(Cettina Vivirito) C’è un silenzio del cielo prima del temporale, delle foreste prima che si levi il vento, del mare calmo della sera, di quelli che si amano, della nostra anima, dei camminatori solitari, poi c’è un silenzio che chiede soltanto di essere ascoltato.
Marcel Marceau che per 50 anni ha calcato le scene senza proferire una sola parola ha sostenuto che tutte le arti, silenzio compreso, hanno una loro grammatica ma prima bisogna sintonizzarsi sull'anima con il corpo, con il cuore, con lo sguardo. Non basta fare dei gesti, non basta neppure stare zitti, occorrono uno scopo, una strategia, una volontà tattica. Tacere diventa significativo quando si è assolutamente in grado di parlare ma si sceglie di non farlo non per negare la comunicazione semmai per espanderla; non per sottostare passivamente a tabù o imposizioni esterne piuttosto per aggirarli e obbedire al principio di efficacia.
“Si parla troppo”, ripeteva il premio Nobel José Saramago, convinto che solo il silenzio esiste davvero. Perché riusciamo a sentirlo (Michael Wehr, psicologo dell'Università dell’Oregon, ha scoperto i neuroni appositi), perché ne abbiamo bisogno (si moltiplicano alberghi e vacanze anti rumore) e perché, come insegnava Paul Simon, ne cogliamo il suono anche “in mezzo a diecimila persone e forse più”.
Per ascoltare occorre tacere. Senza silenzio non c’è parola, non c’è musica. Spesso però lo evitiamo, ne abbiamo quasi paura, abbiamo perso l’abitudine a stare soli. Eppure la lettura e la scrittura nascono dal silenzio, si nutrono del silenzio e il libro stesso ne è massima espressione: colmo di parole, tace.
Erling Kagge, classe '63, nel 2016 ha scritto un bellissimo libro, Il silenzio Uno spazio dell'anima, pubblicato da Einaudi Stile libero, per la traduzione di Maria Teresa Cattaneo. La sua personale ricerca del Silenzio lo ha portato al Polo Nord, al Polo Sud e sulla cima dell’Everest. Aveva raggiunto il Polo Nord nel maggio del 1990 assieme a un altro esploratore e dopo aver trascorso 50 giorni con una temperatura a meno di 54°C e bruciate quasi tutte le riserve corporee di grasso- il giorno stesso dell’arrivo al Polo passò per caso sopra di loro un aereo da ricognizione americano: i piloti rimasero sorpresi nel vederli, e gettarono loro un contenitore pieno di cibo. Al Polo Nord non c’era dunque silenzio. Non c’era nemmeno negli oceani e Kagge se ne accorse nella primavera del 1986, durante un viaggio in barca a vela lungo le coste del Cile. Una mattina all’alba, mentre faceva la guardia nel turno più duro, da mezzanotte alle quattro, udì qualcosa che sembrava un respiro lento e profondo: era una balena con il dorso grigio che inspirava ed espirava. Per qualche tempo Kagge e la balena seguirono la stessa rotta: poi la balena scomparve. Conobbe il silenzio soltanto nell’Antartide: in quel paesaggio montuoso che si estendeva a perdita d’occhio, dove tutto sembrava uniformemente bianco ma in realtà non lo era, la neve era screziata d’azzurro, di rosso, di verde e perfino di rosa, in quel luogo remoto, completamente solo, non aprì bocca e se gli si rompeva un attacco, o rischiava di cadere in un crepaccio, non imprecava. Non c’erano, come a casa, telefoni che squillavano o qualcuno che suonava alla porta. Non ebbe contatti con nessuno: né via radio né via internet; completamente solo, il futuro non contava più, del passato non gli importava nulla, aveva chiuso il mondo fuori di sé e si sentiva a proprio agio, come non era mai stato, ascoltando quel Silenzio che aveva tanto cercato.
Per Kagge dunque il Silenzio è Dio. Nelle sue riflessioni solitarie ricorda che, come riporta mirabilmente la Bibbia, nel Primo libro dei Re si racconta che Dio si manifestò a Elia dapprima come vento impetuoso, poi come terremoto, poi come fuoco: Dio in realtà non era in nessuno di questi elementi ma soltanto in una brezza leggera, in un “silenzio sottile”. Nell’ultima frase del Tractatus logico-philosophicus, Ludwig Wittgenstein scrisse: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”: forse non a caso il Tractatus fu concepito in Norvegia, nel paese di Kagge, a Skjolden, all’interno del Sognefjord.
Nel mondo di oggi è difficilissimo trovare il silenzio, tanto più il Silenzio assoluto che Kagge non riuscì mai a conoscere, nemmeno quando comandò di essere chiuso in una stanza insonorizzata che impediva l’ingresso ai suoni esterni; anche lì c’era rumore. Abbiamo perduto la capacità di concentrazione, per Kagge: smettiamo di concentrarci dopo 8 secondi, ci sentiamo a disagio quando restiamo da soli in una stanza per 12 o 15 minuti senza poter ascoltare musica, leggere o scrivere: allora apriamo la finestra per guardare fuori. Tentiamo di fare silenzio dentro di noi, ma la nostra mente è sempre piena di idee ingovernabili; i ricordi e le immagini si affollano, cercando di catturare la nostra attenzione. Ma Kagge è convinto che tutti possano trovare il silenzio dentro di sé, anche se circondati dai rumori. È una sensazione bellissima, una grande gioia: non siamo più irrequieti, non facciamo assolutamente nulla, non viviamo attraverso le esperienze degli altri, restiamo cinque minuti di più a letto o andiamo al lavoro a piedi o ci ipnotizziamo per venti minuti: saliamo le scale, prepariamo da mangiare o contempliamo un’opera d’arte, cercando di capire cosa l’artista ci ha voluto rivelare; o viviamo nella natura, restando soli per tre giorni, senza parlare con nessuno; o conversiamo come fanno i giapponesi, che serbano il silenzio anche quando discorrono.
C’è un mito gnostico, al quale forse Erling Kagge si ispira. Il Dio gnostico porta uno strano nome: Abisso. Esso non evoca cavità indefinite o la vasta distesa degli oceani primordiali. Significa che Dio è superiore a tutte le qualità umane: senza vista, senza sensibilità, senza desideri, senza immagini, senza intelligenza, senza pensieri: ignora la forma, l’ordine, l’eguaglianza e la diseguaglianza; non vive e non è senza vita; è fuori dal tempo e dallo spazio. Questo Dio indicibile, incomprensibile, ineffabile, inesplicabile, questo Dio sconosciuto, di cui non si può né affermare né negare nulla, è il Non-Essere senza limiti, l’inconcepibile Vuoto, che contiene in sé stesso la possibilità di tutti gli esseri e di tutte le cose. Dio è l’essenza del mistero, cioè il Silenzio dell’ineffabile.
C’è dunque un’intima, indissolubile relazione fra Silenzio ed “Essere”. Con perfetta corrispondenza la dinamica che muove dal silenzio passa attraverso i suoni “udibili” solo interiormente, poi ai suoni concreti e approda alle parole articolate: ne deriva che per rientrare nell’unità divina si deve compiere a ritroso il cammino dalle parole, e perciò dal pensiero, ai suoni trascendenti e infine al silenzio, cioè all’Assoluto unitario.
E' il ritiro nella foresta assegnato alla vecchiaia dalla dottrina brahmanica ortodossa: qui si trascorre una vita semplice, parca nei cibi, dedicata alla lettura di testi sacri, alla preghiera, al silenzio, alla meditazione. In altre parole, l’induismo tradizionale prevede che, dopo la vita nel mondo con i suoi piaceri, le responsabilità e i compiti, il periodo finale dell’esistenza sia dedicato esclusivamente alla cura dello spirito. Un modello certo non proponibile in Occidente oggi, ma ricco di suggestione soprattutto per il rilievo assegnato al “silenzio”, condizione (quasi) inderogabile dell’incontro con se stessi di cui sempre più si avverte l’acuta nostalgia.
Uno dei passaggi fondamentali della cultura occidentale è quello narrato da sant'Agostino nelle Confessioni in riferimento alla figura del vescovo sant'Ambrogio: “Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l’ingresso e non si usava preannunziargli l’arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente”. Agostino è sorpreso dall’osservare un fenomeno sino ad allora ignoto alla sua pur vasta esperienza intellettuale: Ambrogio leggeva in silenzio, muovendo solo le labbra mentre scandiva le parole. Per molti secoli lettura e oralità sono andate insieme per cui chi leggeva aveva la necessità di leggere a voce alta perché solo così la combinazione dei segni alfabetici (privi com’erano di segni diacritici, segni interpuntivi, maiuscole, spazi tra le parole) prendeva la forma del discorso. Nel mondo classico, e in particolare romano, poi, l’attività dello scrivere e del leggere erano considerate servili, per cui era il segretario incaricato quasi sempre di leggere a voce alta a favore del suo padrone. Con Ambrogio, uomo colto e funzionario imperiale, si ha il primo esempio certo di un passo ulteriore, quello dell’interiorità. Il silenzio implica la vera capacità di lettura: prima c’era ancora la decifrazione dei segni in suoni e poi l’ascolto dei suoni per ricostruire il discorso. Ora invece il cervello è capace di sintetizzare direttamente i segni in discorso, senza l’intermediario sonoro. La lettura silenziosa è dunque una delle grandi conquiste dell’umanità che riesce, in questo modo, a recuperare dentro di sé uno spazio nuovo, un nuovo modo di interpretare e custodire il linguaggio.
Il silenzio è solitudine, è sensazione del nulla: Emily Dickinson esprime la sua angoscia e il suo male di vivere rifugiandosi, pur avendone paura, nel silenzio. La poesia di Garcia Lorca non ama il frastuono, necessita di silenzio. Non un silenzio qualunque e nemmeno il silenzio in generale, bensì il fare silenzio proprio della ragione che indaga la Verità e che tace di fronte alla sua rivelazione.
Come ha giustamente sottolineato Susan Sontag nel saggio “The Aesthetics of Silence”, per essere definito il silenzio “non cessa mai di coinvolgere il suo opposto e di richiederne la presenza”. Più che sull’atto di negazione però, è forse proprio sul confine tra presenza e assenza, suono e taciturnità, astratto e concreto, che vanno ricercate le forme del silenzio a partire innanzitutto dal gesto che lo identifica immediatamente nella cultura occidentale, e cioè il dito indice posato sulle labbra, il cosiddetto ‘signum harpocraticum’, emblema di un silenzio religioso e sacrale: in questa posa veniva infatti rappresentato in Grecia il dio del silenzio, il bambino arpocrate, versione ellenizzata della divinità egiziana Oro. André Chastel fa notare come il gesto possa avere una connotazione ambivalente: quella passiva mutuata dalla simbologia gnostica, dove la chiusura della bocca serviva a impedire l’ingresso dei demoni nel corpo, e quella invece attiva legata al nume egiziano che, come racconta Ovidio nelle Metamorfosi, “con il dito invita al silenzio”.
Un gesto incantatorio che avrà grossa risonanza nel mondo cristiano, soprattutto in ambito monastico dove l’atto della preghiera richiedeva esplicitamente il blocco della “chiostra dei denti”, andando ad alimentare, tra i primi fedeli, una vera e propria mitologia sulla necessità di difendere la bocca da qualsiasi infiltrazione malevola.
Se nel rinascimento il silenzio in cui erano immersi i personaggi rappresentati era fonte di irritazione iconoclasta per gli artisti – basti pensare alla leggenda di Michelangelo che, adirato contro il mutismo del suo Mosè, gli avrebbe lanciato contro un martello –, esso si pone tuttavia come la caratteristica imprescindibile dell’opera plastico-visiva.
Non è un caso che, in un saggio del 1946 dal titolo emblematico L’occhio ascolta che descrive la pittura olandese del Seicento, Paul Claudel converta questo topos tradizionale della “muta eloquentia” in “scuola del silenzio”, esaltando il silenzio come una forma di ‘discorso’ visiva in grado di comunicare conoscenze (e reazioni emotive) difficilmente accessibili altrimenti. Commentando un quadro “nel genere di van Goyen” ad esempio, Claudel osserva come i giochi di luce di quello che lui definisce un insieme “ridotto al silenzio” avessero la capacità di rivelare le cose grazie a un’impregnazione oleosa simile a quella presente nel paesaggio olandese, considerato “quella tasca, quello stomaco” in cui venivano inghiottiti e digeriti i numerosi tesori e valori del mondo.
Dunque, il ‘corpo viscerale’, la sostanza materica del dipinto è ciò che secondo Claudel definisce il silenzio e la sua potenza di fascino. Il ‘farsi corpo’ del silenzio non è più così demandato a una precisa mimica del soggetto (come nel signum harpocraticum), ma si trasforma nel “farsi corpo” della pittura stessa.
Secondo una leggenda contemporanea che trova le sue origini nella tradizione rabbinica, ogni essere umano porta inscritto nella propria conformazione anatomica il segno del silenzio: il “filtro” (prolabio), l’incavo tra naso e labbra, sarebbe l’impronta lasciata dal dito di un angelo venuto a chiudere la bocca al nascituro e a fargli dimenticare tutti i saperi che possedeva nell’utero della madre. L’arte, così come la letteratura hanno forse il compito di recuperare, o perlomeno segnalare, i segreti di questo Silenzio. “Solo quando ho capito che ho un intimo bisogno di silenzio, ho potuto mettermi alla sua ricerca; nei miei recessi più intimi, sotto la cacofonia dei rumori del traffico e dei pensieri, della musica e dei macchinari, degli iphone e degli spazzaneve, lui era lì che mi aspettava”, conclude Erling Kagge.
(MC) Credo che Il Silenzio di Erling Klagge, come illustrato egreggiamente nell'articolo di Cettina Vivirito, dovrebbe essere una lettura consigliata a tutti runner, soprattutto a coloro che affrontando esperienze che combinano la performance sportiva con una ricerca interiore e che dovrebbe entrare a far parte di una loro biblioteca portatile: e il mio pensiero va indubbiamente agli ultramaratoneti, agli ultratrailer e ai camminatori di lungo corso, per i quali l'esperienza del correre e del camminare, sia durante i diuturni allenamenti sia in corso di gare si svolge "via dalla pazza folla" e via anche dalle forme di competizione sfrenata che caratterizzano le gare di corsa di poche migliaia di metri in cui il frastuono della competitività spinta azzera qualsiasi possibilità di contatto con il proprio sé interiore.
Non a caso vi sono popoli che praticano la corsa di lunga durata per finalità ritual-religiose: pensiamo, ad esempio, ai Tarahumara di cui si è occupato recentemente Christopher McDougall, nel magistrale Born to run (pubblicato in Italia da Mondadori, Strade Blu, nel 2014) oppure ai monaci corridori del Monte Hiei che praticano nel contesto del Buddhismo una singolare forma di meditazione attraverso corse estenuanti ripetute ogni giorno, sino a raggiungere l'illuminazione e a passare a ulteriori stadi trasformativi del sè; ma possiamo anche pensare a forme di esportazione di tali discipline ai contesti occidentali, in formule nuove ed inedite che, tuttavia, attraggono stuoli di seguaci: e qui possiamo citare l'Associazione di runner con diramazioni internazionali fondata dal guru Sri Chimnoy. O ancora, senza arrivare ad una partecipazione codificata ad organizzazioni che praticano la disciplina della meditazione attraverso la corsa o altre forme di sport, può essere citato il concetto di "psicoatleta" coniato da Enrico Brizzi, scrittore ma soprattutto grande camminatore. E non ci sorprende ancora, considerando questi punti di repere così brevemente menzionati il fatto che, al giorno d'oggi, in cui tutto é in crisi e non ci sono più certezze confortanti, si diffondano sempre di più le esperienze del "camminare profondo": non si può spiegare altrimenti la popolarità crescente (e rinnovata, nel senso di essere sempre più "laica") di cui gode il Cammino di Santiago che, benché intrapreso con le motivazioni più diverse (alcune delle quali apparentemente banali), man mano che, giorno dopo giorno, si macinano chilometri in una diuturna fatica, porta i camminatori verso se stessi, togliendo progressivamente assieme al sudore tutti gli orpelli del vivere quotidiano, tutto ciò che è inessenziale, sino a condurre ad un contatto intimo con il proprio nucleo interiore.
Nell'esperienza degli sport di lunga durata (rientranti nella definizione di "endurance") si è inevitabilmente captati da una disciplina del silenzio, così come descritto da Kagge che, evidentemente, ha potuto attingere le sue riflessioni profonde proprio dalle sue imprese di esplorazione estrema che, inevitabilmente, hanno finito con il diventare banco di prova - e nello stesso tempo affiinamento - delle proprie risorse interiori e terreno fertile di incontro con il trascendente a-istituzionale, in quel contesto che altri studiosi hanno definito di "estasi selvaggia" (vedi, come documentato esempio, lo studio di Michel Hulin, La mistica selvaggia.Agli antipodi della coscienza, IPOC, Milano, 2012).
L'autore de "Il Silenzio". Erling Kagge (Oslo, 1963) è stato il primo uomo a raggiungere il Polo Sud in solitaria e il primo a raggiungere i «tre poli»: il Polo Nord, il Polo Sud e una cima dell'Everest. Per Einaudi ha pubblicato Il silenzio (2017), che è stato venduto in 20 Paesi.
Maggiori e più dettagliate notizie su Kagge si trovano sulla voce dedicata a lui su Wkipedia (in Inglese)
(dal risguardo di copertina) In media, perdiamo la concentrazione ogni otto secondi: la distrazione è ormai uno stile di vita, l'intrattenimento perpetuo un'abitudine. E quando incontriamo il silenzio, lo viviamo come un'anomalia; invece di apprezzarlo, ci sentiamo a disagio. Erling Kagge, al contrario, del silenzio ha fatto una scelta. Nei mesi trascorsi nell'Artide, al Polo Sud o in cima all'Everest, ha imparato a fare propri gli spazi e i ritmi della natura, e a immergersi in un silenzio interiore, oltre che esteriore: un immenso tesoro e una fonte di rigenerazione che tutti possediamo a cui è però difficile attingere, immersi come siamo dal frastuono della vita quotidiana. Ma che cos'è il silenzio? Dove lo si trova? E perché oggi è piú importante che mai? Queste sono le tre domande che Kagge si pone, e trentatré sono le possibili risposte che offre. Trentatré riflessioni scaturite da esperienze, incontri e letture diverse, e tutte animate da un'unica certezza: che il silenzio sia la chiave per comprendere piú a fondo la vita.
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