Camminare è secondo Erling Klagge un gesto sovversivo e libertario (e nel sostenere questo punto di vista egli si ispira ovviamente, molto, a Thoreau e al suo saggio sul camminare. Ed è un'affermazione autorevole la sua, dal momento che egli non è un camminatore comune, ma uno che, camminando, ha compiuto significative ed ineguagliate imprese. Tuttavia, egli afferma, il gesto del camminare è identico sia che lo si affronti con un obiettivo ambizioso sia che lo si faccia come un'attività quotidiana, con finalità di fitness o anche da flaneur. D'altra parte, come risulta dai diversi resoconti, sono molteplici le motivazioni che spingono centinaia di persone ogni anno a percorrere il Cammino di Santiago - tutte valide, peraltro, perchè in ciascuna motivazione individuale vi è contenuta una verità personale - ma alla fine è soltanto il camminare giornaliero con la mission di compiere quei 25-30 km a forgiare il camminatore e a tramutarlo in taluni casi in pellegrino. Il camminare - come anche il correre lento - pone il soggetto in maniera ineludibile in contatto con il mondo al di fuori e nello stesso tempo con il proprio mondo interiore, allentando le barriere protettive, rende più permeabile l'interno e nello stesso consente l'emergere di istanze interiori dimenticate oppure ricoperte dalla spessa corazza della quotidianità. Camminando si mettono tra parentesi le preoccupazioni quotidiane, oppure ci si ritrova a pensare creativamente, poichè gli stimoli esterni entrano in contatto con il Sè più intimo ed attivano forme di story telling e impreviste contaminazioni tra piani di coscienza differenti.
Il camminare quotidiano, secondo Kagge (con il supporto di studi scientifici che egli non manca di citare) sviluppa la creatività, facilitando gli individui nel trovare delle soluzioni a problemi da cui sono assillati o anche a metterli tra parentesi e potere così dedicarsi ad un'attività che, se effettuata con abbandono e dedizione, può servire a fare nella mente il vuoto e a creare la sospensione di memoria e desiderio (entrambe i fenomeni di per se stessi terapeutici). Siamo fatti per camminare (o per correre) e l'Homo sapiens si è evolluto proprio svolgendo queste due fondamentali attività che rappresentano lo strumento fondamentale di presa di contatto e di dominio della realtà. E camminare, come correre o anche l'andare in vbicicletta, sono tra le poche attività autenticamente "anarchiche": nel senso che per svolgerle non c'è da chiedere il permesso a nessuna istituzione, nè c'è alcuna tassa da pagare.
Dopo un volume di meditazione sul silenzio, Erling Kagge ci propone - con altrettanta incisività - un breviario di pensieri sul camminare, maturato e filtrato attraverso la sua peculiare esperienza di grande ed instancabilmente camminatore. Si tratta di Camminare. Un gesto sovversivo (nella traduzione di Sara Culeddu), pubblicato da Einaudi(Stile libero Extra) nel corso del 2018
(dalla quarta di copertina) Dall'autore del best seller mondiale Il silenzio, un gesto d'amore per il pianeta, un viatico per chi vuole accordare il corpo al ritmo dell'anima. Camminare è diventato un gesto sovversivo. Non serve essere atleti professionisti, aver scalato l'Everest o raggiunto il Polo Nord, come Erling Kagge. La rivoluzione è alla portata di chiunque. Basta decidere di rinunciare a qualche comodità e spostarsi a piedi ogni volta che è possibile. Anche in città, anche nel quotidiano. Sottrarsi alla tirannia della velocità significa dilatare la meraviglia di ogni istante e restituire intensità alla vita. Chi cammina gode di migliore salute, ha una memoria piú efficiente, è piú creativo. Soprattutto, chi cammina sa far tesoro del silenzio e trasformare la piú semplice esperienza in un'avventura indimenticabile. «Con un senso di stupore e meraviglia, Kagge vaga piú che narrare, muovendosi tra filosofia, scienza ed esperienza personale...È sempre bene ricordare le antiche verità. E Kagge sa come farlo». Los Angeles Review of Books L'autore. Erling Kagge (Oslo, 1963) è stato il primo uomo a raggiungere il Polo Sud in solitaria e il primo a raggiungere i «tre poli»: il Polo Nord, il Polo Sud e una cima dell'Everest. Per Einaudi ha pubblicato Il silenzio (2017), che è stato venduto in 35 Paesi, e quest'ultimo volume sul Camminare (2018).
( Cettina Vivirito ) C'è un silenzio del cielo prima del temporale, delle foreste prima che si levi il vento, del mare calmo della sera, di quelli che si amano, della nostra anima, dei camminatori...
Passeggiare e camminare sono un modo dell'esistere, non v'è alcun dubbio su questo. Come del resto lo è correre, in primis il correre lento. Sono dei modi che rimandano alla condizione dell'uomo ...
La Compagnia dei Cammini ha ospitato, martedì 15 maggio 2018 a Colle Val d’Elsa (SI), la proiezione del film documentario realizzato da Patagonia, Blue Heart. Salviamo i fiumi selvaggi d’Europa, in collaborazione e con il circolo Arci Il Cipollino Felice. Ha fatto seguito discussione con Luca Gianotti e con alcuni rappresentanti della Compagnia dei Cammini. Più di 3.000 dighe e derivazioni sono attualmente in fase di realizzazione o progettazione nei Balcani, sugli ultimi fiumi incontaminati d'Europa. Queste centrali idroelettriche provocheranno danni irreversibili ai fiumi, alla fauna selvatica e alle comunità locali. Blue Heart documenta la lotta per difendere il Vjosa, in Albania, il più grande fiume incontaminato d'Europa, gli sforzi profusi per salvare la lince dei Balcani in via di estinzione in Macedonia e la protesta delle donne di Kruščica, in Bosnia ed Erzegovina, condotta 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 per proteggere l'unica fonte di acqua dolce della loro comunità. Il film ha una durata film 40 minuti.Prodotto da Patagonia, in collaborazione con le ONG della regione balcanica e di tutta Europa, diretto da Britton Caillouette (Farm League) e con musiche di Andrew Bird, il film è uno strumento cruciale della lotta volta ad aumentare la consapevolezza globale della campagna Save the Blue Heart of Europe. Nel film e per tutta la durata della campagna, Patagonia chiede alle persone di scendere in campo e firmare una petizione online per fare pressione sugli sviluppatori e sulle banche estere che stanno finanziando progetti di costruzione di dighe, anche all’interno di aree protette. Blue Heart è stato lanciato in tutto il mondo il 28 aprile 2018. La prima mondiale del film si è tenuta a Idbar Dam in Bosnia-Erzegovina, seguita da proiezioni nella penisola balcanica e nelle principali città del mondo. Il film sarà anche disponibile su iTunes a partire dall’8 agosto 2018.
L'ultimo film documentario di Patagonia, Blue Heart, descrive la lotta per proteggere gli ultimi fiumi incontaminati d'Europa e concentra l'attenzione internazionale su un potenziale disastro ...
Biagio D'Angelo nel suo primo libro Non ci resta che correre. Una storia d'amore e di resistenza (Rizzoli Editore, 2017) è riuscito a raccontare egregiamente e senza retorica quello che può essere il viaggio dentro il pianeta della corsa di lunga durata, a partire da un primo aprroccio casuale e da spettatore, quando si ritrovò da turista a osservare dall'esterno i tantissimi corridori che sfilano per le strade della grande Mela, in occasione dell'appuntamento annuale con la Maratona più celebre del mondo. Del tutto casualmente, dopo quell'esperienza, Biagio prende a correre e inizia un lungo viaggio che lo porterà a correre la sua prima maratona, a Venezia.
Come sanno tutti quelli che si sono sperimentati in questo campo, di un vero e proprio viaggio si tratta: tra passaggi da luoghi dove non si sarebbe mai andati senza la scusa della corsa e incontri con tantissime persone, praticanti e non, che hanno da raccontare delle storie. Come sottolinea Kagge, nel suo libro sul camminare, anche la corsa specie quella lenta (non quella dei top runner, per intenderci) è una corsa che porta verso se stessi, che spinge a pensare e a riflettere, ad elaborare un pensiero creativo, ad osservare il mondo con freschezza e a incontrare gli altri, a raccontare le proprie storie e ad ascoltare quelle di altre. Il libro di Biagio è così tante cose assieme: viaggio, avventura, introspezione, scoperta di luoghi e di persone. E, intanto, con il passare dei capitoli, Biagio accumula sempre più chilometri corsi, comincia a sperimentarsi sul terreno delle non competitive e non, sino alla sua prima Mezza maratona e oltre.
E, ad ogni singolo step di questo percorso, egli si ritrova a scoprire, con meraviglia, mondi sempre nuovi, mondi di cui avrebbe continuato ad ignorare l'esistenza se fosse rimasto nel chiuso di una palestra. Ed è davvero una splendida avventura quella che egli persegue successivamente nel passaggio dalla Mezza alla Maratona. Il lettore attento si accorgerà che il libro si conclude con lo start della Maratona di Venezia che, al momento di chiusura del volume, dovrebbe rappresentare il culmine della sua esperienza podistica. Manca il racconto della Maratona di venezia: cosa avrà visto, cosa avrà sentiti, quali emozioni avrà sperimentato lungo i fatidici 42 e 195 metri, quale sarà stato il suo stato d'animo quando ha tagliato il suo primo traguardo di maratona. Tutto questo rimane in sospeso e avvolto in un silenzio che può riservarsi soltanto alle esperienze indicibili o a quelle che ti riempiono così tanto che, almeno inizialmente, debbono rimanere come una pagina non scritta del proprio diario di bordo.
E' un libro in cui chiunque abbia fatto l'esperienza della corsa amatoriale può riconoscersi: apprezzando con piacere che egli si rivolge a quelli come lui, cioè a coloro che amano la corsa lenta. Volutamente egli non si occupa della corsa agonistica dei top runner, lasciando quest'aspetto ai cronisti sportivi. Lui, come tanti, vuole essere un podista lento e come tale può divertirsi nel senso più puro del termine e sperimentare sempre cose nuove con freschezza d'animo.
Vorrei spendere alcune parole per spiegare come mi sono imbattuto in questo libro.
Alla 6 ore di Mondello 2017, l'8 dicembre, ho incontrato Edoardo Vaghetto uno dei personaggi della corsa di lunga durata che popolano le pagine di Non ci resta che correre a cui Biagio D'Angelo ha dedicato un intero capitolo dal titolo "La Corsa di Edoardo" (e in quell'occasione, Edoardo, ovviamente, inossidabile come sempre, benchè già a metà strada tra i 75 e gli 8o anni, partecipava).
Mi ha chiesto se avessi già letto questo libro. Io gli risposi: No, non ancora! (bluffando sul fatto che il suo passaggio dalle librerie mi fosse sfuggito)! Solitamente, seguo molto da vicino tutte le new entry editoriali in questo campo, perchè mi piace leggere e poi scrivere le recensioni per il mio magazine. Lui mi disse (senza menzionare il fatto che ci fosse un capitolo a lui dedicato: un bell'esempio di modestia) che nel tuo libro si parlava anche di Enzo Cordovana e che lui intendeva portarne una copia ai familiari. Enzo ci ha lasciato dopo una breve, inattesa, malattia un paio di anni fa. Anche lui, come me psichiatra, quando - senza aver mai partecipato ad una gara podistica e senza aver mai corso - gli venne la voglia improvvisa di cimentarsi nella sfida dei 100 km, si rivolse a me per chiedermi dei consigli. Allora, in Sicilia (siamo alla fine degli anni Novanta) quelli che avevano già corso delle 100 km erano delle autentiche mosche bianche e i neofiti si ispiravano - chiedendo eventualmente guida e consigli - a quei pochi che già vi si erano sperimentati. Io molto volentieri gli diedi le dritte necessarie: fu così che diventammo rapidamente amici e compagni di corse e di viaggi per una stagione durata diversi anni. Tramite Enzo il Verbo delle Ultramaratone si diffuse anche ad altri del suo entourage professionale ed egli diivenne per questo motivo ispiratore anche di Edoardo: si erano conosciuti per affinità di residenza - Enzo abitava a Ficarazzi e Edoardo a Bagheria, ad un tiro di schioppo, praticamente. Per la prima 100 km di Edoardo (il suo "battesimo") partimmo, infatti, in tre: io, Enzo (che aveva già superato con successo la fase di neofita e che mi spingeva verso altre e più impegnative imprese di ultramaratona) e l'esordiente Edoardo. Dopo questo breve colloquio con Vaghetto, ho preso nota mentalmente del titolo del libro di Biagio D'Angelo e dì lì a poco l'ho acquistato. Sin dalle prime battute, ho sentito che questo libro mi avrebbe spinto a scrivere una recensione "ispirata", poichè vi ho potuto leggere il mio percorso attraverso la corsa e attraverso le mie esperienze di scrittura di cose di corsa (se penso, ad esempio, agli anni di collaborazione con podisti.net...), con un'attenzione - direi minuziosa ed empatica, alle persone e ai luoghi. A me che già scrivevo, la corsa diede uno straordinario impulso alla scrittura, spingendomi a sperimentarmi in territori diversi dalla saggistica scientifica: non so perchè ciò accadesse. Dovevo scrivere di tutto: la partecipazione ad una gara di corsa (oppure il compiere un semplice allenamento) mi imponeva come sottoprodotto quasi necessario (per il compimento di un'elaborazione interiore) un intenso impegno di scrittura per raccontare la gara, la sua atmosfera, la mia esperienza, i miei stati d'animo, cosicchè ogni allenamento, ogni gara, si trasformavano in una sorta di viaggio meraviglioso. Credo che sia proprio questa l'essenza della corsa che - se si riesce a evitare di viverla come una non-esperienza, cioè come una attività coatta (come a tanti capita: e sono tanti, forse troppi, gli amatori che la trasformano in un secondo lavoro) - possa essere un'occasione di perfetta sintesi di conoscenza del proprio corpo (inteso come psico-soma), delle proprie emozioni e di affinamento della capacità di osservazione interna ed esterna e, non ultima cosa - di slatentizzazione del senso della meraviglia (o, se vogliamo, di recupero del nostro sguardo dei bambini che fummo sulle cose). Il libro mi è piaciuto, senza deflessioni, nel passaggio da un capitolo all'altro. Mi è piaciuta, in particolare, questa continua alternanza tra il punto di vista interiore, i bozzetti di realtà filtrati dallo sguardo dello scrittore e le narrazioni concernenti altri personaggi della corsa, accolte da Biagio con curiosità empatica. Quando si entra nel mondo della corsa si può avere l'impressione di entrare in un pianeta a se stante, o forse meglio, in un universo, un intero macroverso che si fa microverso, attraverso la raccolta di microstorie individuale, ciascuna delle quali può acquistare delle valenze universali e può insegnare tante cose. E la stessa sensazione la si può avere se si passa dall'esperienza della Maratona a quella delle Ultra, partendo dalla 100 km per approdare alla realtà delle Ultra a tempo su circuito. La corsa è un'occasione preziosa per stare con se stessi (forse anche per riconciliarsi con il proprio Sè interiore) e per incontrare altri, che si presentano il più delle volte a nudo, con sogni e speranze che non è possibile vedere quando si indossa la corazza protettiva della vita di tutti i giorni.
(dal risguardo di copertina) Con il suo primo libro, Biagio D’Angelo scrive una dichiarazione d’amore coinvolgente, commovente e autoironica, che appassionerà tanto i runner di lungo corso quanto i neofiti alle prese con i primi chilometri
«Facciamo un brindisi» dice allora la Vale a voce alta. «Alla maratona.» Come altri brindano alla pace nel mondo, al futuro, all’anno nuovo, all’amore, alla bellezza o ad altre cazzate che salveranno il mondo, noi brindiamo alla maratona. È già qualcosa.
Il momento in cui ti innamori, anche se mentre lo vivi non te ne rendi conto, innesca conseguenze impreviste e irreversibili. È ciò che succede anche al protagonista di questo libro, quarantacinque anni, padre separato, quando un sabato pomeriggio di marzo mette su la prima maglietta di cotone che gli capita, un paio di vecchie scarpe e invece di andare in palestra tira dritto e comincia a correre lungo il Naviglio: due chilometri all’andata e due al ritorno. Perché sì, è della corsa che si innamora. Di quella cosa che “si fa per non impazzire”, per tornare bambini o per preparare “il viaggio più bello della vita”: la prima maratona. Ed è così che nasce questo libro che parla di running, da leggere tutto d’un fiato come un romanzo. Perché a dare il passo all’autore ci sono tanti personaggi incredibili: per esempio c’è Edoardo, che scopre la corsa a sessant’anni sotto gli sguardi irridenti dei suoi compaesani e che oggi, a settantotto, è il secondo ultramaratoneta al mondo della sua categoria; c’è Constantin, che corre in stampelle dopo l’amputazione di una gamba; c’è Mahanidhi, prototipo del corridorecercatore; c’è persino Chet Baker, che appare come una visione in un’alba nebbiosa alle porte della città. E c’è appunto Milano, la Milano del Parco Sempione e quella delle periferie, di tanti luoghi nascosti e tanti sguardi possibili solo all’occhio di chi li attraversa correndo.ù
L'autore. Biagio D'Angelo è nato a Messina e vive a Milano. Da oltre vent'anni si occupa di comunicazione, collaborando con diversi marchi nazionali e internazionali. Dal 2016 con l'agenzia K words realizza progetti di welfare aziendale. Non ci resta che correre (Rizzoli 2017) è il suo primo libro. Il suo sogno è quello di poter scrivere un giorno un romanzo: d'altra parte corsa e scrittura si coniugano perfettamente come ci ha mostrato Haruki Murakami, nel suo "L'Arte di Correre", in cui la corsa quotidiana alimenta la scrittura e viceversa in un circolo in cui è difficile poter dire cosa abbia originato cosa.
... la corsa su lunghe distanze mi ha insegnato la disciplina e la pazienza necessarie per scrivere. Si tratta di una cosa che ho sempre fatto, anche per lavoro (ho un'agenzia di comunicazione), ma da lettore accanito ho sempre sognato un giorno di poter raccontare qualcosa attraverso delle storie.
La corsa è stata per me un viatico sorprendente per iniziare. E anche adesso, che sono impegnato a scrivere un nuovo libro, che non parla di corsa, un romanzo vero e proprio, è proprio grazie a quel poco che ho imparato nelle corse su lunghe distanze (quella cura nell'essere presenti a se stessi, di cui mi parli, nel sapere che l'unico modo per procedere è mettere un passo avanti all'altro, trovando il proprio ritmo, come si fa con le parole, con calma e tenacia) che piano piano, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, sto portando avanti anche questa piccola impresa.
L'ultima luce del giorno, quella che allunga le ombre sulla polvere, è la più preziosa. La sola a svelarti il mistero del camminare, a dare un senso a quell'istinto ottimista e avventuriero di appoggiare un piede davanti all'altro per scoprire cosa ci sarà oltre quel ponte, quelle case, quella collina.
Riccardo Finelli
Riccardo Finelli, giornalista e scrittore modenese, ha cominciato raccontare dei suoi cammini nel 2012, quando pubblicò “Coi binari fra le nuvole” (Neo), in cui narrava il suo cammino lungo la ferrovia dismessa che collega Sulmona a Carpinone, la Transiberiana d’Italia. nel 2016 invece ci ha raccontato il suo Cammino di Santiago in “Destinazione Santiago”. (Sperling&Kupfer).
Pochi mesi fa è uscito invece “Il cammino dell'acqua. A piedi da Milano a Roma lungo il corso dimenticato dei fiumi” (Sperling&Kupfer, 2017), che contiene il racconto del cammino di Finelli camminò da Milano a Roma non percorrendo la Francigena o altri cammini noti, ma un itinerario personale, da lui studiato, cioè seguendo i corsi dei fiumi, in un viaggio a piedi di circa ottocentocinquanta chilometri. Dal Naviglio al Ticino, poi il Po, e dove si aggancia il Trebbia, quindi via verso l’Appennino lungo questo fiume. Poi l’Aveto, il Penna, il Taro, il Verde, il Magra, il Lucido, il Serchio, l’Arno, l’Elsa fino a Siena, l’Arbia, l’Orcia e il Paglia, fino alla confluenza di questo con il Tevere. E gli ultimi chilometri in barca per entrare a Roma dall’acqua. In Italia, i fiumi sono dimenticati, abbandonati, spesso torturati e violati, ma sono un mondo da scoprire. E Finelli vive belle scoperte, al tempo stesso incontrando sul suo cammino persone e storie da raccontare. E il fatto che abbia inventato un cammino originale, in luoghi dove veder passare un camminatore era una sorpresa, gli ha consentito di vivere una esperienza senz’altro più ricca che non quella di camminare su un percorso in cui le persone del luogo si sono assuefatte ai viandanti. La sua conclusione è interessante e vale la pena di citarla: “Mi sono convinto che non viaggiamo per raggiungere qualcuno o qualcosa, ma per soddisfare una pulsione primaria scolpita nei meandri del nostro DNA, come fosse il bisogno di bere o respirare. E ho cominciato a considerare gli abituali sogni a occhi aperti davanti a un atlante non solo come una mia personale fissazione, ma la naturale attitudine del pronipote di una stirpe quadrupede”. In altri termini, attraverso queste parole emerge l'essere nomadi per bisogno ancestrale, e anche una sorta di diritto inalienabile a essere nomadi. (LG) (dal risguardo di copertina) Cosa spinge un uomo a riempire uno zaino e percorrere a piedi quasi novecento chilometri da Milano a Roma? Sulle spalle l'essenziale, davanti nessun sentiero, nessun compagno, nessuna prenotazione, affidandosi all'antica leggerezza del viandante. Dopo anni di itinerari predefiniti, Riccardo Finelli ha deciso di uscire dalle strade battute e tracciare il proprio cammino, seguendo una via dimenticata: il corso dei fiumi, che un tempo muovevano uomini, merci e mulini, e oggi scorrono pigri e abbandonati. Dal Naviglio Pavese al Tevere, passando per il Po, il Trebbia e l'Elsa riaffiora un'Italia di piccoli centri e borghi arroccati, malinconica, generosa e accogliente. Ne fanno parte Alessio, che tiene faticosamente in piedi l'oasi di Alviano; Lino, erede di una generazione di barcaioli che parla ancora la grammatica dell'acqua; o Francesca, che ogni giorno si muove sulle sponde che uniscono Lunigiana e Garfagnana. Ma un viaggio è fatto soprattutto di osservazione lenta e minuziosa, lunghi silenzi, sospensione di giudizio. In questo spazio di solitudine e libertà, emerge la vera vocazione del camminatore: non raggiungere la meta ma esplorare la strada, riscoprire località cancellate dalle mappe, prendersi il piacere di deviare verso la bellezza insospettata dell'ordinario. In questo libro, Finelli ci invita a seguirlo e a ritrovare quell'istinto vagabondo e transumante che per millenni ha accompagnato l'umanità.
L'autore. Riccardo Finelli, giornalista e scrittore, esplora da dieci anni luoghi inediti e viaffi a passo lento. Ha pubblicato Destinazione Santiago (Sperling & Kupfer, 2016), Il cammino dell'acqua (Sperling & Kupfer, 2017); per Incontri sono usciti Storie d'Italia (2007), C'è di mezzo il mare (2008), 150 anni dopo (2010), per Neo Edizioni Coi binari fra le nuvole (2012) e Appeninia (2014).
Nel 2011, Andrea Bianchi, da sempre affascinato dalle ascensioni verso le grandi altezze montane come simbolo della ricerca interiore dell'uomo, durante un'escursione in altitudine, si è tolto le scarpe e ha scoperto che camminare a piedi nudi può essere un'esperienza di grande benessere e di riconnessione con la natura. Dopo la prima, timida e casuale prova, si è andato sperimentando in contesti di terreno sempre più difficili e sempre più a lungo, anche nella pratica escursionistica su sentieri impervi. Il suo camminare a piedi scalzi è assieme una "pratica" e una filosofia di vita che sconfina in una relazione con la natura tesa a coglierne lo spirito vitale e l'energia. Da allora non ha più smesso e, con una serie di articoli che si sono trasformati in libri, ma anche con la il suo insegnamento diretto, ha tentato di trasmettere ad altri la sua visione. Non possiamo dimenticare, ovviamente, che il suo camminare a piedi nudi, è un ritorno alla semplicità francescana e, più in generale, ad una filosofia di vita in base alla quale, per il raggiungimento di un pieno benessere, in tutte le nostre abitudini/attitudini occorra semplificare, ridurre drasticamente l'utilizzo di tutti quegli oggetti di cui ci siamo circondati e di cui siamo dipendenti sino all'osso, lasciando invece solo ciò che è essenziale.
Ma d'altronde in questa pratica ci sono degli antecedenti illustri, come ala pratica dello sport a piedi scalzi tra i quali il cosiddetto "gimnopodismo" ha molteplici rappresentanti illustri (e non illustri), per non parlare delle pratiche ancestrali dei Tarahumara che usano correre ritualmente su i montagnosi sentieri della Sierra, praticamente a piedi nudi - solo con la protezione della sottile intercapedine di sottili sandali che essi stessi (come parte del percorso iniziatico tribale) si sono costruiti: pratica ampiamente descritta da Christopher McDougall e riportata al grande mondo del podismo attraverso il volume interessantissimo - e di grande successo su scala planetaria - Born to Run.
Lo snello, ma succoso volume Il silenzio dei passi. Piccolo elogio del camminare a piedi nudi nella natura, pubblicato nel 2016 da Ediciclo nella Collana Piccola Filosofia di Viaggio, contiene appunto il percorso scalzo di Andrea Bianchi e la sua "filosofia di viaggio".
Mi sono ritrovato molto in ciò che Andrea Bianchi scrive e trovo pienamente condivisibili le sue considerazioni: non è così semplice mettere in pratica questo Verbo, poiché come lo stesso autore avverte ci sono, attorno al camminare e al correre a piedi nudi, molti pregiudizi culturali che è difficile abbattere. Bianchi, nel corso della sua esposizione che ha l'autorevolezza derivante dalla pratica diretta e da una lunga esperienza, controbatte puntualmente tutte le possibili obiezioni (in maniera garbata e non fondamentalista), nello stesso tempo invitando tutti i suoi lettori non del tutto convinti a provare in prima persona, cominciando ovviamente con situazione relativamente protette e comode, per passare poi ad impegni via via più hard ed ambiziosi, in un percorso che diventa viaggio e filosofia di vita.
Io stesso dopo aver letto le sue pagine, visto che non corro più, mi sono ritrovato a fare una parte dei miei lavoretti in campagna a piedi scalzi, ritrovando un forte stimolo vitale nel contatto diretto dei miei piedi con la terra e con la pietra: ritrovando le sensazioni adrenaliniche ed energetiche che avvertivo in me, quando - più giovane - correvo a piedi nudi, sulla spiaggia o anche sugli sterrati e sull'asfalto., oppure, al mare, saltabeccando da uno scoglio all'altro.
I podisti che adoperano scarpe tecniche altamente protettive perdono la finissima capacità propriocettiva del piede e la sua capacità di adattamento naturale ad ogni tipo di terreno. Camminare o correre a piedi nudi ci consente di trovare un rinnovato equilibrio e una maniera più naturale di articolare con un appoggio prevalente sull'avampiede: cosa che nel lungo termine consente di curarsi da inspiegabili malanni che affliggono i camminatori o i runner calzati e che non hanno riscontri strumentali significativi.
Provare per credere.
Questo libretto trova il suo ideale complemento nel volume sempre di Andrea Bianchi, A piedi nudi-Il cammino silenzioso dalla A alla Z (Edicliclo, 2017, collana Ciclostile)
(nota editoriale) Togliersi le scarpe e percorrere scalzi un piano sentiero boscoso, un prato umido di rugiada, o i gradini naturali di un sentiero d’alta quota e imparare a percepire sotto le piante dei piedi nudi il flusso di calore della pietra esposta al sole e le sue diverse tessiture: tutto questo è alla portata di ognuno, appartiene alla preistoria e alla storia dell’umanità, eppure è anche una cosa che oggi è diventata rara nella vita di molti. Basta invece poco per re-imparare a camminare scalzi, e ritrovare una dimensione in cui si intrecciano la meccanica del piede umano, le connessioni benefiche con l’elettromagnetismo terrestre, l’arte di passare dal freddo al caldo che Kneipp elevò al rango di terapia, i milioni di stimoli sensoriali che si accendono nella mente, fino alla scoperta di aspetti più sottili, come l’invisibilità delle tracce e il silenzio che accompagna questo passo leggero, quasi felpato, che mai si impone ma sempre trova il suo personale e unico percorso.
Se vuoi puoi. Quello che sembrava impossibile, se lavori duramente non è più impossibile. È questa la visione. Come un esploratore la va a cercare, un musicista la canta, un pittore la dipinge, uno scrittore la mette in parole, così un corridore la corre.
Quarta di copertina
Ha conosciuto Michele Graglia in occasione della prima edizione della Ultra Milano-Sanremo, dove - ancora poco conosciuto nel mondo degli ultramaratoneti italiani - arrivò, sgominando alcune grandi firme dell'ultramaratona mondiale ed europea, inaspettatamente da vincitore alla prima edizione della ultracorsa su strada Milano-Sanremo, avviata nel 2014 sulla falsariga (stesso identico percorso) della classica di ciclismo su strada Milano-Sanremo, tenuta a battessimo nel 2014: un'impresa da giganti con i suoi oltre 280 km in tappa unica, con notevoli difficoltà altimetriche. E' arrivato da pochi mesi nelle librerie un volume in cui Michele Graglia racconta la sua storia e la sua avventura nel mondo dell'Ultra (Folco Terzani con Michele Graglia, Ultra. La libertà é oltre il limite, Sperling&Kupfer, 2017), con il confronto non solo tecnico ma anche amicale di Folco Terzani, nella veste di scrittore e giornalista, ma anche di appassionato della corsa e dunque pienamente titolato per comprendere appieno il lungo racconto di Michele. Del suo passato sportivo Michele tace: evidentemente, per lui le piccole imprese giovanili di atletica (per le quali era comunque dotato) e poi una veloce incursione nel mondo del Thriathlon non sono stati rilevanti dal punto di vista della sua "conversione" al Verbo dell'Ultra. Sì, perché di vera e propria conversione si è trattato, quando un bel d' nel bel mezzo della sua carriera "per caso" di modello fotografico di alto profilo, prima a Miami e successivamente a New York, Michele decise di cimentarsi nella sua prima impresa di ultra della sua vita. E sin da subito, come quando si aderisce ad una nuova fede a qualsiasi costo e con totale abnegazione, la sua scelta è stata immediatamente assoluta ed estrema, con un un tuffo istantaneo - e a capofitto - nelle esperienze di ultramaratone con elevatissimo coefficiente di difficoltà. Michele Graglia ha voluto subito inebriarsi delle difficoltà maggiori, sulla base di un'adesione assoluta e senza mezzi termine, senza aver prima costruito un'esperienza per gradualità successive: e ciò che viene sottolineato, ai fini del compimento di queste imprese estreme, è l'importanza della volontà e della determinazione, della Mente e del Cuore, come ingredienti essenziali ed ineliminabii, prima ancora della assoluta certezza nella propria capacità fisica. Sin da subito, ispirato da alcune delle imprese dell'eroe americano di Ultra Dean Karnazes, il suo obiettivo è stato quello di andare oltre il limite, addirittura di porsi dei limiti impensabili e, ragione con il raziocinio, assolutamente irraggiungibili. Nella filosofia di Graglia, quanto più distante è il limite da raggiungere e da conquistare, tanto maggiori sono la forza della motivazione e la spinta ad andare avanti: e tanto maggiore ovviamente è la possibilità di rimettere in forma la propria vita, indebolita dalla mancanza di un "vero" scopo. Capitolo dopo capitolo, con qualche intermezzo in cui Folco Terzani racconta dei suoi incontri con MIchele (è implicito, ma evidente, che tra i due sia scattata subito la molla di un amicizia forte), sentiamo il dipanarsi della storia di Michele, novello Saulo sulla via per Damasco: la pratica dell'Ultra diviene per lui una vera e propria religione della mente, in primo luogo. E siccome Michele scopre anche - strada facendo - di essere dotato e di potere ottenere buoni risultati - come nel caso dell'avvio della carriera di modello, quasi per caso - ha una spinta in più a perseverare e ad impegnarsi: le eventuali "cadute" e i fallimenti servono semmai a rinsaldare la motivazione. Ma i traguardi raggiunti sono per Michele - semmai - i punti di partenza per nuove e più ambiziose mete da conquistare (e prima ancora da sognare). Cosa rimane dopo aver fatto propri (e aver messo in archivio) alcune delle più impegnative gare Ultra su strada e trail? Forse, dice Michele, mettere in cantiere un giro del mondo a piedi (o di corsa), ma senza mettere a repentaglio la propria vita (principio che apprende egli stesso, strada facendo, in corpore vili). In questo libro ci sono dentro tante cose e tra le cose più specificatamente sportive spiccano i valori degli affetti familiari e quelli dell'amicizia: senza di questi, le imprese di Michele forse non sarebbero state possibili, poiché quasi sempre - qualche gara dopo il suo "lancio" - ha potuto contare sul supporto costante di un team di amici e familiari. Uno spazio particolare è dedicato - ovviamente - alla sua "creatura", l'Ultra Milano-Sanremo e alla sua vittoria.
(dal risguardo di copertina) Michele ha una folgorante carriera da modello a Miami e New York, macchine sempre più grandi, tanti soldi per pagarsi ogni capriccio, feste tutte le sere, una moglie bellissima. E bellissimo è anche lui, tanto che viene presentato a Madonna come «The Abs», gli addominali. Però, una sera, si trova sul davanzale del suo appartamento al quindicesimo piano a chiedersi che farsene di tutto quel lusso e degli eccessi. Se non è quella la sua strada, allora qual è? La risposta arriva come un colpo di fulmine, nascosta dentro un libro: l'ultramaratona. Nel giro di un anno diventa uno dei campioni più forti al mondo, ma vincere per lui non conta. L'ultra è una sfida con se stessi, non con gli altri: correre per centinaia di chilometri, in tutte le condizioni atmosferiche, tra i ghiacci del Canada o con cinquanta gradi nella Valle della Morte, spingendo il corpo e la mente oltre ogni limite immaginabile. Passo dopo passo, mentre le gambe cedono e i muscoli si disfano, nella solitudine di una corsa infinita, Michele vive gli opposti: la sua fragilità estrema di fronte alla natura e la forza della sua volontà, che si libra oltre la fisicità, per esplorare cosa c'è dopo la fatica e il dolore. In questo libro, Folco Terzani racconta la straordinaria storia di un ragazzo che aveva tutto ma non era niente, e nel ritorno all'atto primordiale della corsa ha trovato la sua libertà, il suo coraggio, il suo essere più puro. Perché alla fine l'ultra non è più uno sport: è un mezzo per arrivare alla natura e a se stessi.
Gli autori. Folco Terzani, figlio del famoso giornalista Tiziano Terzani, scomparso nel 2004, è nato a New York nel 1969 e ha vissuto la sua infanzia tra vari paesi, seguendo gli spostamenti del padre. Ha frequentato scuole in tutto il mondo, inclusa una scuola pubblica a Pechino. Si è laureato in Lettere Moderne a Cambridge e in Cinema a New York. Dopo un’esperienza di un anno alla casa dei morenti di Madre Teresa in Calcutta, ha girato il documentario "Il primo amore di Madre Teresa". Affascinato dall’Asia, ha anche girato un film sui Sadhu dell’Himalaya. Nel 2006 ha curato "La fine è il mio inizio. Un padre racconta al figlio il grande viaggio della vita" (Longanesi), il libro postumo di Tiziano Terzani, che, sapendo di essere arrivato alla fine del suo percorso, parla al figlio Folco di cos'è stata la sua vita e di cos'è la vita. Proprio a partire da queste conversazioni ha in seguito curato la sceneggiatura dell'omonimo film. Nel 2011 ha pubblicato A piedi nudi sulla terra (Mondadori) e nel 2016 La santa. Accanto a Madre Teresa, in collaborazione con Mario Bertini. Di recente uscita, il volume "Il Cane, il Lupo e Dio" (Longanesi, 2017). Michele Graglia (Sanremo 1983) è uno dei più forti ultramaratoneti a livello mondiale. E ciò è indiscutibile anche se sino a questo momento non è mai stati selezionato per far parte di una rappresentativa italiana ai campionati del mondo di ultramaratona (100 km, 24 h) e di ultratrail. Ha iniziato la sua carriera come fotomodello a Miami e successivamente a New York per i maggiori brand internazionale. Una carriera iniziata per caso, poichè si trovava in Florida per tutt'altri motivi. Da un certo momento in poi, ha iniziato a dedicarsi alle corse sulle lunghissime distanze. Dal 2011 ha intrapreso con successo alcune delle gare più estreme di ultramaratona ed ultratrail, prima negli Stati Uniti e poi in molti altri paesi del pianeta. Ritornato in Italia ha dato vita alla Ultra Milano-Sanremo, sullo stesso percorso della classica ciclistica Milano-Sanremo e ha trionfato nella prima edizione che ha avuto luogo nel 2014.
( Maurizio Crispi ) La prima edizione della UltraMilano-Sanremo sulla distanza di 282 km in tappa unica sul solco della storica Granfondo Ciclistica, che - essendo iniziata nel 1907 - si celebra ...
Sembra quasi una fiaba la vita di Michele Graglia. Arrivato in America per cercare nuovi clienti per l’azienda di famiglia, si ritrova, grazie ad un incontro casuale, catapultato nel mondo dell’alta moda. Da quel momento in poi, Michele vive la vita che molti vorrebbero. Poco lavoro, moltissimi soldi, feste esclusive con personaggi importanti, macchine di lusso e appartamenti con vista mozzafiato nelle più belle città d’America. Ma c’è qualcosa, in tutto quel mondo scintillante e favoloso, che Michele sente di non avere e di non poter comprare. Qualcosa che gli sfugge. Come se, circondato da così tante cose, da così tante persone, non ci fosse un senso nella sua vita e in quella di chi, come lui, vive in quella “gabbia dorata” che molti invidiano. Questo pensiero, nato dopo una serie di esperienze assai “forti”, lo porterà a guardare la sua bella vita dorata sotto un’altra luce e a cercare un nuovo senso per la propria vita. Sarà in una piccola libreria di New York che Michele conoscerà il mondo delle Ultramaratone, gare estreme in cui i partecipanti devono andare oltre i propri limiti. Ed è entrando in questo mondo che Michele avrà modo di incontrare Folco Terzani. Dopo un iniziale diffidenza i due stringeranno una fortissima amicizia che li porterà a condividere l’esperienza e il mondo delle Ultramaratone. “Però conoscendolo bene non sta bene quel poveraccio. Che poveraccio non lo è, perché ha più soldi di quello che possiamo immaginare. Ma la mattina si alza e non ha ancora trovato quello che lo rende felice nella vita, perché chiaramente nonostante i miliardi di shopping tutti i giorni e il jet privato e il motoscooter e le donne e gli uomini che si può comprare non ha raggiunto quello che realmente conta. Ma allora? Ma allora? Gente che nella vita non fa nulla, ma nulla nulla. Non deve neanche lavorare perché ha talmente tanti soldi che è libera quanto le pare. Per generazioni! Quindi può fare tutto quello che vuole, ma non trova un senso nella vita. Perché alla fine ti alzi al mattino e ti chiedi “chi sono io? Cosa faccio nella vita? Compro cose?”. Lui era in depressione totale, alcolizzato, sempre fatto di Xanax e di chissà quali altre pastiglie, perché non riusciva a sopportarsi. Quella visione mi ha toccato tanto in quel momento. Solo, senza più un obiettivo. Perdi il senso. E se non hai il senso puoi avere tutto quello che vuoi, ma non ti sentirai mai appagato come persona. Questo è quello che mi ha fatto capire quell’angelo biondo. Poveraccio.”(pag.47). Sono rimasto profondamente colpito dalla storia di Michele Graglia, un modello che aveva tutto quello che poteva desiderare nella vita e che decide, dopo un lungo e sofferto percorso, di gettare la propria carriera per non scendere a compromessi, per non arrendersi e trovare il proprio posto nel mondo, la propria identità, il proprio scopo nella vita. In questo libro scritto a quattro mani da due autori eccezionali, Terzani e Graglia, mi sono ritrovato a leggere non solo lo straordinario percorso di vita di Michele, un percorso tormentato fatto di successi e sconfitte, ma anche la continua e instancabile ricerca di identità in un mondo sempre più fasullo e artefatto. Un libro, a mio parare importante, che invita il proprio lettore a porsi delle domande che qualcuno reputerebbe “scomode” o “difficili” come solo il cercare di capire chi si è davvero può essere. Un libro che, personalmente, mi sento di consigliare vivamente a chiunque sia in cerca di qualcosa di straordinario (Recensione di Gabriele Scandolaro)
Si è svolta nel mese di agosto 2013 (tra il 17-18 adel mese) la famosa Leadville Trail 100 Mile Run (iniziata nel lontano 1983 da un'idea dell'ex-maratoneta Kenneth Chlouber) o semplicemente nota ...
Michele Graglia ha conquistato l'Ultratrail della Maddalena (UTM), andato in scena il 28 giugno 2015, davanti a Pablo Barnes. In campo femminile volata solitaria di Cecilia Polci, seguita da Maria ...
( Matteo Simone ) Michele Graglia non è uno dei tanti ultramaratoneti che ho intervistato, ma uno dei più resistenti e più resilienti per l'impegno, la determinazione, la passione nel dedicarsi ...
In Omicidio al Giro (Edizioni e/o, Collana Originals, 2015) si sviluppa la più recente indagine (nell'ordine cronologico della serie) del Commissario Igor Attila, assegnato da sempre alla speciale sezione della Polizia che indaga sui i crimini sportivi. Igor Attila è la creatura di Paolo Foschi che,diplomato in Scienze Motorie e giornalista per necessità, ha trasposto la sua originaria passione sportiva in questo serial narrativo che scandaglia i multiformi aspetti del mondo sportivo. Le indagini di Igor Attila si sviluppano sequenzialmente, mentre la sua vita e quella del manipolo di subordinati che lavora nella sua squadra si evolve. Igor Attila, anche in questa avventura, è alle prese con i fantasmi del suo passato sportivo, che lo portano a detestare tutti gli inciuci e le combine degli incontri sportivi (di cui lui stesso è stato vittima in occasione delle Olimpiadi di Seul in cui venne messo fuori gioco da una trama losca, affinché fosse il pugile coreano - suo diretto avversario - a vincere l'Oro). Nello stesso tempo, si evolve la sua vita privata, in mezzo a conflitti e a tempeste, con la relazione con l'amico Titta, sempre traballante e sull'orlo della debacle. Alla morte - apparentemente accidentale - del campione di ciclismo Paolo Fallai, favorito del Giro il cui start è imminente, Igor Attila, parte lancia in resta, deciso a condurre la sua indagine malgrado i tentativi di insabbiamento proveniente da alto loco. E, mettendo a rischio, la sua carriera e quella dei suoi colleghi, mantiene la sua linea, finché la verità non verrà a galla: una verità complessa e sfaccettata, in ogni caso: è il momento della verità sarà esattamente alla conclusione della prima tappa del Giro d'Italia, in cui il defunto Paolo Fallai è il grande assente. Ottimo intreccio, ritmo incalzante e, tra le righe, una denuncia forte della corruzione che regna nel mondo del ciclismo e che finisce con l'avvelenare con l'ombra del sospetto anche i campioni puliti, inquinando anche le migliori intenzioni.
(dalla quarta di copertina) Alla vigilia del Giro d'Italia il favorito, Paolo Fallai, muore in un misterioso incidente stradale mentre si allena sulle strade alla periferia di Roma. L'inchiesta viene affidata alla Sezione crimini sportivi guidata da Igor Attila, con l'esplicito invito a chiudere in fretta il caso, senza alzare un polverone. Il commissario-pugile, fra diversi colpi di scena, si getta invece a capofitto nelle indagini, determinato a scoprire la verità, come sempre affiancato dall'odiosa vice Chiara Merlo e dagli altri uomini della Squadra. Sotto torchio finisce subito il principale rivale di Fallai, il corridore Claudio Mele, mentre l'allenatore Sandro Fioravanti, distrutto dalla morte del ciclista, sembra comunque nascondere un segreto. Fra prove scomparse, misteriosi viaggi dei protagonisti in Calabria e in Turchia, sospetti di doping e parallelismi con il dramma umano di Marco Pantani, l'inchiesta sembra arenarsi. Intanto Igor Attila vive l'ennesima crisi personale con il suo compagno Titta, che lo mette di fronte a un aut aut senza (apparente) via d'uscita, mentre Chiara Merlo si ritrova al centro di un triangolo amoroso che rischia di interferire con le indagini.
E proprio quando il commissario si prepara a gettare la spugna, l'inchiesta riparte su una nuova pista, grazie a un'intuizione casuale che porterà all'imprevedibile soluzione del caso proprio all'arrivo della prima tappa del Giro d'Italia, a Sanremo.
L'Autore. Paolo Foschi, nato a Roma nel 1967, è diplomato in educazione fisica. Musicista per passione, ma giornalista per necessità, è redattore al Corriere della Sera, dove si occupa di economia e politica. Ha lavorato all’Unità, al gruppo Espresso e in Mondadori. Per E/O Edizioni ha pubblicato: Delitto alle Olimpiadi (2012), Il castigo di Attila (2012), Il killer delle maratone (2013), Vendetta ai Mondiali (2014).
( Maurizio Crispi ) Un paio di mesi fa ho scoperto casualmente in libreria il volume con la terza indagine del Commissario Igor Attila ( Paolo Foschi , Il Killer delle Maratone , 2013), l'ho letto ...
(Maurizio Crispi) Il Killer delle Maratone é un giallo scritto da un giornalista italiano, alla sua terza opera che ha come protagonista il commissario di polizia Igor Attila, ex-pugile olimpionico
Per l’editore Altreconomia è uscito recentemente (2017) il volume “L’Italia selvaggia. Guida alla scoperta di luoghi incontaminati per tutti i piedi” scritto da Elisa Nicoli scrittrice, giornalista, documentarista nel filone dei suoi interessi per l'ambiente. Si tratta di un libro piccolo, ma denso di proposte. La prefazione è di Franco Michieli, l’esploratore che collabora da anni con la Compagnia dei Cammini. Esistono ancora in questa Italia cementificata luoghi selvaggi, dove la natura signoreggia e la presenza umana è rarefatta? Sono pochi, ed Elisa vi propone di conoscerli camminandoci dentro. La dichiarazione di intenti è chiara: «Questo libro è alla portata di tutti, anche di chi è alle prime armi con l’escursionismo e non ha esperienza di selvatico. Se invece siete degli esploratori “patentati”, forse questo libro non fa per voi. In altre parole, non ce la sentiamo di mandare i nostri lettori allo sbaraglio, su tracce di sentieri che si perdono. Questo libro vuole essere un’iniziazione al selvaggio, uno sfiorarlo, un intravederlo, a volte un anelarlo, raggiungendolo solo in pochi momenti…». Alle giuste e necessarie indicazioni preliminari seguono 14 schede di luoghi selvaggi. Si comincia con la famosa Val Grande. Di ogni luogo Elisa intervista uno specialista del luogo, guide, scrittori, guardiaparco, persone che vivono lì. A seguire, l’autrice elenca i buoni motivi per visitare quell’area, gli itinerari da fare a piedi, consigliando anche posti tappa, libri e mappe. Un libro da possedere e da consultare come vero e proprio Baedeker se si ha voglia di esplorare a piedi oasi ancora incontaminate del territorio italiano, molte delle quali sono state già da molti anni oggetto di trekking organizzati da "La Compagnia dei Cammini".
(dalle soglie del testo) Da Nord a Sud le aree selvagge sono anche la Val Codera, i Lagorai, la Valtramontina, poi negli Appennini la Valle dello Scesta, in Abruzzo la Cicerana e i Monti della Meta, poi più a sud l’Orsomarso, l’Aspomonte, in Sicilia Cava d’Ispica e in Sardegna il Supramonte. (risguardo di copertina) Lo spirito con cui avvicinarsi ai luoghi selvaggi, lo zaino perfetto, la preparazione fisica e tutte le cose che è bene sapere prima di partire. 14 aree selvagge dal Nord al Sud dell'Italia, isole comprese: Val Grande, Valle Cervo, Val Coderà, Val di Vesta, Lagorai, Valtramontina, Fosso del Capanno, Valle dello Scesta, Cicerana, Monti della Meta-Mainarde, Aspromonte, Orsomarso, Cava d'Ispica, Supramonte. Gli itinerari più belli, la natura da scoprire e i consigli del genius loci, il "custode" del territorio. Un vasto repertorio, con decine di percorsi nella wilderness, dalle Alpi agli Appennini, dai grandi Parchi alle piccole oasi segrete. Infine, i focus su wild swimming e fiumi, canyon e gole, foreste ataviche, coste e dune solitarie, paesi fantasma.
Elisa Nicoli é scrittrice e documentarista, insegna in giro per l'Italia a fare sapone, detersivi e cosmetici. E' "autoproduttrice" e camminatrice per passione.
Da anni si occupa di tematiche ambientali, attraverso diversi media.
Nata a Bolzano, ha studiato Scienze della Comunicazione a Padova ed è tornato nella sua natìa Bolzano, dopo aver vissuto per un anno a Lione e due anni a Roma.
Ha finora scritto cinque libri, per diverse case editrici e realizzato diversi documentari.
Per dettagli e contatti leggete il sito www.elisanicoli.it e per saperne di più sull'autoproduzione www.autoproduco.it.
Emanuela Pagan) Nel racconto di Jeremy Jackson (Più veloce dei ricordi, Giunti - collana Waves - 2017) traspare un modo completamente diverso di vivere la corsa.
Per Kevin correre non è un piacere, vincere o battere dei record non gli porta alcuna soddisfazione, è un’azione catartica utile a non fargli sentire il dolore, mentre la paura lo rende veloce.
“La sensazione della velocità è come sfuggire momentaneamente alle grinfie della mortalità … la velocità deforma la tua relazione con il mondo … la destinazione diventa confusa e irrilevante, e non è più chiaro se tu stia correndo verso qualcosa, o fuggendo da qualcosa, o entrambe le cose, o nessuna delle due”.
Kevin è un adolescente che ha perso quasi tutta la sua classe in un incidente stradale dopo una gara di atletica. Ha incubi ricorrenti in cui è insieme a loro, vorrebbe salvarli, ma non ci riesce e si sveglia salvo, mentre tutti i suoi compagni sono morti.
La notte non gli porta riposo, solo angosce che nasconde nei passi ritmati della sua corsa, perché Kevin è un talento naturale: per lui correre è un’azione facile che non comporta fatica.
Diventa il nuovo simbolo della città, ma lui resta nel suo mondo fatto di strade da percorrere con le sue scarpe, immerso in un silenzio pacificatore.
Il libro di Jeremy Jackson descrive una visione della corsa non centrata su obiettivi, avversari o tempi da battere, ma interiore e pacificatrice.
E' una lettura che può condurre il podista a una riflessione più intima sulla motivazione di ogni suo passo di corsa.
L'autore. Jeremy Jackson è un autore americano. Life at these speeds (titolo originale dell’opera) è la sua prima storia. L’idea gli è venuta nel dicembre del 1994 mentre studiava nella biblioteca del suo college. Il libroè stato segnalato da Barnes&Noble nell’ambito del Discover Great New Writers Program e da Booklist come Editor’s Choice e ne è stato tratto il film: 1 Mile to you, regia di Leif Tilden con attori del calibro di Tim Roth e Bill Crudup, è uscito nel 2017.
(dal risguardo di copertina) Kevin è un giovane corridore promettente ma senza troppa convinzione. Tutto cambia quando una notte, dopo una gara, il pulmino che riporta a casa i compagni di squadra, la fidanzata, l'allenatore, finisce tragicamente in un fiume. Solo Kevin si salverà, perché quella notte stava tornando a casa in auto con i genitori. Nei mesi successivi la corsa diventa la sua vita: mentre corre si sente avvolto da un silenzio che attutisce il dolore. In pochi anni comincerà ad accumulare record su record, diverrà una promessa nazionale, idolo del pubblico, ma non tutti si lasciano abbagliare dal suo successo. Gregory, il nuovo allenatore, gli lancia una domanda scomoda: "Per chi vinci? Lo fai per te?". E poi c'è Henny, la compagna di corse che adora i temporali estivi e con la sua sincerità priva di compromessi sa bucare la scorza di Kevin. Grazie anche a loro Kevin imparerà di nuovo a entrare in contatto con le proprie emozioni, a recuperare i ricordi del passato per poterne creare di nuovi nel presente, a vivere combattendo per quello che realmente vuole e non solo per quello che gli altri si aspettano da lui.
Pubblichiamo qui - per completezza - la recensione al secondo tomo (indivisibile) dell'opera a due mani scritta da Pino Clemente e da Gino Pantaleone, dal titolo Ars Sana in Mente Insana (Medinova (2017). Il primo tomo, già recensito in questo magazine da maurizio trattava il tema della "droga nell'arte" ed era ricco anche di riferimenti che possono sollecitare direttamente l'interesse dei runner (e in particolare di quelli "ultra"). Questo secondo tomo, recensito da Cettina Vivirito, sviluppa invece in tema della "follia nell'arte" e pur presentando meno agganci diretti alla pratica dello sport di endurance, chiude tuttavia il cerchio di quanto raccontato nel primo tomo e rappresenta sicuramente un arricchimento culturale per chi pratica lo sport. In fondo, la pratica sportiva non è solo movimento o fisicità: ad essa si richiede sempre un approccio compl esso, in cui l'aspetto mentale é dominante. E appunto per questo - anche per evitare un'eccessiva specializzazione ed un restringimento cognitivo è un bene tenere la mente aperta e permeabile a stimoli di tipo diverso. E, quindi, proprio per questo motivo abbiamo deciso di dare ampio spazio anche al volume "La Follia nell'Arte" (arricchito dalla prefazione di Aldo Gerbino e da un contributo di Alessia Misiti), certi del fatto che si possa rendere un buon servizio a chi corre anche fornendogli spunti di riflessioni in campi diversi. E poi si potrebbe anche dire che chi corre sulle lunghissime distanze e affronta imprese epiche ed incredibile possiede sicuramente dentro di sé una "corda pazza" ed con essa ha una certa dimestichezza. E dunque, anche tema trattato da Gino Pantaleone può essere pertinente. Ecco di seguito la recensione di Cettina Vivirito.
“I pazzi osano dove gli angeli temono di andare”, ovvero, della follia nell'arte
Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit
(Nessun grande ingegno fu mai senza una mistura di follia)
(L. A. Seneca, De tranquillitate animi)
Impazzire è la cosa più intelligente che avessi mai fatto
(Alberto Fragomeni)
(Cettina Vivirito) "Ho approfondito e non poco le vicende di queste vite “al limite” e la mia prima sensazione, e lo dico con il cuore tra le mani, è quella di aver provato tanta tenerezza che, essendo quella d'istinto, la reputo vera, autentica".
Questa emotiva riflessione contiene in sé tutto il senso, profondamente umano, del saggio breve e intenso di Gino Pantaleone, La follia nell'arte, autore, insieme a Pino Clemente di un opera in due tomi: “Ars sana in mente insana” dove i due autori analizzano e ripercorrono, approfondendo l'argomento attraverso esperienze personali, due temi speculari sull'arte, quello della droga e quello della follia, stati di alterazione dai confini indeterminati, spesso incomprensibili ma stupefacenti, nei risultati artistici. Il “racconto” di Gino Pantaleone, semplice e commosso parte da un anfratto recondito del suo cuore, un'indelebile ricordo d'infanzia:
"I miei nonni abitavano nelle case popolari di via Giuseppe Pitrè a Palermo alle cui spalle c'erano degli slarghi dove noi ragazzini spesso ci organizzavamo per giocare a pallone. (…) Questi campetti di calcio improvvisati erano da un lato delimitati da un muro altissimo che divideva la zona nostra, quella dei ragazzini, da quello che una volta era il manicomio della città, la ex Real Casa dei Matti. La paura più grande, ricordo, per noi, era quella che nella foga, un calcio più forte degli altri potesse far andare la palla al di là del muro, (…) Il vero problema era che fine avrebbe fatto quella palla avendoci i grandi inculcato nella nostra mente che dall'altra parte c'erano i pazzi, sorta di mostri fuori di testa pronti a qualsiasi cosa anche a uccidere, in particolar modo i bambini".
Ecco come fin dall'inizio la lettura di questa “storia della follia”, che attraversa come un brivido lungo la schiena tutta la storia dell'arte e con essa s'interseca inestricabilmente, viaggio che Pantaleone intraprende probabilmente per meglio comprendere ed esorcizzare quella sua antica paura, riporta alla mente altre letture di altri siciliani che si sono confrontati con la stessa paura e che il genio (follia?) letterario condusse a scrivere capolavori rimasti impressi nella mente di molti, come il monologo del pazzo contenuto nell'Enrico IV di Pirandello:
"Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo, e quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri ed ero beato! Perché, guai se non vi tenete più forte ciò che vi par vero oggi da ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l'opposto di ciò che vi pareva vero ieri.. Guai! se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile (…) che se siete accanto a un altro e gli guardate gli occhi, come io guardavo un giorno certi occhi, potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra non sarete mai voi, col vostro mondo dentro come lo vedete e lo toccate, ma uno ignoto a voi come quell'altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca".
Erano gli anni sessanta e l'idea di matto era molto simile a quella che Gino Pantaleone fece propria da bambino: le storie che venivano narrate a tal proposito erano davvero paurose e leggendarie. La Real Casa dei Matti, l'ospizio per alienati fondato dal barone Pisani nel 1824 che tanta paura destava nei palermitani dell'epoca, colpì di grande stupore anche un uomo di lettere come Alexandre Dumas che viveva a Parigi, dove operavano i teorici di quel “trattamento morale” della pazzia a cui l'esperimento del barone Pisani è ascrivibile. La diade genio/follia è diventata uno stereotipo, sanzionato anche dal punto di vista drammaturgico, nel 1836, quando lo stesso Dumas scrisse l'opera “Kean ou désordre et génie”. Ciò che colpiva Dumas, come molto dopo e molti altri dopo di lui, del manicomio palermitano, era quel tanto di eccessivo, di monstre, di orrido siciliano che ha accompagnato in tutta Europa la fama di questo luogo. Quest'eccessività, quest'estremismo è la chiave per collocare nella storia della medicina la “magnifica istituzione”, un miscuglio di antiche credenze e intuizioni precorritrici, di aristocratico paternalismo settecentesco e istanze sociali, di empiria antiscientifica e valori d'umanità, di eccentricità estetizzanti e risultati terapeutici.
L'essere una delle cose di Sicilia la ravvolse poi di leggenda, di “folie palagonienne” (come fu detta da un viaggiatore giornalista l'operosa mania che talvolta rapiva i siciliani e di cui sarebbero indizi la Villa dei Mostri del Palagonia, il monastero di cera del principe di Butera, il cimitero dei Cappuccini e l'illustre ospizio del barone Pisani). Ancora oggi l'inaccettabile paradosso sani fuori e matti all'interno di quei cancelli è plasticamente rappresentato da due enormi orologi posti nella facciata della già Real Casa dei Matti, significativamente dedicati uno ai "saggi" ed uno, solare, ai "folli": come se il tempo scorresse a due marce diverse a seconda della condizione mentale degli individui. Dopo la legge Basaglia, quei luoghi di tristezza e dolore hanno subito rifacimenti e restauri ed il manicomio è stato trasformato oltre che in un interessante spazio museale di archeologia industriale (fondato dall'ingegnere Domenico Muzio), in sede di uffici ed ambulatori di un'azienda sanitaria, per curare davvero la gente.
Nella storia dell'arte, anche prima dei casi clamorosi di Van Gogh e di Ligabue, autodidatti geniali e assolutamente straordinari, molti sono gli artisti la cui mente è attraversata dal turbamento, che si esprimono in una lingua visionaria e allucinata. Ognuno di loro ha una storia, una dimensione che non si misura con la realtà, ma con il sogno.
Controcanto ne è il Museo della Follia di Catania, repertorio degli artisti pazzi di Sicilia, più che altro dei disperati, degli abbandonati, dove le collezioni che sono inglobate nell'allestimento rappresentano in una luce nuova, in modo razionale e ordinato l'esistenza di un'umanità travolta dagli obblighi e dalle regole che hanno determinato alcune forme di “follia” o meglio, di “disobbedienza”: questi artisti/individui si rifiutarono di fare ciò che il mondo impose loro- dicotomia pirandelliana tra vita e forma; si chiusero probabilmente in una forma che procurò un senso alla propria vita, vita che rifiutò carriere e divise: il matto non ha un abito, non vuole fare carriera, non vuole essere iscritto a un'anagrafe, non si accomoda ad accettare la dipendenza.
Così come Goya il quale nel riscoprire le grandi immagini della follia, evoca una nuova follia, quella dell’uomo gettato nella sua notte: le sue forme nascono dal nulla, sono senza sfondo perché nulla può definire la loro origine e il loro termine, nuova visione ripresa da Hieronymus Bosch nel “Sant’Antonio” dove è evidente il richiamo contraddittorio della natura presente in Goya. È la loro una follia dietro la maschera che morde i volti senza occhi né bocche, sguardi che vengono dal nulla e si fissano nel nulla, fine e inizio per l’uomo, e per il mondo. Questa follia che unisce e separa il tempo, che trasmette le parole della follia classica diede loro diritto e cittadinanza nella cultura occidentale, come fecero notare Nietzsche e Artaud.
Anche la calma e il paziente linguaggio di Sade raccolgono le ultime parole della follia e danno loro un senso per l’avvenire. Nel castello in cui si rinchiude l’eroe di Sade, nelle foreste e nei conventi, l’uomo ritrova una verità dimenticata e cioè quella che nessun desiderio può essere contro natura se è vero che è stato messo dalla stessa natura nell’uomo e dunque, la follia del desiderio, le passioni più sragionevoli diventano al contrario saggezza e ragione perché appartengono all’ordine stesso della natura: niente di ciò che la follia sembra inventare non è già natura manifesta. Così la follia di Torquato Tasso, la malinconia di Swift, il delirio di Rousseau appartengono sia alla loro vita che alle loro opere: parla la verità. Verità contenuta nella follia del grido dionisiaco di Nietzsche, in quella di Artaud. La follia così diventa non lo spazio d’indecisione in cui si rischiava di far trasparire la verità, ma la verità che sovrasta la storia. Con la meditazione sulla follia, è il mondo a diventare colpevole nei riguardi dell’opera. Caso emblematico e violentemente dichiarato è proprio quello di Artaud che studiò con sofferenza il caso di Van Gogh il quale a Auvers-sur-Oise produsse in due soli mesi, 32 disegni e 70 quadri, prima di suicidarsi con una revolverata all’età di 37 anni. Secondo Artaud, il pittore "non si è suicidato in un impeto di pazzia, nel panico di non farcela, ma invece ce l’aveva appena fatta e aveva scoperto cos’era e chi era, quando la conoscenza generale della società, per punirlo di essersi strappato ad essa, lo suicidò".
Se la patologia mentale, comunque si manifesti, è il risultato di una mancanza di adattamento dell’individuo all’ambiente, il risultato artistico diventa scudo protettivo, tentativo estremo di colmare la distanza da un Dio lontano ed indifferente, da una verità apparentemente irraggiungibile e insieme riconoscimento di tale irraggiungibilità.
L’idea secondo cui la verità sarebbe universale, eterna, che vi sia verità ovunque e sempre, e che dappertutto attorno a noi la verità incomba, ci attenda, sia presente in silenzio, passiva e addormentata aspettando il momento in cui getteremo lo sguardo su di essa e infine la risveglieremo, l’idea che la verità e l’universale coincidano, come ha mirabilmente sostenuto un grande storico come Foucalt, ha avuto corso lungo l’intera storia di quello che potremmo chiamare il nostro imperialismo culturale.
Se consideriamo la trama, la fibra della nostra società, della nostra civiltà, delle nostre istituzioni, ci accorgiamo che in fondo abbiamo sempre, anche in uno stadio avanzato, delle tecniche, dei rituali, delle istituzioni che hanno la funzione di determinare, di isolare momenti specifici o luoghi differenziati a partire dai quali la verità potrebbe infine rifulgere: come se, alla fin fine, la verità non fosse propria di ogni luogo, né di ogni tempo, ma dovessero esserci luoghi in cui la verità esplode e appare, momenti in cui la verità può essere colta, momenti in cui viene alla luce.
Esiste infatti tutta una geografia culturale della verità, ed esiste nelle nostre società una geografia delle sedi profetiche. I filosofi greci si chiedevano perché, appunto, si ritenesse che la verità dovesse parlare a Delfi; la cella del monaco, l’isolamento monastico, costituivano a loro volta una modalità di predisporre un determinato luogo geografico in cui la verità avrebbe potuto prodursi. Ancora oggi noi abbiamo, nelle chiese e nelle università, dei luoghi che chiamiamo “cattedre”, da cui si suppone che la verità parli.
Sarà la nozione di normalità, di comportamento normale, a costituire il correlato teorico della pratica dell’internamento. La follia sarà definita all’inizio del xix secolo non come giudizio perturbato ma come disturbo nel modo d’agire, nel modo di volere, nel modo di avere passioni, di provare sentimenti, nel modo di prendere decisioni, e così via: la follia cesserà di iscriversi lungo il grande asse verità-errore-coscienza, per iscriversi lungo un asse completamente diverso: quello passione-volontà-libertà. “Ci sono sicuramente degli alienati il cui delirio è appena visibile”, dice Esquirol, “ma non c’è alcun alienato le cui passioni, le cui affezioni morali non siano disordinate, pervertite o annientate. L’attenuazione del delirio non è dunque una guarigione certa se non quando gli alienati ritornano alle loro destinazioni normali”. E allora, in queste condizioni, se è vero che la follia è essenzialmente lo sconvolgimento dell’asse o dei due poli: passione-azione/libertà-volontà, quale sarà il processo di guarigione? Il ritorno alla verità? Niente affatto. Piuttosto un altro tipo di ritorno, e ancora scrive Esquirol: “Il ritorno alle destinazioni normali nei loro giusti limiti”. Il desiderio di rivedere gli amici, di rivedere i propri figli, le lacrime della sensibilità, il bisogno di aprire il proprio cuore, di ritrovarsi in mezzo alla propria famiglia, di riprendere le proprie abitudini., ecco, secondo Esquirol, cosa caratterizza davvero la guarigione.
Ciò che potrà permettere questo ritorno alla norma, al modo normale di agire e di sentire sarà proprio l’ospedale, inteso non come luogo di osservazione, ma piuttosto come luogo di affrontamento tra, da una parte, la passione e la volontà perturbate del malato e, dall’altra, la passione e la volontà ortodossa del medico e del personale ospedaliero. Come sosteneva Basaglia, autore della legge che pose fine alle istituzioni manicomiali: "La caratteristica fondamentale di queste istituzioni: fabbrica, ospedale, scuola, manicomio, è una separazione netta tra coloro che hanno il potere e coloro che non ce l’hanno".
Tutte le grandi riforme del pensiero psichiatrico sorto attorno al problema del rapporto di potere, tutte le grandi crisi, tutti i grandi dibattiti sono altrettanti tentativi per spostare, per smascherare, per disarmare questo rapporto di potere. Cosa che implica un lavoro politico: un lavoro di lotta e di azione politica che cerca di sciogliere tutti i rapporti di potere che tramano, che intessono la nostra esistenza.
Il caso più emblematico a sostegno di questa tesi è forse quello della poetessa Alda Merini, per la sua immensa lucidità poetica: Ho conosciuto Gerico,/ho avuto anch'io la mia Palestina,/ le mura del manicomio/ erano le mura di Gerico /e una pozza di acqua infettata/ci ha battezzati tutti./ Lì dentro eravamo ebrei/ e i Farisei erano in alto/e c'era anche il Messia/confuso dentro la folla: /un pazzo che urlava al Cielo/tutto il suo amore in Dio./ Noi tutti, branco di asceti/eravamo come gli uccelli/e ogni tanto una rete/oscura ci imprigionava (…)/Fummo lavati e sepolti,/odoravamo di incenso./ E, dopo, quando amavamo,/ci facevano gli elettrochoc/perché, dicevano, un pazzo/non può amare nessuno. (...).
Il mistero continua, scrive Gino Pantaleone in chiusura: "Ancora oggi non abbiamo certezze scientifiche se genio può significare essere necessariamente folli o se essere folli può significare essere necessariamente geniali. Restano solo queste vite tormentate di tanti intellettuali e artisti che furono devastate da patologie crudeli, che furono ingabbiati dentro bianche e sporche camicie di forza, che subirono passivi terapie cruente quali l'elettroshock e abitarono e, a volte, terminarono anche le loro esistenze in miserabili, tetre e putride celle di oscuri ghetti chiamati manicomi".
Brevi notizie sull'Autore. Gino Pantaleone é poeta e scrittore palermitano. Ha pubblicato tre raccolte di poesie: “Urla di dentro” - 1996, “Io così, se volete” - 1997 e “Il vento occidentale” – 2007. Per essere stato premiato in diversi concorsi letterari, l’Accademia Costantiniana gli conferisce la nomina di Socio Accademico “in riconoscimento dei servigi resi alla cultura”. Alcune delle sue poesie tradotte sono diventate testi di musica raccolte in un cd dal titolo “Simple”. Nel 2013 gli è stato conferito il Premio Internazionale della Cultura “Salvator Gotta” per la saggistica biografica per il libro “Non dobbiamo aver paura” (2012), per “aver squarciato il silenzio sull’opera di Michele Pantaleone”. Nel 2014, l’I.S.S.P.E (l’Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici) e il G.R.E. (Gruppo di Ricerca Ecologica) gli hanno assegnato il “Premio Gaia 2014”, per la divulgazione della Cultura alla Legalità per il libro “Il Gigante Controvento”. Nel 2016 e viene premiato al Premio “Piersanti Mattarella”. Nel novembre 2016 pubblica il saggio “Servi disobbedienti”.
Mi chiamo Maurizio Crispi. Sono un runner con oltre 200 tra maratone e ultra: ancora praticante per leisure, non gareggio più. Da giornalista pubblicista, oltre ad alimentare questa pagina collaboro anche con altre testate non solo sportive.
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Il perchè di questo titolo
Perchè ho dato alla mia pagina questo titolo?
Volevo mettere assieme deio temi diversi eppure affini: prioritariamente le
ultramaratone (l'interesse per le quali porta con sè ad un interesse altrettanto grande per imprese di endurance di altro tipo, riguardanti per esempio il nuoto o le camminate prolungate), in
secondo luogo le maratone.
Ma poi ho pensato che non si poteva prescindere dal dare altri riferimenti come il
podismo su altre distanze, il trail e l'ultratrail, ma anche a tutto ciò che fa da "alone" allo sport agonistico e che lo sostanzia: cioè, ho sentito l'esigenza di dare spazio a tutto ciò che fa
parte di un approccio soft alle pratiche sportive di lunga durata, facendoci rientrare anche il camminare lento e la pratica della bici sostenibile. Secondo me, non c'è possibilità di uno sport
agonistico che esprima grandi campioni, se non c'è a fare da contorno una pratica delle sue diverse forme diffusa e sostenibile.
Nei "dintorni" della mia testata c'è dunque un po' di tutto questo: insomma, tutto
il resto.
L'idea motrice di questo nuovo web site è scaturita da una pagina Facebook che ho
creato, con titolo simile ("Ultramaratone, maratone e dintorni"), avviata
dall'ottobre 2010, con il proposito di dare spazio e visibilità ad una serie di materiali sul podismo agonistico e non, ma anche su altri sport, che mi pervenivano dalle fonti più disparate
e nello stesso tempo per avere un "contenitore" per i numerosi servizi fotografici che mi capitava di realizzare.
La pagina ha avuto un notevole successo, essendo di accesso libero per tutti: dalla data di creazione ad oggi,
sono stati più di 64.000 i contatti e le visite.
L'unico limite di quella pagina era nel fatto che i suoi contenuti non vengono indicizzati su Google e in altri
motori di ricerca e che, di conseguenza, non risultava agevole la ricerca degli articoli sinora pubblicati (circa 340 alla data - metà aprile 2011 circa - in cui ho dato vita a Ultrasport
Maratone e dintorni).
Ho tuttavia lasciato attiva la pagina FB come contenitore dei link degli articoli pubblicati su questa pagina
web e come luogo in cui continuerò ad aprire le gallerie fotografiche relative agli eventi sportivi - non solo podistici - che mi trovo a seguire.
L'idea, in ogni caso, è quella di dare massimo spazio e visibilità non solo ad eventi di sport agonistico ma
anche a quelli di sport "sostenibile" e non competitivo...