Il 21 ottobre 2018 si è svolta con successo e con grande partecipazione la 5^ edizione del "Trail delle Cantine" a Camporeale, prova valevole per il circuito siciliano di Trail Running “Trail Sicilia Challenge”, con le Associazioni "Camporealando" e "Nonsolocorsa" in qualità di società organizzatrici locali e con il patrocinio dell’amministrazione comunale di Camporeale.
Grande partecipazione: considerando anche gli iscritti dell'ultim'ora è ammontato a circa 280 il numero dei partecipanti tra trail runner e walker.
La manifestazione, come nelle precedenti edizioni, ha preso il via dal “baglio” adiacente il Palazzo del Principe di Camporeale. Quattro le ore di tempo massimo per coprire la distanza del trail. Il percorso di questa edizione è stato modificato, con una variante nella parte terminale, sicché i runner hanno dovuto affrontare un'ultima, impegnativa, salita subito prima dell'arrivo. Previsto anche un walktrail di 10 km, oltre che una visita guidata per le famiglie e gli accompagnatori per dar modo ai visitatori di conoscere i punti di maggiore interesse della cittadina di Camporeale.
E' stato previsto anche un servizio di "baby assistance" per i ragazzi fra 6 e 12 anni dalle 8,15 sino alle 13,00, per facilitare la partecipazione di ambedue i genitori.
Anche in questa edizione, il Trail delle Cantine ha così confermato la sua vocazione di voler essere una manifestazione per le famiglie, tale da consentire a tutti di trascorrere un giorno assieme in amicizia e solidarietà e da poter godere delle eccellenze del territorio di Camporeale.
Al mattino, è risultato alquanto surreale e fantastico per la sua particolarità l'arrivo a Camporeale, poiché - provenendo da Palermo - la vallata subito dopo San Giuseppe Iato e San Cipirello era totalmente avvolta in una fitta nebbia.
Ma poi, abbandonando la scorrimento veloce Palermo-Sciacca e raggiungendo nuovamente una quota più elevata il paese di Camporeale, abbarbicato sul fianco del colle ed esteso, con le sue parti più moderne post-terremoto, nella piana sottostante, è emerso dalla nebbia come in un racconto fantasy.
Le condizioni atmosferiche si sono mantenute ottime, mentre il terreno - a causa delle piogge insistenti dei giorni precedenti - è risultato pesante, il che unitamente ai tre forti dislivelli altimetrici da superare, ognuno concentrato in pochi chilometri, ha fatto sì che la gara risultasse pesante ed impegnativa anche per i più forti, se si aggiungono anche numerosi tratti single track tecnici e resi scivolosi dal fango.
Alla fine, la giornata si è magnificamente conclusa con la cerimonia festosa delle premiazioni (con podio dei primi tre assoluti uomini e donne, e dei primi di tre di ogni categoria, premiati questi ultimi - in modo originale - con zucche di produzione locale) e un ricco pasta-party finale con musica e danze, cibo abbondante e legato alla tradizioni locali, la possibilità di degustare ben 24 diverse varietà di vini prodotti dalle locali cantine, musica e danze (e il completamento delle premiazioni con trofei assegnati alle prime tre squadre più numerose e alla rappresentanza più numerosa di camminatori).
Ultramaratone, maratone e dintorni, Palermo, Italy. 5,318 likes · 184 talking about this. Una pagina Facebook per ospitare resoconti di cronaca, racconti...
Il link porta alla galleria fotografica con le foto dell'evento realizzate da Maurizio Crispi e pubblicate sulla pagina facebook "Ultramaratone, Maratone e Dintorni"
Per l’editore Altreconomia è uscito recentemente (2017) il volume “L’Italia selvaggia. Guida alla scoperta di luoghi incontaminati per tutti i piedi” scritto da Elisa Nicoli scrittrice, giornalista, documentarista nel filone dei suoi interessi per l'ambiente. Si tratta di un libro piccolo, ma denso di proposte. La prefazione è di Franco Michieli, l’esploratore che collabora da anni con la Compagnia dei Cammini. Esistono ancora in questa Italia cementificata luoghi selvaggi, dove la natura signoreggia e la presenza umana è rarefatta? Sono pochi, ed Elisa vi propone di conoscerli camminandoci dentro. La dichiarazione di intenti è chiara: «Questo libro è alla portata di tutti, anche di chi è alle prime armi con l’escursionismo e non ha esperienza di selvatico. Se invece siete degli esploratori “patentati”, forse questo libro non fa per voi. In altre parole, non ce la sentiamo di mandare i nostri lettori allo sbaraglio, su tracce di sentieri che si perdono. Questo libro vuole essere un’iniziazione al selvaggio, uno sfiorarlo, un intravederlo, a volte un anelarlo, raggiungendolo solo in pochi momenti…». Alle giuste e necessarie indicazioni preliminari seguono 14 schede di luoghi selvaggi. Si comincia con la famosa Val Grande. Di ogni luogo Elisa intervista uno specialista del luogo, guide, scrittori, guardiaparco, persone che vivono lì. A seguire, l’autrice elenca i buoni motivi per visitare quell’area, gli itinerari da fare a piedi, consigliando anche posti tappa, libri e mappe. Un libro da possedere e da consultare come vero e proprio Baedeker se si ha voglia di esplorare a piedi oasi ancora incontaminate del territorio italiano, molte delle quali sono state già da molti anni oggetto di trekking organizzati da "La Compagnia dei Cammini".
(dalle soglie del testo) Da Nord a Sud le aree selvagge sono anche la Val Codera, i Lagorai, la Valtramontina, poi negli Appennini la Valle dello Scesta, in Abruzzo la Cicerana e i Monti della Meta, poi più a sud l’Orsomarso, l’Aspomonte, in Sicilia Cava d’Ispica e in Sardegna il Supramonte. (risguardo di copertina) Lo spirito con cui avvicinarsi ai luoghi selvaggi, lo zaino perfetto, la preparazione fisica e tutte le cose che è bene sapere prima di partire. 14 aree selvagge dal Nord al Sud dell'Italia, isole comprese: Val Grande, Valle Cervo, Val Coderà, Val di Vesta, Lagorai, Valtramontina, Fosso del Capanno, Valle dello Scesta, Cicerana, Monti della Meta-Mainarde, Aspromonte, Orsomarso, Cava d'Ispica, Supramonte. Gli itinerari più belli, la natura da scoprire e i consigli del genius loci, il "custode" del territorio. Un vasto repertorio, con decine di percorsi nella wilderness, dalle Alpi agli Appennini, dai grandi Parchi alle piccole oasi segrete. Infine, i focus su wild swimming e fiumi, canyon e gole, foreste ataviche, coste e dune solitarie, paesi fantasma.
Elisa Nicoli é scrittrice e documentarista, insegna in giro per l'Italia a fare sapone, detersivi e cosmetici. E' "autoproduttrice" e camminatrice per passione.
Da anni si occupa di tematiche ambientali, attraverso diversi media.
Nata a Bolzano, ha studiato Scienze della Comunicazione a Padova ed è tornato nella sua natìa Bolzano, dopo aver vissuto per un anno a Lione e due anni a Roma.
Ha finora scritto cinque libri, per diverse case editrici e realizzato diversi documentari.
Per dettagli e contatti leggete il sito www.elisanicoli.it e per saperne di più sull'autoproduzione www.autoproduco.it.
(MC) Il 3 dicembre 2017 si svolgerà l'11^ tappa del Circuito Ecotrail Sicilia che, con il Trail dei Nebrodi sulla distanza di 66 km (previsto anche un percorso più breve di 20 km), porterà i trailer e gli appassionati della corsa in natura a correre sui Nebrodi, nel cuore di impareggiabili scenari. Ci pare pertinente pertanto proporre questo articolo di Cettina Vivirito che parla di "percorsi selvaggi"sui Nebrodi alla ricerca dell'ebbrezza dionisiaca. I Nebrodi, oltre che luogo di grande bellezza naturalistica, pressoché incontaminata, sono luoghi che da tempo immemore racchiudono molte magie, scaturenti forse dall'energia stessa che promana dalla Natura. Gli antichi sentirono questo, come in altri luoghi il mistero e il silenzio dei boschi viene animato, secondo le credenze locali, da esseri appartenenti al "piccolo popolo", il dio Pan e altre entità che possono aprire la via verso misteriosi mondi paralleli. Testimonianza di questa immensa energia sono i culti che, in successive epoche storiche, in questi luoghi si sono susseguiti, di cui resti significativi sono i riti e i simbolismi delle feste religiose locali che sicuramente racchiudono in sé stratificazioni sincretiche.
E che vi siano in opera forze non chiare e al di là dell'umana comprensione è indubbio: basti pensare al mistero irrisolto degli incendi spontanei di Caronia, per il momento soltanto sopito, ma mai effettivamente risolto, raccontato da Valentina Gebbia in un suo romanzo (Fuoco grande, Dario Flaccovio), in cui - al di là di tutte le ipotesi ventilate - l'Autrice propone un ritorno alla mitologia greca e alle forze animistiche che pervadono la Natura e che, qui in questi luoghi, continuano a lasciare tracce significative, manifestandosi di tanto in tanto con impeto. I riti e le usanze nel corso delle feste religiose hanno - rispetto a queste forze -proprio una funzione propiziatoria e di scongiuro, ma servono anche a ricordare che ci sono sempre elementi che possono irrompere nel mondo delle piccole certezze quotidiane. Per tutti questi motivi, camminare (o correre) nei boschi dei Nebrodi può avere una valenza perturbante poiché nel silenzio dei boschi - se si abbandona l'attitudine razionale che ci domina come frutto dell'azione della neocorteccia del cervello, ultima formazione ad essere comparsa nello sviluppo filogenetico dell'uomo - ci si può trovare a contatto con le vibrazioni dell'ominoso, cioè di forze che non siamo di comprendere appieno(e questo tipo di incontro può essere alla base delle cosiddette "estasi selvagge"). E vorrei citare qui l'elemento meraviglioso che è insito nelle "vie dei canti" degli aborigeni australiani, descritte magistralmente da quell'impenitente viaggiatore che fu Bruce Chatwin e catturate da alcuni cineasti, come ad esempio il celebrato "Picnic a Hanging Rock". L'articolo di Cettina Vivirito ci parla di tutto questo.
(Cettina Vivirito) Ricordo un incontro con Dioniso, il giorno in cui assaggiai il vino novello, nella campagna nebroidea. Camminavo con un amico per i campi, ci eravamo inoltrati in un boschetto ed io ero felice come quando ci si inoltra in un contado leggiadro, ma a distanza di tempo non me ne ricordo nemmeno, dei caratteri di quella contrada. Sono i profumi che rimangono intatti e riempiono la memoria, la sfidano con la loro varietà che non si riesce a fermare con le parole. Sono i sentori di quei fiori e quelle erbe che soltanto su queste montagne crescono e giungono nuovissimi alle narici appena lasciata la provinciale.
Arrivammo a una casetta dove un gruppo di uomini stava degustando il vino nuovo e ci osservarono con attenzione, ma subito il più anziano ci pregò di partecipare, con un tono dove mi parve di sentire la forza, di così remote origini, dell’ospitalità; i volti seri e benevoli mi diedero la dionisiaca sensazione di quel rito arcaico. Ci si sentì accomunati. Prima che ce ne andassimo, quattro di loro si alzarono a danzare dignitosamente una lenta danza in tondo. Ci salutammo in silenzio, ma lì Dioniso avrebbe continuato a stare sdraiato degustando dalla coppa.
Come in una storiella infantile raccontata da Elemire Zolla, credo che questa esperienza, in altra manifestazione, appartenga anche a quella di ogni bambino: gli si presenta un coetaneo e i due si guardano a vicenda contraccambiando noia, stando immobili e indifferenti l’uno al cospetto dell’altro. Tutt’a un tratto una parola cade nel silenzio o una corrente scatta fra i loro occhi e subito si sentono trasportati in un altro, incomparabile spazio. Distanza, differenza, intervallo di separazione sono svaniti, essi formano un’unità. Corrono furiosamente gridando, eccitandosi, soffiano fiatoni fitti fitti, come stessero nuotando in un’acqua ribollente. Dura quel che dura, qualcuno interviene, basta una voce seria e tornano in sé, separati, distinti.
Questo trasporto ha un nome proprio, Dioniso, cui Ovidiosi rivolgeva esclamando: Tu, Puer aeternus. L’incontro con Dioniso può nascere da un vinello qualunque che precipiti all'improvviso in un'esuberante risata, ogni mossa fa piegare in due dai singulti, tutto si palesa come un immenso scherzo. E’ in grado di appropriarsi della nostra vita all'improvviso in un qualunque momento. Dioniso spezza il giogo delle dualità: conscio/inconscio, persona/cosmo. Sta sempre in agguato e grazie a lui ci si congiunge all'ambiente, non si sa più che cosa siano, dove abbiano confine, il bene e il male.
Storiografi e mitografi generalmente sono d’accordo nell’escludere che il mito di Dioniso sia sorto in Grecia, dove il culto dionisiaco si radicò non prima del VIII secolo a.C. Secondo alcuni, il mito di Dioniso sarebbe di origine tracica, secondo altri di origine cretese, secondo altri di origine indiana. Storicamente documentato è invece che la versione più antica del mito di Dioniso sia coeva alle origini di Agatirno, (l'attuale Capo D'Orlando), città sacra a Dioniso; che in tutto l’orbe terracqueo solo i Nebrodi furono, di nome e di fatto, i monti di Bacco: il paesaggio dei quali, ancora oggi, è il più dionisiaco che si possa immaginare, anche se non vi sono più i cerbiatti che vi pullulavano nell’antichità, fino a quando furono animali protetti, appunto perché sacri a Dioniso; che secondo la tradizione più antica, raccolta dall’autore del più grande poema che sia stato mai composto in onore di una divinità pagana (le “Dionisiache”, in 48 canti, del Nonno di Panopoli), proprio in Sicilia sono collocati il concepimento e la nascita del primo Dioniso.
Dalla valle del torrente Manazza, in territorio dell’odierna Capo d'Orlando, e fino alla contrada Maina ed alla fonte omonima, in territorio dell'odierna Naso, vi è tutto un sentiero che, con questi stessi nomi (Manazza, Maina) ricorda l’antichissimo culto, derivando l'uno e l'altro nome dal greco mainás: da máinomai, che significa infuriare, essere invasati, per l'appunto da Dioniso o Bacco. Nella stessa valle si trova un’antichissima fonte, che i nativi hanno sempre chiamato con il nome Lia. Anche questo nome ricorda il dio Dioniso, che era invocato con l’appellativo Lièo (lo scioglitore dagli affanni). Nelle campagne di Capo d’Orlando sono stati rinvenuti numerosi oscilli (da oscillum, nome latino, composto di os e cillum, piccolo viso), ossia dischi di terracotta, raffiguranti il volto di Bacco, i quali venivano appesi ai rami degli alberi affinché, oscillando (da cui l’origine del verbo oscillare) allontanassero le forze malefiche dai campi.
Ma il culto di Dioniso o Bacco nei Nebrodi è attestato da prove certe, quali sono le monete delle antiche città di Alesa (odierna Tusa), Amestrato (odierna Mistretta), Calacte (odierna Caronia Marina) e Aluzio (odierna San Marco d’Alunzio): nelle quali monete appare la figura di Bacco, a volte accompagnata da quella di Sileno (compagno inseparabile di Bacco). Risulta quindi essere una solenne sciocchezza quella tramandata dal geografo latino Solino (del III – IV secolo d. C.) ed avallata dal Pais, secondo cui i Nebrodi avrebbero preso il nome dai cerbiatti (in greco nebrói) che vi abbondavano nell’antichità; è stato ignorato che Dioniso si chiamava pure Nebródes: i Nebrodi furono quindi, di nome e di fatto, i “monti di Bacco”.
L’inizio delle celebrazioni dei «misteri dionisiaci», così come pure quello dei «misteri eleusini», si perde nella notte dei tempi. La loro fine fu decretata ufficialmente nel 392 d.C. con l’editto di Teodosio il Grande che dichiarò il Cristianesimo religione ufficiale di Stato. Da quel momento ebbe inizio una persecuzione più o meno manifesta contro i riti non-cristiani che, nel corso dei secoli, distrusse e fece sparire non solo antichi riti e templi degli dei pagani, ma anche intere città, tra le quali la famosa Demenna che, sotto la dominazione araba, diede il nome a tutto il Val Demone. E, la cui etimologia è ricondotta da Michele Amari in Storia dei musulmani di Sicilia, al verbo greco “diameno”: “perduranti”, cioè permanenti nella fede (dell’Impero bizantino).
Nulla di strano se alcuni “ornamenti” della storia locale, quali: il vecchio toponimo Ficara, che sta a indicare un territorio coltivato, in prevalenza ad alberi di fichi; l’appositivo “de Camino” (un “Cammino Sacro” simile a quello della “Strada Sacra” di Eleusi), rinvenibile nel diploma con il quale l’imperatore Federico II, nel 1249, concesse al vescovo di Patti il grande bosco di Ficarra, Sinagra e Piraino, che comprendeva anche la chiesa di San Pietro de Camino (sita sul limitrofo Capud Brinionis) e una casa solarata dove “vi sono botti che possono contenere 160 salme di vino”, il pascolo, sotto tali boschi di greggi dei più pregevoli “castrati” della Sicilia che, come fece notare lo storico Tommaso Fazello nel 1500: “Mentre son vivi e dopo la morte recano i denti perpetuamente dorati”; l’antica consuetudine, che ancora si rinnova ogni anno, di regalare per la “Festa dei morti” fichi secchi e certi dolcini (i cosiddetti “ossa di morti”) che hanno il tronchetto superiore di farina a mo' di fallo maschile, e la parte sottostante color miele a forma di ovale che, sia pur vagamente ricorda la vagina femminile; la riproduzione spontanea della razza autoctona del cosiddetto “suino nero dei Nebrodi”; l’antico nome del porto di Brolo (considerato l’affaccio a mare di Ficarra) che gli Arabi chiamavano Marsà Dàliah, cioè “porto della vite”, possano costituire “l’adombramento” della perpetrazione di antichi riti, tradizioni, usi e costumi risalenti al periodo in cui, anche qui, imperava il culto di Cerere e Diòniso.
Col solstizio d’estate, ancora oggi, si aprono le danze delle feste pagane sui Nebrodi; compromesse col cattolicesimo, hanno l’aria e la parvenza di manifestazioni e culti religiosi, ma in realtà non sono altro che la perpetuazione di quei riti ancestrali che, una volta all’anno permettono all'autentico sentire di manifestarsi liberamente. La Valdemone, intendendo con ciò una delle tre valli in cui la Sicilia un tempo era amministrativamente divisa, dalla dominazione araba al periodo borbonico (Valdemone, Val di Noto, Val di Mazara), è quella che, ricomprendendo nel suo ambito l’Etna, a lungo considerato antiporta dell’aldilà, precisamente punto d’accesso agli inferi, (da ciò il territorio sarebbe stato detto Vallis Dæmonorum) attrae ancora oggi, a partire dalla primavera e per tutto il periodo estivo tantissime persone provenienti da ogni luogo che vogliono, attraverso le tipiche feste locali, rivivere in qualche modo, quel mito lontano.
La festa dei Giudei a San Fratello, che si svolge durante la settimana Santa da centinaia di anni è sicuramente la più spettacolare di tutte; come tutte le feste dionisiache pagane di primavera, esalta l’energia vitale della natura e degli uomini che si sprigiona con la rinascita annuale della natura, con un forte spirito orgiastico, scanzonato, anche delatorio ed esagitato, in una commistione fra sacro e profano. Gli strani personaggi che la rappresentano, abbigliati in modo appariscente con giubbe rosse, gialle e pantaloni dai colori sgargianti, indossano delle maschere grottesche dalle quali fuoriesce, a seconda dei casi, una lingua nera, una coda animalesca, simboli strani che vengono portati in giro per il paese con schiamazzi e suoni di trombe, campanacci e catene, sbeffeggiando e molestando tutti, anche le più ortodosse e compunte processioni.
La festa “du muzzuni” si svolge durante il solstizio d’estate ad Alcara li Fusi da quattromila anni e per questo è considerata la festa più antica d’Europa; conserva anch'essa i riti di propiziazione della fecondità dell’uomo e della natura, che nell'antichità si celebravano in onore di Demetra e Adone, al sopraggiungere del nuovo raccolto. Espressione della visione ciclica della vita, che è tipica delle culture agricole, il culto di Adone consisteva essenzialmente nel rito della falloforia (muzzuni) e nella preparazione dei giardini di Adone ( i lavuri) da parte delle giovani donne cui era caro il dio. Il “muzzuni” consiste in una brocca dal collo mozzato da cui fuoriescono garofani, spighe di lavanda, germogli di grano, e viene rivestito da un fazzoletto colorato e dai gioielli di famiglia raccolti nel vicinato che costituiscono il corredo delle spose contadine. Il “muzzuni”, venerato come un Santuario, diventa simbolo delle aspettative contadine per un raccolto abbondante; la sua ricorrenza è sempre stata legata a strani fenomeni dai quali si potevano trarre previsioni per il futuro: la rugiada della notte tra il 23 e il 24 giugno veniva ritenuta benefica per gli uomini e per gli animali e si racconta che in quella notte si potessero avvertire voci misteriose e luci che giravano attorno ai campanili.
Ma la festa dionisiaca che le racchiude metaforicamente tutte è forse quella in onore di San Teodoro, celebrata a Sorrentini, la più antica e la più strana borgata del pattese. Piantata a mezza costa del Melinso, con le sue case sparse alla rinfusa e prive di qualunque linearità architettonica, ha una breve piazza che è la più umile e la più suggestiva dell’intero territorio. Nella Chiesa Madre, al posto d’onore, troneggia la statua del santo scolpita nel legno; un’opera di discreta fattura ma che possiede invero requisiti sufficienti ad esaltare la grande fede di quel contado. La sua festa si celebra la prima domenica d’agosto e, come ha scritto G. Mellina Ocera, “fanatismo e barbaria si fondono in riti in cui la fede assurge alla potenza d’un mistero dionisiaco”.
Nessuno riesce a scoprire dove finisce la commedia umana per un istintivo, primordiale bisogno di clamore e dove cominci l’autentica follia della moltitudine che attende, disperatamente infatuata, il compiersi del miracolo, il segno della suprema comprensione del santo martire. La notte della vigilia, su per i sentieri vaga ininterrottamente una lunga teoria di fedeli che regge in mano fiaccole accese; è la processione dei pannusi (ddisa o ampelodesma che cresce rigogliosa in quei luoghi e che ad agosto è sufficientemente secca per ardere), dando luogo a uno spettacolo notturno carico di energia con una evocazione da tregenda, i bagliori rosseggianti trasfigurano i volti di quella moltitudine che va come insinuandosi tra gli alberi. Alla fine della lunga processione si torna alla Chiesa Madre dove viene acceso un grande falò con le fiaccole residue e attorno ad esso si inizia una danza al suono della tradizionale musica di San Teodoro girando, ora in un senso, ora in un altro, fino al finale salto sul fuoco. La danza vorrebbe ricordare il martirio del santo, morto sul rogo, in realtà ha una valenza non proprio cristiana: vengono richiamati antichi riti propiziatori caratteristici delle comunità agresti e, probabilmente, legati al culto del sole, come testimonierebbero alcuni reperti di epoca greco-romana rinvenuti a Sorrentini e nella vicina Gioiosa Guardia. Quando il sole sorge uno sparo potente indica che il Santo sta per uscire dalla chiesa per intraprendere il suo interminabile viaggio attraverso viuzze, sentieri, scale e dirupi; mentre la banda suona una speciale tarantella (che si fa risalire allo stesso santo), gli uomini si accostano alla vara della statua: si deve uscire dalla porta centrale in un unico slancio, senza incertezze nel superare l’ostacolo (vero o finto) che può pararsi davanti alle stanghe della vara che vacilla, ondeggia, arretra, avanza e riprende la corsa come un possente ariete medievale. Per l’occasione non mancano gli indemoniati i quali si accostano al santo con uno sguardo attonito, spinti dalla folla che grida e tumultua e quando non ce ne sono c’è sempre un buon fedele che si presta a fare lo spiritato; l’invasato poi, vero o finto, viene trascinato ai piedi del santo lacero e con la bava alla bocca, gli occhi stravolti mentre la folla grida: “Santu Todaru! Libiralu! Libira la criatura!” Guai al santo se non ubbidisse all’invito perentorio, correrebbe il rischio di essere investito dalle più turpi ingiurie piuttosto che essere laudato: il miracolo quindi deve compiersi e si compie.
Per tutto il giorno il santo, portato a spalla e conteso dalla folla gira per quelle viuzze come in una interminabile giostra vorticosa, soffermandosi ad ogni casa davanti alla quale i portatori ricevono le generose offerte, in denaro ma per antica costumanza insieme a grandi fiaschi di vino di strane forme dalle quali a garganella, bocche avide e mai sazie traggono nuovo vigore e più viva fiamma d’entusiasmo. Il giro viene ripreso e si ripete ancora e ancora; le scene che si succedono sono tra le più varie e qualche volta di una tenerezza toccante. Molti vecchietti attendono davanti la porta che il santo passi per donare una gran bella pianta di basilico (dono considerato regale, basileus vuol dire Re) e spesso dicendo ad alta voce: “Beddu.. Beddu!.. Pi ‘ te la sarvai sta bedda grasta di bacinicò!”.
Così il Santo riprende il suo interminabile giro tra campane squillanti e la danza dei portatori e della banda ormai alticci, facendo sfoggio di dissonanze dodecafoniche fuori programma. A mezzogiorno le campane sembrano impazzite e convulse: i portatori e i fedeli tutti abbandonano il santo su una via qualunque: è l’ora del pasto pantagruelico a base di maccarruni cu puttusu e pecora al forno e vino ancora vino fino all’ubriachezza.
Come un avamposto della memoria dionisiaca posto a seicento metri sul livello del mare, in quei muti miraggi d’orizzonte dispersi in perimetri di esiliata felicità dal gioco di correnti senza meta, sta il sogno del Re taumaturgo, della liberazione dalla possessione, dalla follia, un sogno blasfemo di rinascere alle sconfitte, ultime eresie del pensiero.
Quando il poeta scrive che «perciò sussurrando ci incorona i capelli il dio comune / e fonde in uno le coscienze come perle di vino»; quando, passeggiando, incontriamo lo sguardo immobile di un animale e ci specchiamo nella sua divinità — allora, e molte altre volte, Dioniso si manifesta e ci ripropone la consapevolezza dell’impermanenza, ci reinsegna il mondo animale e la natura vegetale. E se questo ci inquieta, Dioniso ha raggiunto il suo scopo.
(Cettina Vivirito) C'è più vita in dieci chilometri lenti e a piedi che in una rotta transoceanica che ti affoga nella tua solitudine progettante, un'ingordigia che non sa digerire - scrive Franco Cassano nel suo “Andare lenti”, rivolto probabilmente a una parte del mondo, in aumento, che sta riscoprendo la voglia di fermarsi, andare lentamente, farsi permeare dalle cose e non travolgere. Vivere in modalità “slow”: più lenti ma più sereni di contro a quelli che non a torto sono stati definiti “scoraggiatori militanti”: sono quelli che dicono che la vita è altrove. La vita è ovunque, semplicemente, ed è forse la riscoperta di questa banalità la vera rivoluzione.
Dunque, la prima cosa da fare è parteggiare per le colline, per i cani, per i baci, parteggiare per le albe, per chi cammina, riunirsi per leggere un libro, per sentire un suonatore di fisarmonica, per zappare un orto, per raccogliere l’uva di una vigna. Ecco le assemblee del nuovo secolo, ci dice un altro profeta della lentezza, Franco Arminio. Ma già Milan Kundera aveva notato che “C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio (…) la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è perrealizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità;se accelera il passo è perché vuol farci capire che ormai non aspira piùad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata di se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria. E potrei citarne altri, come Carl Honoré, che nel suo “Elogio della lentezza” sottolinea che questo desiderio non è neppure un tentativo di riportare il mondo a una sorta di utopia preindustriale, piuttosto ricerca di equilibrio, essere svelti quando ha senso essere svelti ed essere lenti quando è necessaria la lentezza. Cercare di vivere seguendo quello che i musicisti chiamano il “tempo giusto”, ossia la velocità più adeguata. Che dire poi di Jim Jarmusch, il regista/autore che più di ogni altro ha riletto in chiave critica la mitologia on the road e il rapporto fra l’uomo e il paesaggio americano?
Chi fa politica ha da sempre il compito di cambiare la storia o orientarla con responsabilità; ognuno di noi può farlo, per sé e per la comunità in cui vive decidendo liberamente se occuparsene in prima persona o incaricarne una potenza rappresentativa, come i partiti, per esempio: sono però circa trent'anni che la politica non orienta più niente, e l'unica cosa che sa fare bene è rubare. Viviamo in un periodo in cui le speranze sono solo individuali, associazionistiche, solo private perché il partito - quale che fosse, - ha perso il suo significato di riferimento sociale, culturale e politico da quando ha perso la capacità di chiamarsi tale: sono finiti il PCI il PLI il PSI - forse il PD ha mantenuto il nome (e solo quello)-, ovviamente tutti molto discutibili rispetto alle ispirazioni iniziali ma avevano una caratteristica: rappresentavano l'essere; uno era radicale, era comunista, era liberale, era socialista e quella identità corrispondeva a dei valori di consapevolezza, di cultura. Si è perso tutto. Sono nate le margherite le leghe le querce le forze, si è perso l'essere a favore dello stare: io sto di qua o sto di là. Creando delle cose inverosimili in cui persone di diversissimo orientamento stanno insieme “contro” qualcun altro e in questo il bipolarismo berlusconiano è stata la nostra vera tragedia: i ladri che vediamo oggi sono esattamente uguali a quelli di prima ma diversi nella misura in cui rubano per se stessi e non più per una causa, per un'ideale, per un partito. La politica è diventata una delle cose più terribili del nostro tempo, e quindi che qualcuno possa tentare di fare “storia” da solo, pur essendo una dimensione romantica, disperata e terribile risulta oggi senz'altro più affidabile individualmente di quanto può esserlo un partito: approdiamo con fiducia ai nuovi profeti come Franco Arminio, o Carlo Petrini, il presidente di slow food: due intellettuali ultimi e unici che hanno indicato un indirizzo politico ma non si occupano di “politica” nel senso più tristemente noto.
La filosofia di Slow Food che Petrini rappresenta parte dalla riscoperta del piacere attraverso la cultura materiale. Il piacere di cui parla è quello alimentare, sensibile, condiviso e responsabile. Per avvicinarsi a questa conquista, che deve essere di tutti, bisogna secondo Petrini innanzi tutto riflettere sulla lentezza, recuperare ritmi esistenziali compatibili con una qualità della vita che deve essere totale. Non è un’eresia dire che il piacere alimentare - spesso tabù, represso, riservato soltanto a élite facoltose – va democraticamente perseguito per tutti nel mondo. Non è eresia lavorare perché anche i più poveri ne possano godere. Dire “piacere alimentare” significa ricercare le produzioni lente, ricche di tradizione e in armonia con gli ecosistemi; significa difendere i saperi lenti, che scompaiono insieme alle culture del cibo; significa lavorare per la sostenibilità delle produzioni alimentari e quindi per la salute della Terra e la felicità delle persone.Un atto di riconciliazione urgente, tanto essenziale nella sostanza pratica quanto profondamente religioso che racconta uno stato d'animo diffuso. Filosofia sorretta da un fare, da un'azione, che rompe l'indifferenza e ridimensiona la rassegnazione imperante.
Il livello dello scontro sul modo di concepire le nostre vite si è molto aggravato in questi ultimi anni ma rispetto a questa realtà la politica continua a rimanere assente, mentre un gastronomo semplice quando viene a conoscenza che in Puglia, ad esempio, schiavizzano gli uomini per la raccolta dei pomodori, non può più essere un'entità neutra che si occupa solo di ricette o di tecnica culinaria: piuttosto si trasforma in intelligenza affettiva, qualcosa che la politica ha smarrito. Lentezza non è sinonimo di ottusità e non necessariamente va contro la modernità. Né va inteso come un valore assoluto: semmai è una medicina omeopatica che tutti dovremmo prendere solo se ci fermassimo un attimo a riflettere. Bello sarebbe che dallo "slow food" passassimo alla "slow life", ma sarebbe talmente radicale un cambiamento del genere che se fosse applicato modificherebbe nel profondo il mondo in cui viviamo, sarebbe una sorta di austera anarchia; d'altronde le nostre comunità hanno una creatività e una capacità di interpretare il territorio che nessuna organizzazione potrebbe mai dare, provviste come sono di un sentimento di comunanza ideale, di sinceri combattenti per la democrazia, per i diritti civili. Il futuro dei luoghi sta probabilmente nell’intreccio di azioni personali e civili. Per evitare l’infiammazione della residenza e le chiusure localistiche occorre abitarli (i luoghi) con intimità e distanza. E questo vale per i cittadini e più ancora per gli amministratori. Bisogna intrecciare in ogni scelta importante competenze locali e contributi esterni. Intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia, parola di Arminio.
Fare festa a un luogo, raccontarlo, attraversarlo, cantarci dentro passando dalla coscienza di classe alla coscienza del luogo, tentando di resistere alla miseria spirituale dilagante.
Che nome si può dare a questa religione che arriva fuori tempo? La paesologia è quasi una nuova scienza che s'insinua tra le speranze del nuovo secolo, è un piccolo tentativo che ha a che fare con la religione nel senso che vuole legare delle emozioni, delle vaghe suggestioni intorno al finire di un mondo e all’inizio di un altro. Senza la fine dalla modernità non ci sarebbe paesologia, ma non si tratta di una disciplina rurale e neppure paesana: si tratta di inventare uno spazio impensato, capace di intercettare i flussi buoni e tenere lontani quelli cattivi. In fondo è come una guerra partigiana: resistere al nemico comune che si chiama denaro. Nel momento in cui il denaro diventa teologia, allora bisogna scendere sul terreno del sacro e creare altre teologie.
La paesologia peraltro vuole mettere in evidenza i luoghi sgraziati, quelli che sarebbero luoghi luminosi anche se non ci fosse nessun essere umano dentro. Vuole aver cura della bellezza che si è salvata dal diluvio della modernità. Il cambiamento si rifonda qui, nei luoghi dove si ripianta il grano buono, si potano gli ulivi con amore, si dà foraggio sano alle mucche. Tutte tracce di una politica che parte dalla natura. La festa paesologica produce felicità in luoghi che di norma sono affranti, luoghi in cui si cresce con l’idea della fuga. L'intuizione dei profeti della lentezza è che invece questo è il tempo di restare dove si nasce, è il tempo di credere ai paesaggi che ci hanno formato perché in fondo siamo l’aria che abbiamo respirato, il cibo che abbiamo mangiato. E se in certi luoghi non si potrà piantare il grano si potranno seminare campi, si potrà seminare poesia: trasformare i paesaggi sconsolati, di margine e disabitati in paesaggi solenni. All'opposto di una bellezza “firmata” come quella di Venezia, di Firenze, di Roma e in generale delle grandi capitali d'Europa, esiste una bellezza non firmata, quella dei nostri uliveti coltivati dai nostri nonni con grande fatica. Negli anni '50, quando la sinistra marxista era in auge, non è stato mai realizzato un documentario in cui si parlasse della bellezza di questi posti, erano considerati luoghi da rottamare insieme alla civiltà contadina ed è con questa logica che è arrivata l'ILVA a Taranto; dobbiamo liberarci dai bulloni e dalle macchine prima ancora che le macchine si liberino di noi, facendo altro. Per quanto questi profeti siano disperatamente solitari è da loro che possiamo aspettarci l'unica speranza possibile emancipandoci da quell'idea di progresso che fu fondamentale nella mitologia del novecento: nel manifesto futurista Dio viene sostituito dall'automobile con una netta sostituzione dei relativi valori. "Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità" recitava il Manifesto del futurismo nel 1909; le parole si rovesciarono, il paesaggio divenne territorio, le belle arti divennero beni culturali il godimento della bellezza si trasformò in fruizione, con grande velocità tutto prese una direzione prevedibile verso le città, verso l'industrializzazione in una condizione di cecità generale. Forse non tutti sanno che l'Italia ha 25 milioni di edifici costruiti in alzato: di questi 25 milioni 12 milioni sono stati costruiti dal tempo di Segesta fino al 1959 e 13 milioni dal '60 ad oggi: cioè abbiamo costruito in sessant'anni una quantità di architetture pari a quelle che furono costruite in 2700 anni! Abbiamo costruito orrore, periferie degradate, grattacieli ovunque distruggendo e cancellando. Quando abbiamo finito di distruggere le città, abbiamo cominciato a distruggere il paesaggio, e un esempio evidente ne sono le pale eoliche. Ancora un altro profeta, Cesare Brandi, raccontava della più bella strada d'Italia, quella che da Palermo va a Mazara passando per Mozia, meravigliosa per la grande varietà del paesaggio; se oggi vedesse le 850 pale eoliche -tutte ferme- che stanno piantate lì probabilmente morirebbe d'infarto.
Ecco che una fondante mitologia del nostro tempo dev'essere quella della lentezza, senza alcuna promessa che non sia quella di preservare ed evitare con forza che ciò che abbiamo venga ancora e ulteriormente distrutto.
Se “conservazione” è una parola positivamente adottata dai direttori di musei e in generale nell'ambito delle belle arti, politicamente è al contrario considerata parola negativa, sinonimo di restaurazione, di regressione: i fatti ci hanno dimostrato e continuano a dimostrarci che non è sempre vero; a tal proposito ho trovato una straordinaria assonanza tra il pensiero dei profeti di cui sopra e un pensiero espresso nel 1957 da un uomo generalmente considerato un vero conservatore come Leo Longanesi, che scrisse:
"La miseria è ancora l'unica forza vitale del paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto il frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custoditi soltanto dalla miseria; dove essa è sopraffatta dal sopraggiungere del capitale ecco che si assiste alla completa rovina di ogni patrimonio artistico e morale perché il povero è di antiche tradizioni e vive di una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi mentre il ricco è improvvisato, di fresca data; nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che lo umilia, la sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall'imbroglio, da facili traffici - sempre o quasi imitando qualcosa che è nato fuori di qui- perciò quando l'Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga noi ci ritroveremo a vivere in un paese di cui non conosceremo più né il volto né l'anima".
E' corretto precisare ancora una volta che i profeti di cui ci siamo occupati sono persone notoriamente “di sinistra” giusto per confermare che “sinistra” non indica più nemmeno una direzione, non vuol dire più niente, forse soltanto che è da lì che si proviene, affettivamente e intellettualmente.
Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia (…). Andare lenti è ruminare, imitare lo sguardo infinito dei buoi, l'attesa paziente dei cani, sapersi riempire la giornata con un tramonto, pane e olio.
E' il tornare alle cose necessarie. Andare lenti è essere provincia senza disperare, è quello che potrà offrire riparo ai profughi del pensiero veloce, è “misura” impensabile senza l'andare a piedi, senza fermarsi a guardare gli escrementi degli altri uomini in fuga su macchine veloci. Nessuna saggezza può venire dalla rimozione dei rifiuti. E' da questi, dal loro accumulo, dalla merda industriale del mondo che bisogna ripartire se si vuole pensare al futuro.
(MC) Ecco un articolo, quello di Cettina Vivirito, che di primo acchitto potrebbe sembrare non pertinente con la mission di questo magazine, ma che invece lo è profondamente, soprattutto perchè una fascia oggi sempre più cospicui di ultrarunner e di ultracamminatori si immergono sempre di più in un contatto profondo e radicale con il territorio e con il paesaggio, conquistando lo statuto di "psicoatleti", secondo la definizione coniata da Enrico Brizzi, e di "paesologi". In entrambi i casi si tratta, il più delle volte, di uno status "in pectore" di cui non si ha piena consapevolezza. Forse, quest'articolo può contribuire ad aiutare costoro ad acquistare una maggiore consapevolezza di ciò e a dare ulteriore valore alla loro passione per la corsa e il cammino profondi che, indubbiamente, possono diventare gesti "politici" nel senso più profondo e autentico del termine.
La festa della Paesologia si tiene ad Aliano in provincia di Matera. Dal 22 al 25 agosto 2017. Ci sarà sempre più spazio all'immaginazione, all'impensato.
Palermo è una città di pianura? Questa è la domanda che un amico runner di Pistoia ha posto al nostro amico Gerlando Lo Cicero, preoccupato di doversi imbattere nell'affrontare l'esperienza della Maratona di Palermo in sfibranti salite.
E' curioso che questa domanda sia posta da un runner di Pistoia che è città circondata dai monti e dove ogni anno si celebra un'impegnativa Ultra in salita sulla distanza di 50 km che porta i runner dai circa 70 metri di livello sul mare di Pistoia sino al Passo dell'Abetone appena superati i 1400 metri di dislivello.
Palermo è, come Pistoia, città circondata dalle montagne e costruita su di un territorio pianeggiante che, tuttavia, non è privo di continui saliscendi e falsopiani.
Per i ciclisti in alcuni passaggi può risultare lievemente impegnativa, soprattutto se si vive ai piedi dei primi contrafforti delle montagne e, al ritorno dal lavoro, bisogna affrontare lunghissimi falsopiani in salita, come è - ad esempio - Corso Calatafimi che da Porta Nuova sale verso Monreale.
E per i runner non mancano percorsi di allenamento che sono ottime palestre di corsa in salita.
Ma ecco ciò che scrive Gerlando Lo Cicero
Un amico pistoiese mi chiede se il nuovo percorso della maratona di Palermo di quest'anno sarà pianeggiante o no!
Nel rispondergli, son finito col raccontargli la storia del nome della Conca d'oro di Palermo!
Poi dicono che una maratona è solo sport! No, no! È anche storia di un territorio!
"Luigi, Palermo si estende su una piana, la famosa Conca d'oro! Così chiamata perché per secoli fu il tesoro economico di tutta Palermo e immediati paesi limitrofi, il nome deriva dal vastissimo territorio tutto coltivato ad agrumi (mandarini e limoni e qualche arancio) che fu un fondamentale motore di sviluppo della città, la cui economia allora era basata sull'agricoltura: "conca" perché le montagne che chiudono a nord-ovest e sud-ovest la città (Monte cuccio, Pizzo Moarda, Monte Grifone e Pizzo Cavallo) danno alla pianura la forma di una conca; "d'oro", perché gli estesi agrumeti davano tanto denaro con la loro coltivazione e vendita dei frutti e il sole che li baciava faceva prendere il colore perfetto ai frutti, tanto da farli sembrare piccoli gioielli.
Ma tutto è finito ormai da una trentina di anni a questa parte. La scellerata gestione del governo in materia di agricoltura al Sud ha costretto via via i proprietari dei terreni ad abbandonare le coltivazioni di agrumi trasformando quella che era la Conca dOro in un immenso desolato terreno abbandonato alle sterpaglie! Non conveniva piu economicamente coltivare e vendere mandarini: i palermitani lo capirono e con molta sofferenza decisero di non star più dietro ai propri agrumeti: le spese di un anno di coltivazione non venivano più ammortizzate con la raccolta e vendita sui mercati dei succosi frutti e addirittura neppure si rientrava più dalle spese!
Io stesso ho fatto tagliare 13 anni fa il mio terreno che per decine e decine di anni mio nonno coltivava, campandoci la sua famiglia, poi passato in eredità a mio padre che continuò a coltivarlo con amore, pur non essendo il suo mestiere quello dell'agricoltura.
Morto mio padre nel 1994, quel terreno lo coltivai io, finché ho potuto. Ma appena ho visto che realmente non ci prendevo più neppure le spese di un anno di lavoro (concimi, acqua irrigua il cui costo ad ora era salito alle stelle negli ultimi anni - e considera che nel mio terreno occorrevano 4 ore e mezza di acqua per ogni irrigazione e i mandarini in estate vogliamo acqua ogni 15-20 giorni e a Palermo per il caldo la stagione delle irrigazioni dura oltre 5 mesi -, il costo dei contadini per la potatura annuale visto che io tutto sapevo fare da me stesso eccetto il potare gli alberi). Così un bel giorno decisi di abbandonare anche io la coltivazione ma preferii far tagliare ed estirpare dalle radici tutti gli alberi invece di vederli morire anno dopo anno lentamente, in agonia (ai mandarini se non dai acqua in estate in breve tempo muoiono da sé, e sono anche alberi assai soggetti a malattie, per cui se non li segui con attenzione si ammalano e giungono alla morte).
Ora quel mio terreno è dato in affitto a un contadino che ci coltiva ortaggi! E tantissimi terreni a Palermo hanno fatto la stessa fine del mio!
Da agrumeti quali erano adesso sono o abbandonati del tutto oppure qualcuno trasformato in coltivazione di ortaggi e verdure, ed altri sono stati invasida colate di cemento che hanno dato vita ad orribili condomini torreggianti.
Dunque Palermo è in pianura su quella che fu la Conca d'Oro.
Ma, in realtà, non è del tutto pianeggiante! La città ha sempre dei falsopiani. Ma non sono così terribili.
Il percorso di Roma per esempio è molto piu nervoso quanto a falsopiani.
Insomma, vieni a correre la Maratona di Palermo!
Se verrai, ti racconterò altre storie!
Un paesaggio senza pari, una rete di sentieri panoramici, percorsa da atleti di fama mondiale e da escursionisti di ogni livello, l’accoglienza e la cucina in perfetto stile italiano rendono Courmayeur una meta eccezionale per chi ama lo sport in montagna. Tappa del Tour du Mont Blanc, la località in estate è un paradiso sospeso tra rocce e cielo.
“Crescere a Courmayeur mi ha resa ciò che sono: è qualcosa che va oltre le implicazioni che può avere sul trail running o sulla corsa in generale”. Francesca Canepa porta il nome di Courmayeur ovunque nel mondo: vice campionessa del mondo 2013 dell’Ultra Trail, Top five nel ranking mondiale professionistico UTWT e ISF 2014 e due volte vincitrice del Tor des Géants. “Trovarti ogni giorno ai piedi della catena del Monte Bianco rende normale accettare il concetto che ci siano delle salite, che ci sia sempre qualcosa di più alto, che ci sia sempre qualcosa di più forte. Credo che chi è in grado di cogliere questo insegnamento possa affrontare ogni cosa con lo spirito giusto”.
Il Monte Bianco è una grande fonte di ispirazione: per Francesca Canepa, una delle trailer più forti del mondo, nata e cresciuta a Courmayeur, per le migliaia di runner che qui vengono ad allenarsi e a gareggiare, e anche per i tantissimi escursionisti - 40mila - che ogni anno percorrono i sentieri del Tour du Mont Blanc, tra Italia, Francia e Svizzera.
Ci sono molti modi di vivere la montagna e Courmayeur, sul versante italiano del Monte Bianco, è il luogo ideale per scoprirli. Capitale del trail – qui si svolgono competizioni di rinomanza mondiale, come l’Ultra-Trail du Mont-Blanc® e il Tor des Géants® – Courmayeur non è un luogo adatto solamente a runner allenati e capaci di grandi imprese: tutti possono vivere l’emozione di un’escursione in questi paesaggi. La corsa in montagna, sport in piena espansione, trova una ragione d’essere in un luogo magico dove si possono percorrere i sentieri sulle orme dei giganti mondiali di trail running, condividendo un’esperienza di libertà e di fusione con la natura.
Courmayeur si trova sul percorso del Tour du Mont Blanc, il giro del Monte Bianco, il secondo trekking più famoso del mondo, che unisce Italia, Francia e Svizzera. Il sito montourdumontblanc.com permette di selezionare, all’interno di questo percorso, un itinerario adatto alle proprie esigenze, controllare la disponibilità dei rifugi, prenotare e informarsi sulle condizioni meteo e dei sentieri.
È un esempio perfetto di come, a Courmayeur, sia possibile organizzare delle vacanze tailor-made, ovvero cucite su misura. Gli escursionisti possono scegliere se percorrere una o più tappe, approfittando per fare una sosta gourmet a Courmayeur, oppure una passeggiata per le vie del centro alla scoperta del fascino unico e delle tante anime della località. Tra i percorsi più panoramici, e adatti anche ai meno esperti, la “balconata sul Monte Bianco”, un sentiero a mezza costa, in Val Ferret, tra il rifugio Bertone e il rifugio Bonatti, che offre una vista spettacolare sul grande ghiacciaio della Brenva e sulle vette che hanno fatto la storia dell’alpinismo, come il Dente del Gigante, le Grandes Jorasses, il Mont Dolent.
Oltre a una varietà eccezionale di paesaggi, specialmente nelle due valli laterali, la selvaggia Val Veny e la verde Val Ferret, il versante italiano del Monte Bianco offre la possibilità di assaporare un’accoglienza speciale. Lo stile italiano si riflette nell’attenzione per i dettagli, nell’ospitalità e nella cucina: la qualità dei rifugi e dei ristoranti gourmet in quota è uno dei principali punti di forza dell’offerta turistica. A Courmayeur si può vivere un’esperienza di viaggio completa, immergersi in una cultura, scoprire un territorio e i suoi abitanti, vivere l’emozione di sentirsi a casa propria e al contempo essere in un luogo unico al mondo.
Le Tour du Mont Blanc est une randonnée unique de près de 200 km autour du massif du Mont-Blanc, et que l'on réalise en 7 à 10 jours de marche environ en passant par l'Italie, la Suisse et la ...
Mi chiamo Maurizio Crispi. Sono un runner con oltre 200 tra maratone e ultra: ancora praticante per leisure, non gareggio più. Da giornalista pubblicista, oltre ad alimentare questa pagina collaboro anche con altre testate non solo sportive.
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Il perchè di questo titolo
Perchè ho dato alla mia pagina questo titolo?
Volevo mettere assieme deio temi diversi eppure affini: prioritariamente le
ultramaratone (l'interesse per le quali porta con sè ad un interesse altrettanto grande per imprese di endurance di altro tipo, riguardanti per esempio il nuoto o le camminate prolungate), in
secondo luogo le maratone.
Ma poi ho pensato che non si poteva prescindere dal dare altri riferimenti come il
podismo su altre distanze, il trail e l'ultratrail, ma anche a tutto ciò che fa da "alone" allo sport agonistico e che lo sostanzia: cioè, ho sentito l'esigenza di dare spazio a tutto ciò che fa
parte di un approccio soft alle pratiche sportive di lunga durata, facendoci rientrare anche il camminare lento e la pratica della bici sostenibile. Secondo me, non c'è possibilità di uno sport
agonistico che esprima grandi campioni, se non c'è a fare da contorno una pratica delle sue diverse forme diffusa e sostenibile.
Nei "dintorni" della mia testata c'è dunque un po' di tutto questo: insomma, tutto
il resto.
L'idea motrice di questo nuovo web site è scaturita da una pagina Facebook che ho
creato, con titolo simile ("Ultramaratone, maratone e dintorni"), avviata
dall'ottobre 2010, con il proposito di dare spazio e visibilità ad una serie di materiali sul podismo agonistico e non, ma anche su altri sport, che mi pervenivano dalle fonti più disparate
e nello stesso tempo per avere un "contenitore" per i numerosi servizi fotografici che mi capitava di realizzare.
La pagina ha avuto un notevole successo, essendo di accesso libero per tutti: dalla data di creazione ad oggi,
sono stati più di 64.000 i contatti e le visite.
L'unico limite di quella pagina era nel fatto che i suoi contenuti non vengono indicizzati su Google e in altri
motori di ricerca e che, di conseguenza, non risultava agevole la ricerca degli articoli sinora pubblicati (circa 340 alla data - metà aprile 2011 circa - in cui ho dato vita a Ultrasport
Maratone e dintorni).
Ho tuttavia lasciato attiva la pagina FB come contenitore dei link degli articoli pubblicati su questa pagina
web e come luogo in cui continuerò ad aprire le gallerie fotografiche relative agli eventi sportivi - non solo podistici - che mi trovo a seguire.
L'idea, in ogni caso, è quella di dare massimo spazio e visibilità non solo ad eventi di sport agonistico ma
anche a quelli di sport "sostenibile" e non competitivo...