglio con le parole di Chris.
Ed eccomi qui a presentarvi il mio nuovo scopo di vita: donare e fare del bene, convertendo rabbia e dolore in amore, sorrisi e speranze.

#Marta4kids oltre ad essere il nome della nostra Onlus a lei dedicata, sarà l’# del mio viaggio.
Partirò da Bassano del Grappa il 2 Aprile 2016 data nella quale sarebbe dovuto nascere il mio piccolo Leonardo.

Ho deciso di girare l’Italia a piedi, da nord a sud, per far conoscere bellezze italiane spesso poco note così come malattie tanto rare quanto gravi per le quali neppure il governo riesce a finanziare abbastanza la ricerca per trovarne la cura.

Questa mia bella “camminatina” avrà una durata di circa un anno nel quale giornalmente posterò in questo blog: blogdiviaggi.com i diari di viaggio con consigli ed indicazioni sui luoghi che riterrò interessanti.

Con foto e racconti vorrei dare la possibilità a tutti, anche a coloro impossibilitati nel farlo di persona, di poter vedere attraverso i miei occhi e virtualmente anche con quelli di Marta e Leonardo, tutte le meraviglie che per strada incontrerò.

Sono sicuro che non camminerò mai da solo, oltre alla presenza “virtuale”, se così si può dire, di Marta e Leonardo, ci sarà sicuramente qualcuno che vorrà camminare con me, chi per pochi passi, chi per intere regioni. Per sapere dove mi trovo lungo il mio viaggio questo è il link che indica la mia posizione in tempo reale : dove sono.

Settimanalmente raggiungerò gli ammalati e gli ospedali che trattano questa grave malattia (che affligge un bambino su 2500), con il fine di sensibilizzare la donazione. Ho scelto questa patologia perché si manifesta già dai primi mesi di vita dell’ammalato e la sofferenza dei nostri piccoli angioletti deve per lo meno alleviarsi.

Seguitemi nel mio viaggio, fate conoscere questo progetto, aiutatemi. L’Italia è piena di cuori buoni e sono sicuro che potrò sempre contare su di voi.

Ho deciso di donare il ricavato di questo mio viaggio di beneficenza alla ricerca sulla Fibrosi Cistica e agli ammalati che ne avranno bisogno.

Per le donazioni:

Abbiamo fondato una ONLUS: MARTA4KIDS per l’appunto. Per chi volesse donare questo è l’Iban

Intestatario : MARTA4KIDS ONLUS

iban: IT48X0200860260000104117188

Per contattare l’associazione: info (at) marta4kids.com

Grazie a tutti, a chi mi sta vicino, a chi mi aiuta e a te Marta, che mi dai la forza di andare avanti, sempre più determinato, sempre più convinto che tu mi accompagnerai.

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6 aprile 2016 3 06 /04 /aprile /2016 00:01
Sei Vie per Santiago. Nel documentario di Lydia Smith, storie di vite e di persone che si intrecciano e si intersecano: è il Cammino stesso che si racconta e racconta

Sarà proiettato a Palermo, il 20 aprile 2016, nella sala cinematografica "Rouge et Noir", il film documentario "Sei Vie per Santiago" (titolo originale "Walking the Camino", prodotto dalla regista Lydia B. Smith, film multipremiato (013 Newport Beach Film Festival, American Documentary Film Festival, Rainier Indipendent Film Festival, Hollywood Film Festival, Port Lauderdale International Film Festival).
Si tratta di un'interessante iniziativa che consente la fruizione di una pellicola che ha avuto un passaggio forse troppo rapido dalle sale cinematografiche e che, di conseguenza non è stata debitamente attenzionata.
Il film documentario della Smithè in qualche modo simmetrico con "The Way" di Emilio Estevez (2010, titolo italiano "Il Cammino per Santiago") che lo ha preceduto di qualche anno e che, pur avendo un impianto di narrativa fiction non documentaristica propone una narrazione del Cammino di Santiago con una simile prospettiva (il Cammino fatto di intersezione di storie di persone che si incontano ognuno con motivazioni diverse.
In fondo, i due film presentano due modi diversi per raccontare la stessa cosa, con notevoli e importanti coincidenze: soprattutto per quanto concerne la rilevanza delle storie personale che si incrociano e si intrecciano, ma soprattutto per quanto riguarda l'intrinseco "potere" che ha il Cammino di entrare nell'animo delle persone che lo percorrono, modificandone la visione del mondo, anche laddove il Cammino venga intrapreso con motivazioni "laiche": a prescindere dalla valenza religiosa, si tratta di quella risonanza sviluppata e ben descritta dai cultori del cosiddetto "camminare profondo".


Lydia B. SmithIl film, autobiografico e itinerante, segue da vicino un gruppo di moderni pellegrini che affrontano il viaggio verso Santiago, ognuno con le proprie ragioni, motivazioni e aspettative.
Sei persone a confronto, con vite e storie diverse: come quella di Misa che è una giovane sportiva danese. Viaggia da sola per poter essere più in sintonia con se stessa, ma l'incontro con un ragazzo di dieci anni più giovane cambia radicalmente la sua prospettiva.
O come quella di Sam, brasiliana, che ha trent'anni, soffre di depressione ed è alla disperata ricerca di quella forza interiore necessaria a trasformare la sua vita.

La visione del film
avrà un costo € 5,00.
La proiezione del film, inoltre, prevedendo la possibilità (interessante) di un dibattito al termine della visione, sarà una buona occasione di approfondimento per tutti coloro che vogliano acquisire una conoscenza di cosa significhi oggi metterrsi in cammino verso Santiago de Compostela.

Chi è interessato è pregato di dare conferma della sua presenza presso la biglietteria del Cinema Rouge et Noir (091324651)

Per molti secoli, la gente ha viaggiato dalla Francia fino a Finisterre, la fine del mondo allora noto, lungo il Cammino di Santiago. Chi come pellegrino per fede, chi alla ricerca di una propria crescita spirituale ed interiore. Non è assolutamente un'impresa semplice, e nonostante questo solo nel 2010 più di 270.000 persone hanno tentato questo arduo ma meraviglioso camino di cinquecento miglia. Sei Vie per Santiago è un'esperienza di immersione totale che cattura e racconta le prove e le difficoltà che sei moderni pellegrini affrontano durante l'antico percorso, del Cammino di Santiago. I protagonisti del film sono persone di diversa età (dai sette ai settantrè anni), nazionalità, cultura e costumi. Per ognuno di loro il Cammino rappresenta qualcosa di diverso, ma per tutti è una sfida che affrontano per cambiare se stessi.

Quella che segue é la sintesi del film su www.mymovies.it (by Marianna Cappi) Wayne ha 65 anni, ha perso da poco la moglie. Cammina con Jack, 73 anni, il prete episcopale che ha celebrato il funerale. Misa è danese, sportiva, competitiva. Pensava che avrebbe voluto camminare da sola, ma poi ha incontrato il canadese William, che ha il suo stesso passo veloce, e non si sono più seprati. Annie viene da Los Angeles, il ginocchio le fa male, la fatica la fa piangere, ma smettere sarebbe ancora più doloroso. E poi ci sono Sam, dal Brasile, in piena crisi esistenziale, Tomas, che non sapeva se fare kite-surfing o intraprendere il cammino, Tatiana, di 26 anni, fervente religiosa, con il fratello ateo e il figlio Alexis, che di anni ne ha 3, ed è il più giovane della compagnia.

Il cammino di Santiago di Compostela è lungo quasi 800 chilometri e attraversa il Nord della Spagna per terminare nell'Oceano a Finisterre. Non è un'impresa semplice, eppure sono secoli che le genti di ogni dove lo percorrono. Molti partono con una domanda nel cuore, perché in quello spazio e in quel tempo, immersi nella natura e segnati dalla fatica ma anche dall'emozione,
il confronto con se stessi è inevitabile e spesso illuminante. La regista lo ha fatto nel 2008, dopodiché, al ritorno a casa, la stessa "chiamata" che l'aveva messa sulla strada spagnola la prima volta, l'ha indotta a tornare per documentare il pellegrinaggio di altre persone. Il suo approccio è profondamente umanistico: il paesaggio ha ovviamente il suo spazio, ma non è alla sua contemplazione che si dedica il documentario. Allo stesso modo, la geografia del percorso, la pittoresca burocrazia dei timbri, il cibo e le messe, finiscono inevitabilmente nelle riprese di Lydia B. Smith ma non viene concesso loro uno spazio autonomo. Al centro, dall'inizio alla fine, ci sono le persone (le sei che ha scelto al montaggio, dopo averne seguite più del doppio per un totale di 300 ore di girato).
Piove, fa freddo, oppure il sole brucia in testa e sulle spalle, le vesciche sono causa di dolori atroci, la febbre può allettare per un po', ma ogni giorno è diverso, ogni tratto è diverso, e questo cambiamento, di sfondo e di umore è in fondo una metafora della vita, e si va avanti nonostante tutto, sperimentando difficoltà e gioie a fasi alterne, in vista della ricompensa finale, in autostima e significato.
Dal film della Smith emerge bene un piccolo paradosso: quello che s'intraprende, anche se non sempre in solitaria, come un viaggio individuale, alla ricerca di sé, della risposta che probabilmente abbiamo già dentro ma dietro una nebbia troppo fitta per riconoscerla, si trasforma quasi sempre in un'esperienza di condivisione e di collettività. Il Cammino, sembra dire il film, in un modo o nell'altro, ti sorprende. Ed è in questo sovvertire le aspettative che il Cammino incontra la vita e anche il cinema.

Sei Vie per Santiago. Nel documentario di Lydia Smith, storie di vite e di persone che si intrecciano e si intersecano: è il Cammino stesso che si racconta e racconta
Sei Vie per Santiago. Nel documentario di Lydia Smith, storie di vite e di persone che si intrecciano e si intersecano: è il Cammino stesso che si racconta e racconta
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5 marzo 2016 6 05 /03 /marzo /2016 11:04
Camminare. I diari di Cammino di Salvatore Sulsenti. Il randagio della strada al giro di boa dei suoi primi 50 anni, e si addensano eventi di buon auspicio
Camminare. I diari di Cammino di Salvatore Sulsenti. Il randagio della strada al giro di boa dei suoi primi 50 anni, e si addensano eventi di buon auspicio
Camminare. I diari di Cammino di Salvatore Sulsenti. Il randagio della strada al giro di boa dei suoi primi 50 anni, e si addensano eventi di buon auspicio
Camminare. I diari di Cammino di Salvatore Sulsenti. Il randagio della strada al giro di boa dei suoi primi 50 anni, e si addensano eventi di buon auspicio

Salvatore Sulsenti ha camminato sino alla soglia dei suoi primi 50 anni e l'ha superata, confortato dal fatto che attorno a questa sofglia si sono addensati eventi positivi che fanno ben sperare, assieme a progetti e a cambiamenti.
Quella che segue é la cronaca degli ultimi giorni.

Venerdì 19 febbraio 2016. Leggo un articolo di Maurizio Crispi. Parla di un cane che non dovrebbe urinare su una fioriera di un metro di altezza. Accadimento dubbio, ma evidentemente certo ed ineluttabile secondo il proprietario della fioriera. Alle 9.00 parto da Piazza Scalo Trapanese diretto a Punta Secca e sono con Margherita e Gabry. Arriviamo a destinazione, ed é immancabile una foto davanti la Casa del Commissario Montalbano. Buona parte del ritorno è una piacevole seduta di beach walking, seguita da una leggera brezza marina.
Tornati alla base, dopo 11,4 km e 2,10 ore, ci salutiamo con Margherita e la sua amica dandoci appuntamento per domani pomeriggio, per partecipare ad un walk trail di 13 km. Ho una cartina della Sicilia in scala 1:300000 su cui comprendere cosa mi aspetta se dovessi partire per un giro dell’isola. Mi chiama la mia amica Anna (che vive in provincia di Como) e dopo 5 minuti di piacevole chiacchierata ci salutiamo. Sono in pigiama e, a letto, guardo un film di Totò. Suonano alla porta, sono le 13,30 e penso al postino. Vado ad aprire. Resto per qualche interminabile secondo ammutolito, non è il postino né un agente delle tasse. Incredulo mi trovo davanti Anna ed il marito Carlo. Sono venuti a trovarmi per festeggiare i miei 50 anni, che sorpresa. Li faccio entrare in casa, ancora frastornato. Mi rivesto frettolosamente, Anna e Carlo non hanno pranzato e li accompagno a mangiare qualcosa. Programmiamo rapidamente ogni giorno fino al momento della loro ripartenza che sarà lunedì sera. Andiamo a Noto, scopriamo che la confusione per le vie è in occasione della Festa di San Corrado il Patrono della cittadina. Ci tuffiamo nell'atmosfera e godiamo di queste ore di festa mentre io mi soffermo a guardare Anna e Carlo non ancora convinto che siano accanto a me. Rientriamo e cena con pizza e birra.

Sabato 20 febbraio 2016.  3,30 del mattino sveglio. Sarà effetto dei miei 50 anni? Apro il sacchetto di carta con il regalo di Margherita per me. Uno zaino tecnico, il primo. Ho appuntamento a colazione con Anna e Carlo. Arrivano alla spicciolata i miei compagni di camminata, presento i miei amici di Como. Carlo si ferma in piazza mentre Anna mi accompagna in questa passeggiata. C’è uno strano mormorio nel gruppo e credo di capire perché. L’arcano mi è definitivamente svelato al rientro dalla camminata. Arrivando a destinazione mi accolgono in tanti. Hanno organizzato una festa in spiaggia, con tanti dolcetti, cannoli e bignè. Spumante, bibite ed acqua (trascurata). Foto ed auguri con tutti. Sono contento visto le prospettive dei giorni scorsi per oggi. Il mio compleanno. Abbiamo percorso 14,3 km dalle 8,30 alle 11,05. Questo pomeriggio si replica con un walk trail di 13 km e stasera a cena fuori.

Domenica 21 febbraio 2016. La libertà a dispetto dell’opportunità. Con queste mie parole ho dato inizio al mio 50° anno. Facciamo, con Anna e Carlo, colazione diretti subito dopo a Siracusa. Pausa caffè in un autogrill, telefonata di Maurizio [Crispi] che mi invita ad iscrivermi al Parkrun, arrivo in città. Visita a chiese, musei, Ortigia. Pranzo arabo, caffè italiano, piazza Duomo ad Ortigia, gelato e rientro all’auto. Inauguriamo una seduta di urban walking per le vie di Siracusa dire. Mi chiama Gemma, mia ex ragazza del secolo scorso con cui sono in contatto, ci vediamo per pochissimi minuti. Presento i miei amici, poche parole e ci salutiamo. Siamo diretti alla spiaggia di Fontane Bianche, delusi dallo stato della spiaggia e dal fresco pungente rientriamo. Ci separiamo per rivederci dopo un paio di ore. Faccio la doccia, mi registro online per partecipare al Parkrun. Stasera ceniamo in pizzeria, ci raggiunge mio padre. Decidiamo cosa vedere domani a Catania, Anna e Carlo hanno un aereo in serata.

Lunedì 22 febbraio 2016. Sveglia spontanea alle 5.00 e caffè. Curioso su Google Maps con in testa sempre il mio giro di Sicilia. Cerco foto e dettagli su ogni singola tappa. Colazione con Anna e Carlo e si parte alla volta di Catania. Lasciamo l’auto in un parcheggio, visitiamo la città rigorosamente a piedi. Il Duomo di Sant’Agata, il vicino mercato del pesce, il mio liceo degli ultimi due anni delle scuole superiori non è lontano. Prenoto per il pranzo. C’è ancora del tempo e girovaghiamo fra via Etnea, fotografando chiese, scorci di città, la villa Bellini, i miei ricordi d’infanzia. Pranzo a base di pesce da Don Turiddu. Carlo è soddisfatto, Anna pure ed io anche. Ma Carlo di più. Camminiamo ancora diretti ad un chiosco dove prendiamo il caffè. Pian piano e stanchi torniamo all’auto. Arriviamo in aeroporto, consegniamo l’auto a noleggio, altro caffè. Qualche minuto di relax, ultime impressioni ed ci salutiamo sperando di non far passare un anno e mezzo prima di rivedersi. Gli occhi sono lucidi, Anna e Carlo si allontanano verso l’imbarco. Io ho già fatto il biglietto dell’autobus. Alle 20,30 sono a casa.

Martedì 23 febbraio 2016.  Mi sveglio credendo di aver sognato in questi ultimi giorni. Faccio le pulizie di primavera a febbraio. Dalle 18,30 alle 20,30 cammino con il mio gruppo per 2 ore. Gli ultimi 4 chilometri sotto la pioggia. Pressione ed umore giù.

Mercoledì 24 febbraio 2016. Mi dedico alle mille faccende lasciate in arretrato. Mi manca Anna e la chiamo. Stasera ho una riunione per ulteriori particolari sulla camminata del 10 aprile. Scrivo della mia WUM 1000KM, Enrico V. e l’azienda per cui lavora sono i miei primi sponsor.

Giovedì 25 febbraio 2016. 18,30/20,15 per 12 km. Giorno di mercato, compro alcune cose da spedire ai miei amici su al Nord.

Venerdì 26 febbraio 2016. Dalle 9.00 alle 11.00 sono con Margherita e la sua amica Gabry per un’altra puntata alla Casa del Commissario.

Sabato 27 febbraio 2016. Voglia di camminare al minimo storico. Diserto l’uscita con il gruppo, resto in casa e non so bene il perché. Stasera consegno i premi per i primi arrivati (uomo e donna) dell’Ecotrail della Val d’Ippari di domani. Non ho l’auto di proprietà, non ne ho la possibilità. Sono stanco di chiedere sempre un passaggio per spostarmi. Camminerò di più, dove vorrò e quando potrò. Incontro Aldo [Siragusa] e gli consegno i premi realizzati. Mi presenta agli intervenuti, parlo dei miei lavori. Saluto e ci rimandiamo a domani per presenziare alla premiazione.

Domenica 28 febbraio 2016. Arrivo alla Villa Comunale e capisco dove andare seguendo la scia delle voci che arrivano dal traguardo. Il forte vento fa cadere un albero su due auto danneggiandole. 
Mio padre mi accompagna incuriosito dal clima di festa che pervade uomini e donne abbigliati in Rainbow Style. Ho il mio primo smarthphone, regalo per i miei primi 50 anni (avrò il secondo telefono fra 50 anni?), scatto tantissime foto (circa 170) pervaso dal delirio del fotoreporter che, sopito, albergava in me. In realtà sono solo contento ed eccitato di questa giornata, come un bambino alle giostre.
Molti hanno delle escoriazioni, alcuni sembrano galleggiare distratti, alcuni sono spaventati tutti sono felici e soddisfatti. Già. Soddisfatti a dispetto del tempo impiegato, delle inevitabili delusioni e della prossima gara che si affaccia non lontana. Vengono onorati tutti i partecipanti, ma vengono premiati solo in pochi, così dev’essere. Ho realizzato due opere montate su tegole (ciaramini a Ragusa, canali a Catania, coppi a Firenze) che consegno personalmente ai due primi arrivati, uno per categoria, uomo e donna. Due ragazzi splendidi e semplici che mi ringraziano sorridendo con lo sguardo ormai rilassato. Lui è ha una barba lunga ed incolta, solo apparentemente, lei è una ragazza minuta ma solida come la roccia vulcanica. Io ringrazio loro. Anche Margherita viene premiata, la mia compagna di camminate da randagio dell’asfalto, con una bottiglia di birra artigianale da 1,5 litri. Credo di essermi pentito di non aver partecipato a questo Ecotrail della Val d’Ippari, non so il perché o forse lo so fin troppo bene. Cosa mi porto dentro alla fine di questa giornata? La mia commozione.

Lunedì 29 febbraio 2016. Testo il GPS della mia astronave (il mio smarthphone) e di Endomondo, desisto dopo alcuni km per le ripetute interruzioni. Procedo secondo esperienza. Dalle 8,45 alle 12,45, ho camminato senza alcuna interruzione fatta eccezione per una pausa, un pipì-stop, e due foto con un amico incontrato per strada che ha condiviso con me 2 ore di questa giornata. Il vento è sostenuto ed il mare risponde colpo su colpo alle sferzate di Eolo.
Ad oggi ho camminato per 5305,7 km in 884,57 ore e per 383 giorni. E domani?

Camminare. I diari di Cammino di Salvatore Sulsenti. Il randagio della strada al giro di boa dei suoi primi 50 anni, e si addensano eventi di buon auspicio
Camminare. I diari di Cammino di Salvatore Sulsenti. Il randagio della strada al giro di boa dei suoi primi 50 anni, e si addensano eventi di buon auspicio
Camminare. I diari di Cammino di Salvatore Sulsenti. Il randagio della strada al giro di boa dei suoi primi 50 anni, e si addensano eventi di buon auspicio
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Presentazione

  • : Ultramaratone, maratone e dintorni
  • : Una pagina web per parlare di podismo agonistico - di lunga durata e non - ma anche di pratica dello sport sostenibile e non competitivo
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  • Ultramaratone, maratone e dintorni
  • Mi chiamo Maurizio Crispi. Sono un runner con oltre 200 tra maratone e ultra: ancora praticante per leisure, non gareggio più. Da giornalista pubblicista, oltre ad alimentare questa pagina collaboro anche con altre testate non solo sportive.
  • Mi chiamo Maurizio Crispi. Sono un runner con oltre 200 tra maratone e ultra: ancora praticante per leisure, non gareggio più. Da giornalista pubblicista, oltre ad alimentare questa pagina collaboro anche con altre testate non solo sportive.



Etnatrail 2013 - si svolgerà il 4 agosto 2013


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Il perchè di questo titolo

DSC04695.jpegPerchè ho dato alla mia pagina questo titolo?

Volevo mettere assieme deio temi diversi eppure affini: prioritariamente le ultramaratone (l'interesse per le quali porta con sè ad un interesse altrettanto grande per imprese di endurance di altro tipo, riguardanti per esempio il nuoto o le camminate prolungate), in secondo luogo le maratone.

Ma poi ho pensato che non si poteva prescindere dal dare altri riferimenti come il podismo su altre distanze, il trail e l'ultratrail, ma anche a tutto ciò che fa da "alone" allo sport agonistico e che lo sostanzia: cioè, ho sentito l'esigenza di dare spazio a tutto ciò che fa parte di un approccio soft alle pratiche sportive di lunga durata, facendoci rientrare anche il camminare lento e la pratica della bici sostenibile. Secondo me, non c'è possibilità di uno sport agonistico che esprima grandi campioni, se non c'è a fare da contorno una pratica delle sue diverse forme diffusa e sostenibile. 

Nei "dintorni" della mia testata c'è dunque un po' di tutto questo: insomma, tutto il resto.

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Come nasce questa pagina?

DSC04709.jpeg_R.jpegL'idea motrice di questo nuovo web site è scaturita da una pagina Facebook che ho creato, con titolo simile ("Ultramaratone, maratone e dintorni"), avviata dall'ottobre 2010, con il proposito di dare spazio e visibilità  ad una serie di materiali sul podismo agonistico e non, ma anche su altri sport, che mi pervenivano dalle fonti più disparate e nello stesso tempo per avere un "contenitore" per i numerosi servizi fotografici che mi capitava di realizzare.

La pagina ha avuto un notevole successo, essendo di accesso libero per tutti: dalla data di creazione ad oggi, sono stati più di 64.000 i contatti e le visite.

L'unico limite di quella pagina era nel fatto che i suoi contenuti non vengono indicizzati su Google e in altri motori di ricerca e che, di conseguenza, non risultava agevole la ricerca degli articoli sinora pubblicati (circa 340 alla data - metà aprile 2011 circa - in cui ho dato vita a Ultrasport Maratone e dintorni).

Ho tuttavia lasciato attiva la pagina FB come contenitore dei link degli articoli pubblicati su questa pagina web e come luogo in cui continuerò ad aprire le gallerie fotografiche relative agli eventi sportivi - non solo podistici - che mi trovo a seguire.

L'idea, in ogni caso, è quella di dare massimo spazio e visibilità non solo ad eventi di sport agonistico ma anche a quelli di sport "sostenibile" e non competitivo...

Il mio curriculum: sport e non solo

 

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Statistiche generali del magazine dalla sua creazione, aggiornate al 14.04.2014

Data di creazione 12/04/2011
Pagine viste : 607 982 (totale)
Visitatori unici 380 449
Giornata record 14/04/2014 (3 098 Pagine viste)
Mese record 09/2011 (32 745 Pagine viste)
Precedente giornata record 22/04/2012 con 2847 pagine viste
Record visitatori unici in un giorno 14/04/2014 (2695 vis. unici)
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Articoli pubblicati 4259


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I collaboratori

Lara arrivo pisa marathon 2012  arrivo attilio siracusa 2012
            Lara La Pera    Attilio Licciardi
 Elena Cifali all'arrivo della Maratona di Ragusa 2013  Eleonora Suizzo alla Supermaratona dell'Etna 2013 (Foto di Maurizio Crispi)
            Elena Cifali   Eleonora Suizzo
   
   
   
   
   
   

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