Paolo Foschi ha scritto diversi polizieschi ambientati nel mondo dello sport e che hanno visto come titolare delle indagini e risolutore il commissario Igor Attila (un pugile, ex-olimpionico, medaglia d’argento a Seul) a cui sono affidati i crimini e le frodi sportive. Ho apprezzato queste storie e le ho trovate ben costruite.
Più recentemente, Paolo Foschi ha deciso di rivolgersi ad una platea più giovane con una serie di romanzi polizieschi che mettono in scena lo “Young Team”, una squadra di ragazzi ancora in età scolastica, ma particolarmente dotati in vari campi, che dopo uno specifico addestramento vengono impiegati per indagare in crimini di cui siamo vittime adolescenti come loro. Uno dei ragazzi é non vedente e si affida al fedelissimo cane Rocco. Al team composto dai quattro intrepidi e geniali ragazzi più il cane si aggiunge anche il figlio piccolo della Direttrice della sezione investigativa cui è stato affidato il compito di dar vita al team, Davide che offre - dall’interno del suo guscio autistico - occasionali spunti geniali e risolutori.
In "La piscina dei misteri" (Risfoglia Editore, 2019), lo Young Team - appena costituito - viene impiegato per risolvere il mistero della scomparsa di Isabella, una giovane nuotatrice agonistica di grandi speranze.
Il romanzo è scritto bene, è divertente ed istruttivo, tra l’altro lodevole perché insegna qualcosa ai più giovani sui pericoli della navigazione in rete e sui siti di chat e di incontri online, dove - senza averne immediata consapevolezza - si può incontrare il lupo cattivo.
(Risguardo di copertina) Isabella è una giovane promessa del nuoto azzurro, per la stampa sportiva è l'erede di Federica Pellegrini. Le sue giornate sono scandite da lunghe ore di studio e allenamenti massacranti al Foro Italico inseguendo il sogno delle Olimpiadi. Alla vigilia dei campionati italiani, però, la giovane nuotatrice scompare senza lasciare alcuna traccia. È stata rapita da qualche malintenzionato o è scappata di casa volontariamente? La vita all'apparenza tranquilla da studentessa modello nasconde forse qualche inconfessabile segreto? Le indagini vengono affidate allo Young Team, quattro giovanissimi e brillanti investigatori e un cane, aiutati nel loro lavoro da un ragazzino taciturno, ma geniale. Parte così una specie di caccia al tesoro fra social network e chat frequentate da adolescenti, mentre un misterioso Grillo Parlante su Facebook dissemina indizi difficili da decifrare che ruotano intorno a un telefonino fantasma. Tra false piste e testimonianze reticenti, proprio quando l'inchiesta sembra incagliata, quasi per caso emerge una realtà sconvolgente: Isabella è finita in un gioco pericoloso più grande di lei. Scatta così una corsa contro il tempo per cercare di salvare la giovane campionessa. Fra colpi di scena e situazioni cariche di tensione, si arriva all'imprevedibile finale. Età di lettura: da 11 anni.
L’autore. Paolo Foschi, nato a Roma nel 1967, è diplomato in educazione fisica. Musicista per passione, ma giornalista per necessità, è redattore al Corriere della Sera, dove si occupa di economia e politica. Ha lavorato all’Unità, al gruppo Espresso e in Mondadori. Per E/O Edizioni ha pubblicato: Delitto alle Olimpiadi (2012), Il castigo di Attila (2012), Il killer delle maratone (2013), Vendetta ai Mondiali (2014) e Omicidio al giro (2015).
( Maurizio Crispi ) Un paio di mesi fa ho scoperto casualmente in libreria il volume con la terza indagine del Commissario Igor Attila ( Paolo Foschi , Il Killer delle Maratone , 2013), l'ho letto ...
(Maurizio Crispi) Il Killer delle Maratone é un giallo scritto da un giornalista italiano, alla sua terza opera che ha come protagonista il commissario di polizia Igor Attila, ex-pugile olimpionico
Seguendo l'ordine di pubblicazione delle indagini del Commissario Igor Attila creato da Paolo Foschi, Vendetta ai Mondiali. Il ritorno del commissario Attila (Edizioni e/o, 2014) contiene la quarta
In Omicidio al Giro (Edizioni e/o, Collana Originals, 2015) si sviluppa la più recente indagine (nell'ordine cronologico della serie) del Commissario Igor Attila, assegnato da sempre alla speciale...
Quella contenuta nell'esile ma denso libricino scritto dal francese Sylvain Coher, dal titolo Vincere a Roma. L'indimenticabile impresa di Abebe Bikila (Vaincre à Rome, nella traduzione di Marco Lapenna), 66thand2nd, 2020, è una narrazione emozionante e paradigmatica che tutti dovrebbero leggere non soltanto gli sportivi e gli appassionati e praticanti di maratona. Sabato 10 settembre 1960 si celebrò, alla chiusura dei Giochi Olimpici di Roma (XVII Olimpiade moderna), la Maratona (che, a parte sporadiche eccezioni riguardante alcuni sport minori) solitamente è la gara che, da sempre, chiude i giochi, poiché dei Giochi Olimpici moderni voluti da De Coubertin è icona e ne incarna l'essenza eroica.
In quella circostanza si assistette ad un'impresa d'eccezione quando uno sconosciuto atleta africano, l'etiope Abebe Bikila, infrangendo tutte le previsioni, vinse quella gara, per di più correndo a piedi scalzi. Nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa simile, che un umile pastore etiope (nelle sue origini) aggiudicasse al suo paese l'ambito oro olimpico, in una corsa che assunse grazie a lui un valore altamente simbolico, collocando Bikila tra i "miti" della maratona moderna e non solo (basti pensare alla figura di Dorando Pietri e, andando ancora più indietro all'emerodromo Fidippide, che morì per annunciare una vittoria, e alla cui impresa venne "inventata" la Maratona moderna).
Il racconto dell'impresa di Abebe è in soggettiva e il lettore s'immerge nel paesaggio della corsa che è, insieme, esterno ed interiore.
Abebe dialoga di continuo con la "Piccola Voce" che è il suo interlocutore interno ma anche con tanti personaggi della sua vita che vanno e vengono, entrando in scena e poi allontanandosi dal suo scenario mentale, per poi rientrarci: la moglie lontana, il suo allenatore che è il suo "piccolo padre", l'imperatore d'Etiopia che lui rappresenta: sì, perché la sua corsa umile che poi diventerà vittoriosa, sarà anche una benevola e non astiosa rivalsa (e, d'altra parte, Abebe fa parte della Guardia Imperiale): vincere a Roma sarà dunque per lui un modo per rendere un servigio alla sua nazione, sconfitta ed umiliata dagli Italiani nel lontano 1936. Ma nei suoi pensieri e nelle sue emozioni c'è anche Dio, al quale spesso si rivolge:
"Abbiamo profili tagliati per fendere l'aria, perchè sospesi nell'aria passiamo due terzi del tempo di una corsa: nella corsa come in cielo aspiriamo alla sospensione. Sospesi in eterno tra il ponte e l'acqua, in quell'intervallo impossibile troveremo il momento di rivolgerci alla misericordia di Dio. E' così." (p.41)
E poi: "Corro per fare guerra alla guerra e Dio si manifesta sempre a quelli che corrono: sentiamo la Sua fronte contro la schiena e Sue mani bollenti sotto le ascelle. E quando c'è lui a trainarci con la Sua mano possente ci accorgiamo di correre molto più veloce: è la prova assoluta della Sua presenza. La forza mentale non è come un'illuminazione, la forza mentale è dappertutto fin nei più piccoli dettagli, afferma la Piccola Voce." (p. 44)
Perché Abebe volle correre a piedi scalzi? Alcuni vollero attribuire a questa sua decisione un valore dimostrativo, come se egli - rinunciando alle scarpette - avesse voluto esprimere il suo orgoglio per le proprie origini di pastore degli altipiani e di tutti gli Etiopi come lui che, di umili origini, camminano e corrono scalzi. In realtà, molto prosaicamente, Abebe ci dice (nei suoi pensieri) che, pochi momenti prima dello start, se le leva perchè ritiene che siano troppo nuove e teme di potersi fare male, pregiudicando la sua corsa. In questa decisione sarà aiutato dall'avere - per via delle sue vicissitudini di vita - una suola callosa sotto i piedi, formatasi negli anni della sua giovinezza.
Il racconto si articola in brevi capitoli che vanno dal momento della partenza (il km zero) e che procedono di cinque chilometri in cinque chilometri, esattamente come fanno i podisti moderni quando vogliono ripercorrere le tappe della propria performance, più quegli ultimi due chilometri e le due centinaia di metri che, furono aggiunti alla distanza originaria in occasione dei Giochi Olimpici di Londra del 1908. In ciascun capitolo vi è il continuo contraltare tra la voce di un cronista lontano che, senza esserci, cerca di seguire l'evento in diretta e darne conto agli ascoltatori e quella silenziosa di Abebe che scorre come un fiume di libere associazioni oscillanti di continuo tra le esigenze di un capillare contatto con la realtà ed una condizione sognante. Tra le due voci, la voce quasi fastidiosa del radiocronista che nulla sembra comprendere e quella narrante (che è rappresentata dallo stesso Abebe, impegnato nella corsa) si percepisce una distanza abissale tra chi il gesto sportivo lo vede solo dall'esterno e da chi lo vive con ogni fibra del suo corpo, con la propria mente pensante e con le proprie emozioni.
L'arrivo di Abebe sotto l'arco di Costantino fu così repentino che gli stessi addetti ai lavori, giudici di gara, giornalisti, fotografi e video-operatori, cronisti non capirono subito che egli fosse arrivato in testa, anche perché- poco di tagliare la linea del traguardo - venne sommerso da un nugolo di fotografi, impazienti di immortalarlo.
Appena al di là del traguardo, Abebe stupì tutto il mondo poiché cominciò subito a fare - come un soldato disciplinato - gli esercizi di allungamento, accompagnati da saltelli vari, lasciando immaginare che avesse ancora dentro di sè una grande riserva di energia a cui poteva dar libro sfogo con tale esuberanza.
Il mondo si commosse ed esultò: non solo era stato battuto il precedente primato olimpico, ma anche - soprattutto - la Maratona da allora non sarebbe più stata la stessa, perché con Bikila come pioniere si sarebbero fatta strada in questa disciplina gli Africani e, in essa, avrebbero stabilito un predominio quasi assoluto.
"...ogni passo è singolo, perché si produce una volta soltanto. Nell'enumerazione di tutti i passi si forma la storia della corsa, il suo sviluppo e la sua conclusione. Corriamo sul margine di un cerchio - senza soluzione di continuità. L'immensità del mondo è una burla smisurata, mantenere l'ordine resta il nostro principale intento: Mille maratone fanno il giro completo del pianeta." (p.77)
Abebe Bikila rimarrà per sempre nella storia, nella storia dello sport, nella storia della corsa di lunga durata e nell'immaginario collettivo, come colui che vinse una maratona correndo a piedi scalzi. Non a caso in un film di qualche anno successivo (il famoso "Il Maratoneta" di Johb Schlesinger, ispirato al romanzo omonimo di William Goldman) nella mente del protagonista (Dustin Hoffmann nel film) ricorrono di continuo, mentre corre, le immagini iconiche di quell'impresa epocale.
(Risguardo di copertina) Roma, sabato 10 settembre 1960, penultimo giorno dei Giochi olimpici e ultimo del calendario etiope. Sulla linea di partenza i corridori si scaldano in attesa del colpo di pistola che sancirà l'inizio della maratona. Tra loro un atleta sconosciuto, serio in volto e taciturno. È scalzo. Il suo nome è Abebe Bikila, caporale della guardia reale del negus. È lì per vincere, e vincerà. Due ore, quindici minuti e sedici secondi di corsa sui sampietrini della via Sacra, l'asfalto rovente della Colombo, il basolato di via Appia, accarezzando a piedi nudi il selciato della Città Eterna come fosse la terra dei suoi altopiani. «Vincere a Roma sarà come vincere mille volte» aveva detto l'imperatore Hailé Selassié, una rivalsa a ventiquattro anni dalla presa di Addis Abeba a opera delle truppe di Mussolini. E così Abebe corre, misura il ritmo delle falcate, risparmia il fiato, ascolta i muscoli che vibrano e mordono il freno in attesa dello sprint finale. Ad accompagnarlo la sagoma sfocata del grande Emil Zátopek e un uomo in carne e ossa, pettorale 185, misterioso contendente con cui percorrerà appaiato più di venticinque chilometri per poi staccarlo nel finale e andare da solo verso il trionfo. Un oro olimpico che incorona non soltanto Abebe ma l'intero continente africano in un'epoca in cui gli imperi coloniali si stanno sfaldando e si alza forte il grido dell'indipendenza. Accordando la sua prosa al passo instancabile del maratoneta, Sylvain Coher s'insinua nella mente di Bikila sotto forma di Piccola Voce e racconta dall'interno una delle imprese più memorabili nella storia dello sport: l'epopea del corridore scalzo, la nascita di una leggenda.
Alcune notizie su Abebe (da wikipedia). Abebe Bikila partecipò altre due volte ai giochi olimpici, a Città del Messico (1964) dove vinse nuovamente l'Oro, migliorando il suo primato e a Tokyo (1968), dove tuttavia non si classificò però al traguardo. Oltre alle partecipazioni olimpiche conquistò l'oro di maratona in numerose competizioni internzionali di prestigio, anche in questo antesignano dei corridori kenioti che si affacciarono alla ribalta internazionale nei decenni successivi.
Nel 1969 Bikila, alla guida della sua auto nei pressi di Addis Abeba, ebbe un incidente, che lo lasciò paralizzato dalla vita in giù. Nonostante le cure e l'interesse internazionale, non riuscì più a camminare. Pur impossibilitato all'uso degli arti inferiori, non perse la forza di continuare a gareggiare: nel tiro con l'arco, nel tennis da tavolo e perfino in una gara di corsa di slitte (in Norvegia). Partecipò inoltre ai Giochi paralimpici di Heidelberg nel 1972 nel tiro con l'arco. Insomma, in questo percorso sfortunato, continuò ad applicare la filosofia del "un passo alla volta", facendo prova di resilienza e di determinazione.
Ma il suo destino era segnato: morì l'anno successivo, il 25 ottobre 1973, i 41 anni non acora compiuti, per un'emorragia cerebrale.
L'autore. Sylvain Coher (1971) vive tra Parigi e Nantes. Dopo gli studi in Lettere moderne, ha lavorato come istruttore di vela, sorvegliante in un convitto, libraio, editore, muratore. Dal 2002 si dedica interamente alla scrittura. Tra le sue opere Carénage (2011), Nord-nord-ouest (2015), che gli è valso numerosi premi, e Trois cantates policières (2015). Durante i giorni trascorsi come borsista residente a Villa Medici tra il 2005 e il 2006 sono nate le prime pagine di Vincere a Roma.
Una “Coppia da Guinness” è un libro sulla corsa? Molto di più! In primo luogo è una grande storia di amore. E anche di amore per la corsa, per essere straordinario il racconto di 53000 km, più della lunghezza dell’equatore, attraverso i cinque continenti.
E' uscito proprio in questi giorni, ordinabile nelle librerie e nei siti online, il volume di memorie podistiche della coppia di runner più attiva nello scenario amatoriale italiano e nel mondo, al traguardo delle mille tra Maratone ed ultra corse in ogni angolo del mondo. Di tutto e di più: una corsa inarrestabile che è stata anche di affetto e di dedizione reciproca. L'autore del libro è Michele Rizzitelli, ma ovviamente egli nel libro da voce alla moglie e compagna di corsa Angela Gargano.
Il volume si intitola "Una coppia da Guinness. Le nostre mille maratone" ed è pubblicato da Albatros (2022).
Ed è lecito pensare che il traguardo delle 1000 maratone corse non sia per loro un punto d'arrivo definitivo, ma soltanto una tappa intermedia e punto di partenza per molte decine ancora - se non centinaia ancora - gare di lungo corso: E quindi ai coniugi corridori l'augurio di correre ancora per altre migliaia di chilometri.
(Dal risguardo di copertina) Una vita frenetica tra attività ospedaliera e libera professione, peraltro creativa e appagante. A trent'anni, la scoperta del podismo. L'incontro con Angela, un amore nella vita e nella corsa. La prima maratona in coppia nel 1994, la seconda soltanto una settimana dopo, in tempi in cui si riteneva fosse inconcepibile correrne più di una all'anno. Non si fermano più. Ne realizzano 100 nel 2002, in totale rottura con i protocolli classici preconfezionati dai guru della corsa di resistenza, e inscritti nel Guinness World Records. E non solo distanze lunghe 42,195 km. Anche 100 km, 202 km, 325 km, gare di 6 giorni, in cui Angela stabilisce la migliore prestazione femminile italiana con 562,330 km, e di 10 giorni, con nuova migliore prestazione femminile italiana di 826 km. Nel 2020 conquistano il fascinoso traguardo di 1000 maratone. Nessuna coppia al mondo come loro! Non è usuale che corrano lui e lei, conservino la forma atletica per così lungo tempo, rimanendo una coppia solida. Una coppia da Guinness è un libro sulla corsa? Molto di più! In primo luogo è una grande storia d'amore. E anche di amore per la corsa, per essere straordinario il racconto di 53.000 km, più della lunghezza dell'equatore, attraverso i cinque continenti. Incalzante è il susseguirsi di grandi metropoli e piccoli borghi visitati, di corse sugli argini di fiumi, sul periplo dei laghi e sulla Grande Muraglia cinese. Memorabili sono le descrizioni delle galoppate nei deserti, delle arrampicate sulle Tre Cime di Lavaredo e sul tetto del mondo, l'Himalaya. Da Berlino raggiungono le rive dell'isola di Usedom, nel Mar Baltico, congiunta alla terraferma da un ponte girevole. Si spingono fino al Circolo Polare Artico nella Maratona del sole a Mezzanotte. Una vita di corsa! E anche di fatica e dolori: un traguardo lo si conquista con il sudore della fronte e una volontà di ferro. Si riposeranno per il resto della loro vita? Il lupo perde il pelo, non il vizio.
L'articolo è comparso nella rivista di running "Correre"
Magnifici perdenti (titolo originale:"We Begin Our Ascent", nella traduzione di Daniela Guglielmino), pubblicato nella collana Varianti da Bollati Boringhieri nel 2019 è l'opera prima di Joe Mungo Reed, un giovane autore britannico,che ha già firmato dei racconti comparsi in antologie diverse.
Il titolo italiano è fuorviante, per quanto ovviamente contenga un richiamo abbastanza esplicito al testo: accoppiato all'immagine di copertina evoca immediatamente di cosa possa trattare la storia.
Il titolo "magnifici perdenti" tuttavia riporta al noto romanzo di Leonard Cohen "Beautiful Losers" che fu tradotto in italiano a suo tempo con il titolo "Belli e perdenti", senza che le due storie abbiano alcuna attinenza.
Magnifici perdenti é una storia di sport e di amore. Il protagonista, Sol, che fa parte come gregario di una squadra di ciclisti che partecipa al Tour de France, accetta assieme ad altri la proposta del loro team leader di iniziare delle procedure di doping.
Ed è interessante la metafora che usa Raphael, mentore, allenatore, responsabile organizzativo della squadra, per convincerli ad accettare la via della frode sportiva.
Tappa dopo tappa il Giro si svolge con alti e bassi e nel frattempo Sol riflette in silenzio e ricorda a sprazzi momenti della sua vita "ordinaria": la sua carriera ciclistica, il suo fidanzamento, il matrimonio con Liz, la nascita di un bimbo, Barry.
E intanto, inconsapevolmente, la squadra precipita in un baratro di eventi incontrollabili ed imprevedibili.
E' una sorta di nemesi per aver troppo tentato.
Il libro, molto ben scritto, offre anche una riflessione su quanto possano essere diventate "normalizzate" le pratiche del doping.
Se lo fanno tutti - è il ragionamento seduttivo di Raphael, cattivo maestro - perché non rimettersi in pari con gli altri, consentendo a se stessi la possibilità di fare emergere le proprie doti naturali che risultano offuscati dal fatto che siano altri a doparsi?
Una storia tragica che si conclude con un disfacimento della squadra e con una amara disfatta morale.
L'autore illustra molto bene - e fa capire come funzioni veramente - il ciclismo di alto livello e il gioco di squadra fatto unicamente per "proteggere" e per portare avanti i candidati alla vittoria, mentre i gregari sono soltanto pedine sacrificabili in un mondo chiuso che non ammette - se non di rado - intrusioni dall'esterno.
Ma tutto ciò è soltanto una finta realtà, le vere salite si devono affrontare nella vita, ma per questo tutto l'allenamento e i trucchi possibili, le strategie e le tattiche, non sono sufficienti. Ci vuole tutt'altra grinta per poter essere campioni nella vita, dove le salite si affrontano da soli, senza nessuna copertura.
(dal risguardo di copertina) Sol e Liz sono sposati, e innamorati. Sol è innamorato di Liz, e Liz di Sol, ma Sol è anche innamorato della sua professione di ciclista, e Liz del proprio lavoro di genetista. Sol, il cui motto è «Per noi la vita è ciclismo, il ciclismo la vita», corre al Tour de France come gregario di Fabrice, non per vincere, ma per far vincere la squadra. Liz definisce lo scopo del proprio lavoro «Capire a cosa serve un gene in un pesce», e capisce bene anche Sol perché è interessata alle dinamiche di gruppo, molto simili alle leggi biologiche. Entrambi comprendono il senso del loro successo anonimo a beneficio di altri, e si sostengono a vicenda, ma devono difendersi dal contesto che li circonda: per Katherine, la madre di Liz, e per Rafael, il direttore sportivo, se non si vince si fallisce.
Seguiamo i ciclisti nella routine giornaliera, spesso comica, e nelle situazioni agonistiche, spesso difficili, nel bene e nel male, fino al traguardo finale, catartico. Le difficoltà e le divergenze cominciano quando il cinico Rafael invita a mezza voce Sol e gli altri corridori e ricorrere a qualche trucchetto di «innocuo» doping. Sol vorrebbe rifiutare, ma Liz, sempre pronta ad agire con entusiasmo e dedizione, decide che la proposta va accettata. Non solo, si offre come «corriere» dietro lauto compenso, seguendo la corsa in automobile e trasportando le sostanze vietate, coperta dalla presenza del piccolissimo Barry, figlio suo e di Sol.
Naturalmente dove ci sono anabolizzanti e sacche di sangue per trasfusioni, ci sono anche guai, e infatti il dramma non manca. Ma Reed riesce a equilibrare il tono della scrittura in modo da alleggerirne i risvolti tragici, concentrandosi sul suo scopo ultimo, quello di raccontare una corsa in salita per raggiungere una meta che non è la vittoria. E la metafora corre insieme ai ciclisti e all’automobile di Liz per tutta la narrazione, senza mai incepparla, senza che il lettore quasi se ne accorga.
Di "We begin Our Ascent", hanno detto «Una breve, essenziale delizia di romanzo... leggendo, si continua a girare compulsivamente pagina, anche quando non succede niente di particolare, anche quando si tratta solo di un’altra giornata sulle colline del Tour de France» (The New York Times) «Per il ritmo e il tono, la prosa di Reed ricorda quella di Don DeLillo. Accanto alle idee e ai dialoghi umoristici, c’è vera suspense, e un dramma umanissimo» (Kirkus Reviews)
«Meditativo, e insieme eccitante come un thriller» (Vanity Fair)
L'Autore. Joe Mungo Reed è nato a Londra e cresciuto nel Gloucestershire. Ha un Master in filosofia e politica della University of Edinburgh e un Master of Fine Arts in scrittura creativa della Syracuse University, dove ha vinto il Joyce Carol Oates Award in Fiction. Magnifici perdenti è il suo primo romanzo, e i suoi racconti sono apparsi su «Gigantic» e nell’antologia «Best of Gigantic». Vive a Edinburgo, UK.
Franco Michieli, nel suo L'estasi della corsa selvaggia. Piccoli voli a corpo libero dalla terra al sogno, pubblicato nel 2017 daEdiciclo (Collana Piccola Filosofia di Viaggio), ci racconta della sua passione per per la "corsa selvaggia" e del suo specialissimo modo di interpretare la pratica della corsa in natura.
L'autore, prima di diventare un cultore del trekking di alto livello (nell'ambito della quale disciplina ha siglato alcune grandi imprese), ma anche delle lunghissime camminate a piedi in totale autonomia, ha praticato in gioventù la corsa competitiva, misurandosi - se ricordo bene - nella distanza dei 1500 metri. Poi, ha lasciato l'agonismo, ma non ha dimenticato la pratica della corsa che ha voluto sviluppare a misura delle sue esigenze e dei suoi ideali. Proprio durante la naja, alla ricerca di stimoli che lo facessero sentire vivo e vitale e che gli procurassero soprattutto empiti di libertà, riesumò la pratica della corsa adolescenziale. Ma in una sua speciale versione, di cui riassumo qui alcune caratteristiche: 1. si trattava di corse in totale libertà, in solitudine, con lo scopo di raggiungere nel più breve tempo possibile (ma senza lo stress della gara e della competizione con altri) colli, alpeggi, cime montuose. 2. Le sue corse erano "a tempo" e quindi senza l'occasionale oziosità delle camminate outdoor in montagna: per tutto il servizio militare erano limitate dal tempo della libera uscita, una cui parte doveva essere impiegata per raggiungere in auto il punto di inizio della corsa nella location prescelta. Ma in ogni caso, benché un occhio all'orologio fosse necessario (soprattutto al tempo dei quelle sue prime esperienze) o possa comunque tornare utile, per mantenere un certo orientamento temporale, la corsa selvaggia esclude rigorosamente l'uso del cronometro. L'obiettivo non è siglare dei record, ma dimostrare - soprattutto a se stessi - che compiere una certa impresa è possibile. 3. Solo in seguito, una volta finito il servizio militare i suoi obiettivi poterono farsi ancora più ambiziosi, non avendo più la spada di Damocle del limite di tempo puntata addosso. 4. Pur andando in montagna, l'attrezzatura di Michieli era ridotta al minimo: totale libertà dunque. 5.Totale rifiuto della tipologia della Corsa in Montagna e dello Sky Running e delle loro estremizzazioni atturali, ma soprattutto delle imprese cronometriche. Quella di Michieli si configurò subito, così egli descrive in questo piccolo e affascinante libro, come una corsa fuori da qualsiasi schema conosciuto, certamente non omologabile: ma egli precisa che non vuole imporre il suo Verbo a nessuno. Gli preme soltanto sottolineare che questo è il suo personale modo di intendere la corsa in natura. Una corsa che lui stesso ha definito "selvaggia" e tale da suscitare, per via di questa sua particolarissima configurazione, una condizione "estatica"della mente. Successivamente Michieli ha avviato un'intenso attività di Trekking che ha raccontato in altri libri, ma - nel corso del tempo - ha mantenuto e affinato la pratica della corsa selvaggia.Questo scritto di Michieli si legge con molto interesse, sia perché si presenta in forma di diario molto personale, ma soprattutto perché - considerando il fanatismo che avviluppa il mondo della corsa in natura (sia da parte dei top runner sia da parte dell'esercito degli "amatori" - propone in fondo quello che è un sano antidoto ad ogni forma agonismo "malato" e "coatto": qui, infatti l'unico confronto è con se stesso e con il desiderio di raggiungere dei propri personali traguardi, vivendo al tempo stesso un vivificante rapporto con la natura.
(Quarta di copertina) La collana «Piccola filosofia di viaggio» ha invitato Franco Michieli, geografo ed esploratore, corridore in incognito, a raccontare la corsa selvaggia in natura: una pratica istintiva e poetica lontana da cronometri e competi/ione.
Un'esperienza liberatrice, in empatia con animali e montagne, in cui il tempo pare dilatarsi e la distanza ridursi. L'estasi dell'immaginazione.
L'Autore. Franco Michieli classe 1962, geografo, residente nelle Alpi, scrittore e originale esploratore, è esperto nel campo delle lunghe traversate selvagge. Da ragazzo ha praticato l’atletica leggera, recuperata in forma nuova quando, costretto in caserma dal servizio militare, la corsa gli permise di salire e scendere decine di vette della Valle d’Aosta nelle brevi libere uscite serali. Da allora la corsa selvaggia fa parte della sua vita. Fra i suoi libri, “La vocazione di perdersi” (Ediciclo 2015), finalista al Premio Alvaro, ma anche il recente "Andare per silenzi", edito da Mondadori nel 2018
La meritevole ed interessante collana "Piccola filosofia di viaggio" (Ediciclo) ha invitato Franco Michieli, geografo ed esploratore, giornalista-scrittore e camminatore, oltre che Guida di Cammini
Franco Michieli. 1,659 likes · 26 talking about this. Pagina ufficiale di Franco Michieli esploratore, scrittore e giornalista. Appuntamenti e pubblicazioni
Seguendo l'ordine di pubblicazione delle indagini del Commissario Igor Attila creato da Paolo Foschi, Vendetta ai Mondiali. Il ritorno del commissario Attila (Edizioni e/o, 2014) contiene la quarta delle indagini del Commissario Attila, preceduta da Il Killer delle Maratone e da Omicidio al Giro.
Qui il Commissario, ex pugile olimpico che per un "complotto", teso a favorire il campione locale, ha perso la medaglio d'oro ai giochi olimpici di Seoul, è alle prese con un killer bombarolo che uccide calciatori e personaggi legati al calcio di levatura nazionale, mentre si approssima la data dei prossimi campionati del mondo.
Il primo a lasciarci le penne è il portiere della squadra.
Si instaura un regime di terrore e Igor Attila, con le sue irruenze e con le sue intemperanze va avanti nell'inchiesta, incurante se nel sue procedere pesta i calli di personaggi altolocati.
E' reduce da un grave incidente in moto che lo ha lasciato senza una gamba ed è nella fase di recupero, alle prese con una protesi tecnologica che gli dovrebbe consentire di gareggiare nelle discipline di corsa veloce in pista.
La sua caparbia indagine procede, intrecciata con sviste ed errori che riguardavano la sua vita privata, sino alla soluzione del caso e ad un imprevisto punto di svolta.
Giusto per dare una chiave di riflessione, ma senza dare alcuna rivelazione sul finale, si può parafrasare il famoso romanzo di P. K. Dick e chiedersi: Ma di cosa sognano i commissari di polizia quando sognano?
Questi i romanzi con le indagini di Igor Attila, con l'anno di pubblicazione:
Delitto alle Olimpiadi. Un'indagine del commissario Attila (2012)
Il Castigo di Attila
Il Killer delle Maratone. La terza inchiesta del Commissario Attila (2013)
Vendetta ai Mondiali. Il ritorno del Commissario Attila (2014)
Omicidio al Giro (2015)
La pattinatrice sul mare (2018, Perrone)
Vendetta ai Mondiali contiene in appendice il racconto inedito "Amore in ostaggio".
(Dal risguardo di copertina) Vendetta o terrorismo? Alla vigilia dei Mondiali di calcio in Brasile, un attentato sconvolge la nazionale e l'intero Paese: un'autobomba uccide il centravanti e capitano degli azzurri in una villa a pochi chilometri dal rinomato Centro federale di Coverciano. Il commissario Igor Attila, ex pugile professionista ancora in convalescenza dopo un drammatico incidente in moto, viene richiamato in tutta fretta alla guida della Squadra, la strampalata ma efficiente Sezione crimini sportivi della polizia, per fare luce sull'omicidio. Le indagini mettono subito in risalto il torbido legame fra la vittima e un ricco industriale dell'acciaio, sponsor della nazionale stessa, accusato di disastro ambientale. Il commissario Attila, alle prese con la tormentata storia d'amore con Titta e divorato dal rimpianto per i mancati successi sportivi sul ring, si ritrova coinvolto tra l'altro in un'inchiesta non autorizzata su un misterioso caso di doping, con imprevisti risvolti sentimentali. E intanto il killer non si ferma: anche il portiere azzurro viene ucciso con un'autobomba...
L'Autore. Paolo Foschi, nato a Roma nel 1967, è diplomato in educazione fisica. Musicista per passione, ma giornalista per necessità, è redattore al Corriere della Sera, dove si occupa di economia e politica. Ha lavorato all’Unità, al gruppo Espresso e in Mondadori.
Per E/O Edizioni ha pubblicato: Delitto alle Olimpiadi (2012), Il castigo di Attila (2012), Il killer delle maratone (2013), Vendetta ai Mondiali (2014) e Omicidio al giro (2015). Più recentemente (2018), per Perrone è uscita la sesta avventura di Igor Attila, con il titolo "La Pattinatrice sul mare".
«Finché il corpo me lo consentirà, io correrò. D'altronde gli animali fanno così, corrono fino all'ultimo respiro. Ogni gara è come una nuova vita che vivo. Tutte le volte che si riparte da capo, si scoprono gli avversari, ci si riscopre dentro, e si riscopre anche ciò che si ha attorno. Il deserto, "il più bello e il più triste paesaggio al mondo", non è mai uguale a se stesso. E sono sicuro che qualche altro deserto, qualche altro grande vuoto, ancora mi sta aspettando»
Marco Olmo (IV di copertina)
Dopo "Il Corridore" in cui Marco Olmo ha raccontato, guidato dalle domande di Gaia De Pascale (Il Corridore, Ponte alle Grazie, 2012) la sua vita di uomo e di runner, è arrivato nelle librerie un suo nuovo racconto, ma da una differente angolazione. Si tratta di "Correre nel grande vuoto" (Ponte alle Grazie, 2018).
Mentre nel primo libro, il filo rosso era la storia della suo correre come riscatto qui invece, la traccia che conduce il lettore è la passione di Marco Olmo per il "grande vuoto" dei deserti. E si tratta di una passione che egli ha iniziato a seguire molto prima di intraprendere la sua carriera di corridore di lunghe distanze. Si potrebbe dire, infatti, che egli sia diventato il corridore dei deserti forse più celebrato e più amato da tutti gli Italiani appassionati di trail running proprio perché - ancora prima - era nato in lui il "mal del deserto".
In questo piccolo testo, Marco Olmo racconta le principali tappe che lo hanno condotto a partecipare alla sua prima volta alla Marathon des Sables e a 22 sue successive partecipazioni consecutive (con ben tre vittorie nel suo palmarés) e a svariati altri appuntamenti con gare di resistenza - a tappe oppure in un'unica soluzione - nei deserti di un po' in tutto il mondo.
Nel momento in cui scrive - e forse è stata questa la molla che lo ha spinto ad intraprendere il suo racconto - Marco Olmo per la prima volta dopo 22 anni non era stato allo start della Marathon des Sables. Una scelta saggia. e anche uno forte come Marco Olmo che - tra l'altro - ha sviluppato la sua vita di ultrarunner dopo i 50 anni - ha dovuto arrendersi alla necessità di modulare differentemente le sue scelte, senza però rinunciare in ogni caso ad indossare il pettorale in competizioni differenti, alcune delle quelle pur sempre nei deserti che gli stanno nel cuore, utilizzando intanto il suo tempo anche per trasmettere ad altri le sue straordinarie esperienze.
(Soglie del testo) Una storia che prende vita nel luogo essenziale: il deserto. Solitudine, fatica, bellezza e immensità hanno lo stesso ritmo di chi lo attraversa correndo.
Quello di Marco Olmo per il deserto è un amore che nasce più di vent'anni fa quando il corridore piemontese, all'epoca neppure cinquantenne, si è appena affacciato all'universo delle ultramaratone. È il 1996, infatti, quando Marco Olmo riceve la proposta di partecipare alla Marathon des Sables, nel deserto del Sahara. Marco ha già visto il deserto, ma come un turista, dal finestrino di un'auto e con l'aria condizionata accesa. Ora invece ha l'opportunità di stare là fuori, a correre come già corre fra le montagne di Robilante, il paesino dove vive. Quella Marathon des Sables è un successo, nella classifica generale si posiziona terzo, facendosi notare dal pubblico e dalla stampa internazionale, e il deserto gli entra dentro, cambiando il suo modo di correre. È da quel momento, infatti, che la sua specialità diventa la lunga distanza, da affrontare prima di tutto con una qualità che diventerà la sua cifra: la resistenza. In questo libro, Marco Olmo ripercorre oltre due decenni di gare nei deserti di tutto il mondo: da quello libico al deserto della Giordania, dalla terribile Valle della Morte in California fino alle zone desertiche dell'Islanda, passando per il deserto di sale della Bolivia, il Sinai e molti altri. Non si possono lasciare tracce nel deserto, Marco lo ha imparato in questi anni: una sola raffica di vento è sufficiente a farle scomparire dalla sabbia. Eppure ogni deserto ha lasciato in lui una traccia incancellabile, alimentando quell'amore di cui sono impregnate le pagine di questo racconto.
Hanno detto:
«Un mito per gli appassionati dell'impossibile» (Corriere della Sera)
«Marco Olmo è una leggenda vivente della corsa estrema» (La Gazzetta dello Sport)
L'Autore. Atleta italiano vincitore di numerosi ultratrail, è considerato, nonostante abbia superato i 60 anni, uno dei più grandi specialisti delle corse estreme. È tesserato nel ASD Roata Chiusani. A 58 anni è statoCampione del Mondo vincendo l'Ultra Trail du Mont Blanc, la gara di resistenza più importante e dura al mondo: 167 km attraverso Francia, Italia e Svizzera oltre 21 ore di corsa ininterrotta attorno al massiccio più alto d'Europa. Nel 2009, in occasione del Campionato del Mondo IAU individuale di UltraTrail a Serre Chevalier, ha ottenuto un 14º posto in classifica generale e il 1º nella categoria veterani.
Con Mondadori ha pubblicato Il miglior tempo (2016, con Andrea Ligabue), mentre è di Ponte alle Grazie Il corridore. Storia di una vita riscattata dallo sport (2012 e ss.).
Dopo l'imperdibile, "Corro perché mia mamma mi picchia", il duo di amici runner (uno, Giovanni Storti è il noto uomo di spettacolo; l'altro Franz Rossi è direttore di un magazine molto seguito dagli appassionati del running amatoriale ed è lui stesso runner di vecchia data), è arrivato in libreria alla fine del 2018 Niente panico, si continua a correre, per i tipi di Arnoldo Mondadori Editore (Collana Strade Blu): si tratta di un libro spassoso su come è correre "dieci anni dopo" o "vent'anni dopo" e su come occorra modulare la passione del running man mano che le forze scemano e non è più possibile realizzare le imprese di prima, il tutto raccontato con una grandissima ironia attraverso una serie di episodi, in cui considerazioni varie ed esperienze personali si intersecano con la narrazione di storie che riguardano il mondo della corsa, oppure con la presentazione di fantasiosi ed improbabili personaggi che hanno cercato di introdurre variazioni nell'arte del running e dell'allenamento finalizzato alla corsa, intermezzi che sono dei veri e propri sketch comici.
Capitolo dopo capitolo si ritrova il gusto infinito della narrazione di storie di corsa, sia che riguardino gli Autori in prima persona, sia che riguardino altri: il libro è interamente scritto a quattro mani e gli autori, come viene sottolineato in premessa (come del resto era stato fatto nel precedente volume) hanno optato per non firmare i singoli capitoli (anche quelli in cui l'oggetto del racconto è un'"impresa" di corsa vissuta solo da uno dei due.
La lezione che se ne trae è che passata una certa età si può e- e si deve - a continuare a correre, a trarre piacere da quest'attività, ma soprattutto divertendosi e imparando a fare anche altro. E, infatti, a differenza che nel precedente volume in cui i due autori si soffermavano a raccontare (sempre con uno stile semiserio e con una buona dose d'ironia) imprese podistiche compiute indossando il pettorale, qui vi sono anche resoconti di tour in bici, di passeggiate, di piccoli o grandi trekking.
Insomma, gli autori vogliono dire che all'avanzare dell'età, si può sempre reagire, trovando di volta in volta la ricetta migliore per evitare di stressarsi troppo, continuando nello stesso tempo a divertirsi, con la sensazione di essere sempre performativi.
Questo approccio ironico allo story telling podistico è di fondamentale importanza e fa da contraltare - come un sano antidoto - all'esaltazione di quei runner che continuano a darci sotto, in modi non realistici, malgrado lo scorrere del tempo, ricorrendo a pietose menzogne per giustificare il proprio calo prestativo oppure facendosi male, alla lunga. Aggiungerei anche che la preziosa lezione che viene portata avanti è quella che chi corre senza ironia, prendendosi troppo sul serio, è perduto: e, soprattutto, non riuscirà a riciclarsi verso nuove forme sostenibili di running. Insomma, dicendolo molto sinteticamente, bisogna farsi fautori della celebre frase manzoniana: "Adelante, Pedro, ma con juicio". L'unico difetto che io ho trovato nel volume è che le narrazioni riguardano partecipazioni ad eventi che sono troppo lontani dalle possibilità dei runner qualunque, quelli che non sono celebri, che non sono uomini di spettacolo e che non sono in alcun modo sponsorizzati. A mio avviso, il narcisismo dell'eccezionalità delle imprese configge in qualche misura con il tipo di messaggio che i due autori vogliono veicolare. Questo tipo di scarto rischia di ottenere l'effetto pedagogico opposto, accentuando in alcuni lettori il senso di frustrazione. Il volume è introdotto da una prefazione di Giovanni Porretti.
(Dal risguardo di copertina) Quello che si impara percorrendo di corsa chilometri lungo strade e sentieri è un vero e proprio stile di vita, in grado di migliorare la qualità della nostra esistenza.
Nella prefazione a questo libro, Giacomo Poretti sostiene che ai tempi dei nostri antenati si sapeva già molto del nostro degrado fisico e mentale. Gli australopitechi « intorno ai 20 anni facevano le gare con i giaguari, e spesso li battevano, arrivati ai 40 dopo 200 metri di corsa si fermavano per una birretta, a 60 anni, se ci arrivavi, ringraziavi il dio del sole e al massimo giocavi a scopone, te ne stavi rintanato nella tua bella grotta perché se per caso incontravi un giaguaro non riuscivi a fare 3 passi di corsa e finivi sbranato. L'uomo primitivo era ignorante e tirava su con il naso, ma era saggio, sapeva come godersi l'ultimo tratto di vita senza traumi e pericoli.» Oggi invece pare che questa consapevolezza sia andata persa. Si gareggia per il primato personale, per battere gli amici, per migliorarsi ad ogni costo. Si gareggia contro il tempo, ma sfidare il tempo che passa ha davvero senso? È una sfida persa in partenza per Giovanni Storti e Franz Rossi, la coppia di corridori scrittori che abbiamo imparato ad apprezzare con Corro perché mia mamma mi picchia . Gli anni passano per tutti: c'è chi se ne accorge vedendo il figlio cresciuto o i capelli incanutiti, e c'è chi li misura osservando i chilometri percorsi o la velocità raggiunta in gara. Ma la verità è che l'età non è nemica della corsa, basta saperla prendere con saggezza ed equilibrio. In un libro ricco di aneddoti personali e di avventure in giro per il mondo, Giovanni e Franz ci dimostrano che anche se il corpo invecchia non si può dire altrettanto dello spirito. Quello che si impara percorrendo di corsa chilometri lungo strade e sentieri è un vero e proprio stile di vita, in grado di migliorare la qualità della nostra esistenza. Dalla vetta del Kilimangiaro alla Grande Muraglia cinese, dalle corsette sotto casa alle maratone nel deserto, continua il viaggio di questi «assaggiatori di corse», come ebbero modo di definirsi, con un obiettivo preciso, dimostrare come spesso la ricerca del proprio record personale può avere come effetto collaterale la felicità. Un libro imperdibile per chi corre e per quelli che non capiscono perché, pur passati i sessanta, si continui a correre. «E poi,» ricorda Giovanni «se ho iniziato a correre io a cinquant'anni, possono farlo tutti!»
Gli Autori Franz Rossi è un girovago. Nato a Venezia, cresciuto a Trieste, ha girato a lungo l’Italia fino a quando ha trovato un equilibrio dinamico a metà tra Milano (da dove dirige una software house) e un paesino della Val d’Aosta (dove si rifugia nella natura). Essendo fondamentalmente un pigro, cerca di sfruttare ogni occasione per vivere le sue passioni: così viaggia per correre e conoscere persone nuove. E viaggiando colleziona storie da raccontare. Tra i suoi libri ricordiamo Corro perché mia mamma mi picchia (Mondadori 2013, con Giacomo Storti), Una seducente sospensione del buon senso. Viaggio alla scoperta di ciò che devi lasciare (Mondadori, 2016).
Giovanni Storti (Milano, 20 febbraio 1957) è un comico, attore, sceneggiatore, scrittore e regista italiano parte del noto trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo.
La parte più importante della sua carriera di attore è prima in coppia con Aldo (dal 1982) e poi, dal 1991, anche con Giacomo. Ha lavorato in Sardegna (nel 1985 continuando per qualche anno a seguire) presso il Palmasera Village Resort di Cala Gonone insieme a Marina Massironi, Aldo e Giacomo. All'epoca, con Aldo, formava un duo chiamato La Carovana.
Quello stesso gruppo vedeva giovanissimi anche Stefano Belisari (Elio e le Storie Tese) come d.j., Giorgio Porcaro, Mario Zucca, Marino Guidi, Eraldo Moretto e altri.
Oltre questo, si registra l'attività di insegnamento di acrobazia teatrale presso la Civica Scuola d'Arte Drammatica di Milano e la cura dei movimenti dello spettacolo Pugacev di Franco Branciaroli. Nel 1989 fu regista dello spettacolo Non parole ma oggetti contundenti scritto da Giacomo. Come si può dedurre dai film del trio, Giovanni è un grande tifoso interista. È inoltre l'unico componente del trio che vive a Milano, precisamente nella zona di via Paolo Sarpi. È un maratoneta e ha partecipato a diverse competizioni, tra cui una nel deserto del Sahara. Pratica il Tai Chi presso la scuola Chang di Milano.
(Maurizio Crispi) Al giorno d'oggi - basta fare una piccola rassegna dei libri usciti in quest'ultimo arco di tempo per rendersi conto di ciò - tutti coloro che corrono o che hanno fatto esperienze
E' uscito proprio in questi giorni in libreria un volume firmato da Giovanni Storti e da Franz Rossi, dal titolo Corro perché la mamma mi picchia (Mondadori, 2013), in cui si racconta della passione
Sara Dossena, subito dopo la sua straordinaria perfomance alla New Yoirk City Marathon del 2017, per sua natura e vocazione anche molto "social" e comunicativa con un suo pubblico di fan, ha pensato di mettere mano alla pena e di raccontare la sua travolgente esperienza. E' nato così questo volume, con la partecipazione nella realizzazione dell'opera di Maurizio Brassini e di Francesca Granà): Io Fenice. Il libro di Sara Dossena dall'Atletica al Thriathlon alla Maratona, Fenice SAS Edizioni, 2017 (con prefazioni di Orlando Pizzolato e Linus).
Sara Dossena vi racconta della sua esperienza di esordiente nella disciplina della Maratona, che la vide sesta classificata ad appena un soffio dalla quinta donna e del percorso lungo e tormentato (per via di numerosi infortuni) che l'ha portata a passare dall'Atletica al Triathlon per poi tornare all'Atletica con l'ambizioso progetto di correre una maratona, ma sostanzialmente in queste pagine racconta tutta se stessa. L'asse portante della narrazione è, ovviamente, la Maratona di New York dai giorni di vigilia alle diverse fasi della gara: dentro il racconto, tuttavia, con una serie di flashback e diversioni, vi è tutta la sua storia, la sua passione per lo sport, i suoi esordi in atletica, i suoi infortuni, la sua volontà di ripresa.
Quindi, mentre osserviamo Sara Dossena percorrere i fatidici 42,195 km della più celebrata maratona del mondo (e nel farlo occorre anche avere presente le immagini della sua performance divulgate nel web), impariamo a conoscerla meglio con le sue doti, le sue qualità, ma anche con le sue ossessioni e con le sue paure.
Il bello della narrazione è anche che il suo filo rosso si dipana per mezzo di due vertici d'osservazione differenti: quello soggettivo di Sara e quello più oggettivo (più esterno, si potrebbe dire) di Maurizio Brassini suo personal coach e, per un periodo precedente, anche suo compagno di vita.
Il volume acquisisce per questo e per via dell'arricchimento dato dalla prefazioni di Orlando Pizzolato e di Linus, oltre che della postfazione di Alessia De Gillio, una struttura davvero corale e polifonica.
In ultimo, non manca una piccola scelta di commenti raccolti attraverso i social, dal momento che Sara Dossena è un personaggio dello sport molto attivo nel web (ha anche una sua pagina web) e che la sua impresa ha colpito e commosso tantissimi dei suoi follower, sia del mondo della corsa sia di quello del Triathlon, che sono stati entusiasti del vederla correre alla testa delle donne per una buona metà della distanza ed uscire persino per prima dal fatidico passaggio per il Queensborough Bridge.
Per completezza, il volume si chiude con il racconto degli allenamenti che Sara ha seguito nelle ultime dodici settimane prima del fatidico appuntamento. Quello seguito da lei è un allenamento non convenzionale, basato sul principio del Cross Training e, dunque, fatto di una commistione di session di nuoto e bici (prevalentemente MTB), oltre che naturalmente di corsa. Sara applica in questo modo la lezione appresa con la pratica del Triathlon ed anche un rimedio rispetto alla sua tendenza ad infortunarsi, applicando carichi di lavoro troppo specifici. Anche per questo Sara Dossena è un personaggio del tutto sui generis che ha dovuto fare tutto da sè e con il prezioso aiuto di tutti coloro che hanno creduto in lei.
Il suo sogno è stato coronato dal successo (anche se il crono che ha realizzato è stato inferiore alle sue attese, tuttavia, il suo piazzamento è stato eccellente con un negative split significativo) e grazie alla sua performance è entrato a pieno diritto nel mondo della corsa professional.
Sara Dossena non ha partecipato alla Maratona di New York 2018, per via di un infortunio, ma già sono stati programmati per lei importanti appuntamenti di maratona nel 2019 e nel 2020. Sara Dossena è instancabile, non si abbatte ed è sempre pronta a ricominciare, risorgendo sempre dalle proprie ceneri (dovute ad infortuni vari), proprio come la Fenice del mito.
(dalla quarta di copertina) Perché ho deciso di scrivere un libro se non ho (ancora) vinto nessuna medaglia né ai Mondiali né alle Olimpiadi?
Ho deciso di scrivere queste pagine per capire meglio me stessa. E per rispondere ai tanti che mi chiedono sui miei infortuni, sui miei numerosi stop e sulle mie altrettante ripartenze.
La mia non è una ricetta magica e universalmente valida, funziona bene a malapena per me stessa. Prendetelo piuttosto come uno spunto di riflessione, perché il vero messaggio del libro é quello di non arrendersi mai. O, almeno, di essere i primi a credere nella nostra rinascita.
Quello che avete tra le mai è il racconto delle mie paure e delle mie scelte di vita. Delle mie cadute e delle mie risalite. Delle mie ambizioni e dei miei sacrifici. Quello che avete tra le mani è il racconto delle mie esperienze. Di più: della mia esperienza alla maratona di New York, come paradigma della mia crescita sportiva e personale.
Quella che leggerete è la storia di una persona normale che ha realizzato i propri sogni. E, credetemi, tra i sogni non esistono gerarchie.
«È il momento di avere pazienza e di non fare errori. È il momento di cercare la nostra corsa perfetta, quella che abbiamo costruito giorno per giorno, espressione del nostro personale equilibrio tra sforzo e durata, tra velocità e resistenza. Se ci siamo allenati con la testa, oltre che con le gambe, ormai la conosciamo bene, è diventata una vecchia amica. Siamo nelle condizioni migliori per metterla in pratica: non dobbiamo spingere troppo – anzi, dobbiamo controllare la velocità – e possiamo concentrarci sull’efficienza. Eccola, la nostra corsa perfetta!»
Gastone Breccia (dalla quarta di copertina)
Gastone Breccia, storico e giornalista (con all'attivo numerosi saggi, anche su temi di attualità), sin da giovane è stato un runner appassionato (la sua prima maratona corsa appena ventenne). Ha cominciato a correre prestissimo e non ha più smesso: all'inizio ha mostrato di possedere grandissime doti e , quasi sin da subito, si è collocato nella fascia degli amatori "top runner", accumulando nella prima parte della sua carriera sportiva numerosi titoli eccellenti . Poi, nel corso del tempo le sue prestazioni, con il progredire, hanno perso un po' del loro smalto, mantenendosi tuttavia sempre nella fascia dell'eccellenza (in funzione dell'età raggiunta). Ciò nonostante, Gastone Breccia si definisce con molta modestia, un "tapascione", sia pure di alto livello, annoverando tra le sue migliori prestazioni un crono di 2h26'44 in maratona (ottenuta nel 1996) e un 1h08'58 nella Mezza, crono conquistato nella Roma-Ostia nel 1997, senza contare i numerosi titoli prestigiosi che ha conquistato nell'arco di tutta la sua carriera podistica. In La Fatica più bella. Perchè correre cambia la vita (Laterza Editore, Collana I Robinson. Letture, 2018), egli ha trasfuso la sua passione sconfinata per la corsa, che ha fatto da sempre da contraltare e da contrappeso ai suoi interessi professionali e culturali poliedrici.
Breccia ha un atteggiamento rigoroso nei confronti della Maratona: secondo lui la fatidica distanza dei 42,195 km (che è per lui la distanza "perfetta", nel rapporto che si determina tra efficienza e resistenza) deve sempre essere affrontata "al limite" delle proprie possibilità e, di conseguenza, va sempre preparata accuratamente. Ogni maratoneta già addestrato e ogni aspirante maratoneta deve sempre poter conoscere in anticipo i propri limiti e, di conseguenza, progettare la "sua" maratona, in modo tale da poter ogni volta avvicinarsi in maniera ragionevole al proprio obiettivo, considerando che non sempre la maratona che si è appena corsa risulterà essere "perfetta". Bisogna ogni volta far conto di imprevedibili circostanze e, naturalmente, dei propri errori (dei quali, avendo l'umiltà di affrontare un'impietosa autoanalisi nelle ore e nei giorni successivi, bisogna far tesoro per potersi migliorare). Ma per Breccia ciò che davvero imperdonabile è la "sciatteria" che rappresenta una vera e propria offesa ad un sano agonismo e ad una corretta filosofia della maratona. Egli, da asceta della disciplina, è per principio contrario alla maratona corsa "tanto per" e, di conseguenza, disapprova anche coloro che "vanno per maratone", solo per collezionare un numero impressionante di gare di lunga durata (includendo anche le ultra) partecipate e concluse, ma senza mai essersi confrontati con il proprio personale limite: senza di ciò non vi è mai la "sfida di maratona". In questo senso, Gastone Breccia è decisamente contrario al Tapascione, a colui che strascica i propri piedi e che senza verve alcuna si trascina sino al traguardo: in sostanza, sotto questo profilo, egli boccia con fervore almeno il 50% di coloro che costituiscono la fitta schiera del "popolo delle maratone" (e molti ancora di più fra quelli che partecipano alle ultramaratone, dove il gesto della corsa per i più tende ineluttabilmente a trasformarsi in semi-corsa o in camminata). Ciò nonostante, come abbiamo già rilevato egli stesso si definisce umilmente un "tapascione" - benché di alto livello. Questa la premessa per comprendere il suo approccio alla corsa di lunga durante: e naturalmente bisogna tener presente che il suo enunciato scaturisce dal fatto che egli sia sempre stato un maratoneta brillante e anche adesso per la inevitabile perdita di smalto legata al progredire dell'età, egli tende ancora a salire sul podio di categoria.
Su questa sua formulazione si potrà anche non essere d'accordo, ovviamente: e per sicuro molti dei podisti "lenti" che partecipano solo per il gusto di esserci, indossando il pettorale non apprezzeranno questa sua ferma presa di posizione da "purista" della corsa".
Tuttavia, dalla lettura del suo libro, c'è sicuramente molto da imparare e, nella mente del lettore che sia conoscitore delle cose di corsa (non solo in teoria ma anche per esperienza diretta) si staglieranno indelebili dei brani stillanti di autentica passione che tutti coloro che hanno avuto dimestichezza con le gare di lungo corso non potranno non apprezzare.
Ed è soprattutto la statuizione serpeggiante in numerose pagine magistrali di questo testo ad avere una grande risonanza: cioè quella secondo cui la maratona "cambia la vita del runner", in quanto la maratona non è solo corsa, ma diventa regola e stile di vita, essendovi sempre la necessità di acquisire abitudini alimentari e consuetudini quotidiane che senza essere ascetiche devono essere necessariamente rigorose.
Il volume si conclude con una serie di appendici che potranno essere utili al maratoneta in erba per preparare la propria maratona secondo i principi di Breccia il quale, dopo essere stato preparato da altri, è diventato lui stesso "preparatore" di amici e di runner che sono entrati a far parte di un suo entourage.
La fatica più bella è sicuramente un volume che tutti coloro che amano la corsa dovrebbero leggere e conservare per rileggerlo di quando in quando e per ricordare a se stessi che, sempre, la Maratona dovrebbe contenere in sé inclusa una sfida al limite, al proprio personale limite: e che senza il desiderio di avvicinarsi al proprio limite non vale nemmeno la pena metterci mano.
(Dal risguardo di copertina) Come insegnano i filosofi orientali, la strada è più importante del traguardo, ed è il cammino a dare un senso alla meta.
«È il momento di avere pazienza e di non fare errori. È il momento di cercare la nostra corsa perfetta, quella che abbiamo costruito giorno per giorno, espressione del nostro personale equilibrio tra sforzo e durata, tra velocità e resistenza. Se ci siamo allenati con la testa, oltre che con le gambe, ormai la conosciamo bene, è diventata una vecchia amica. Siamo nelle condizioni migliori per metterla in pratica: non dobbiamo spingere troppo – anzi, dobbiamo controllare la velocità – e possiamo concentrarci sull'efficienza. Eccola, la nostra corsa perfetta!»
La corsa sulle lunghe distanze è una disciplina dura. Richiede costanza, capacità di sopportare la fatica e superare soglie di sofferenza a cui la nostra vita sedentaria non ci prepara. Ma è l’attività più naturale che sia possibile praticare; un’attività nella quale milioni di anni di evoluzione della specie ci hanno reso imbattibili. E, soprattutto, la corsa ci rende felici. Non soltanto più magri e forti, più sani e soddisfatti: riesce a toccare qualcosa di misterioso, che ci avvicina alla nostra natura più profonda e ci fa sentire liberi. Se l’uomo è un perfect runner, la maratona è la distanza perfetta. Rappresenta infatti il giusto compromesso tra resistenza ed efficienza: mette alla prova la capacità fisica e mentale di ‘tenere duro’, ma consente di esprimere un gesto atletico efficace, limpido, ‘bello’.Può essere un’avventura splendida o fallimentare; può lasciare stanchi e felici, o frastornati, svuotati e delusi. Non tutto dipende dal risultato. Come insegnano i filosofi orientali, la strada è più importante del traguardo, ed è il cammino a dare un senso alla meta.
(Note biografiche) Gastone Breccia vive a Cremona dove insegna Storia bizantina presso la Facoltà di Musicologia, sede staccata dell'Università di Pavia. Ha pubblicato diversi scritti di taglio storico-filologico su testi della cultura bizantina.
Negli ultimi anni si è dedicato alla ricerca in campo storico-militare anche al di fuori dell’ambito della bizantinistica. Esperto di teoria militare, di guerriglia e controguerriglia, ha condotto ricerche sul campo in Afghanistan (2011) e Kurdistan (Iraq e Siria, 2015). È membro del direttivo della Società Italiana di Storia Militare (SISM) e collaboratore fisso della rivista “Focus Wars”. Tra le sue più recenti pubblicazioni: I figli di Marte. L’arte della guerra a Roma antica (Mondadori 2012); L’arte della guerriglia (Il Mulino 2013); La tomba degli imperi (Mondadori 2013); Le guerre afgane (Il Mulino 2014); Nei secoli fedele. Le battaglie dei Carabinieri 1814-2014 (Mondadori 2014); 1915. L’Italia va in trincea (Il Mulino 2015); Guerra all’Isis. Diario dal fronte curdo (Il Mulino 2016).
Sul tema de "L'arte della guerra" (Einaudi 2009), ha scritto "Con assennato coraggio...L'arte della guerra a Bisanzio tra Oriente e Occidente", apparso nel 2001 su «Medioevo greco - Rivista di storia e filologia bizantina», e due saggi sulla guerriglia a Roma e a Bisanzio (Grandi imperi e piccole guerre) usciti sulla stessa rivista nel 2007 e 2008. Più divulgativo l'articolo Adieu, Herr von Clausewitz, un'analisi delle difficoltà americane in Iraq alla luce delle teorie belliche classiche, pubblicato su «Limes» nel 2006.
Mi chiamo Maurizio Crispi. Sono un runner con oltre 200 tra maratone e ultra: ancora praticante per leisure, non gareggio più. Da giornalista pubblicista, oltre ad alimentare questa pagina collaboro anche con altre testate non solo sportive.
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Il perchè di questo titolo
Perchè ho dato alla mia pagina questo titolo?
Volevo mettere assieme deio temi diversi eppure affini: prioritariamente le
ultramaratone (l'interesse per le quali porta con sè ad un interesse altrettanto grande per imprese di endurance di altro tipo, riguardanti per esempio il nuoto o le camminate prolungate), in
secondo luogo le maratone.
Ma poi ho pensato che non si poteva prescindere dal dare altri riferimenti come il
podismo su altre distanze, il trail e l'ultratrail, ma anche a tutto ciò che fa da "alone" allo sport agonistico e che lo sostanzia: cioè, ho sentito l'esigenza di dare spazio a tutto ciò che fa
parte di un approccio soft alle pratiche sportive di lunga durata, facendoci rientrare anche il camminare lento e la pratica della bici sostenibile. Secondo me, non c'è possibilità di uno sport
agonistico che esprima grandi campioni, se non c'è a fare da contorno una pratica delle sue diverse forme diffusa e sostenibile.
Nei "dintorni" della mia testata c'è dunque un po' di tutto questo: insomma, tutto
il resto.
L'idea motrice di questo nuovo web site è scaturita da una pagina Facebook che ho
creato, con titolo simile ("Ultramaratone, maratone e dintorni"), avviata
dall'ottobre 2010, con il proposito di dare spazio e visibilità ad una serie di materiali sul podismo agonistico e non, ma anche su altri sport, che mi pervenivano dalle fonti più disparate
e nello stesso tempo per avere un "contenitore" per i numerosi servizi fotografici che mi capitava di realizzare.
La pagina ha avuto un notevole successo, essendo di accesso libero per tutti: dalla data di creazione ad oggi,
sono stati più di 64.000 i contatti e le visite.
L'unico limite di quella pagina era nel fatto che i suoi contenuti non vengono indicizzati su Google e in altri
motori di ricerca e che, di conseguenza, non risultava agevole la ricerca degli articoli sinora pubblicati (circa 340 alla data - metà aprile 2011 circa - in cui ho dato vita a Ultrasport
Maratone e dintorni).
Ho tuttavia lasciato attiva la pagina FB come contenitore dei link degli articoli pubblicati su questa pagina
web e come luogo in cui continuerò ad aprire le gallerie fotografiche relative agli eventi sportivi - non solo podistici - che mi trovo a seguire.
L'idea, in ogni caso, è quella di dare massimo spazio e visibilità non solo ad eventi di sport agonistico ma
anche a quelli di sport "sostenibile" e non competitivo...