Quella contenuta nell'esile ma denso libricino scritto dal francese Sylvain Coher, dal titolo Vincere a Roma. L'indimenticabile impresa di Abebe Bikila (Vaincre à Rome, nella traduzione di Marco Lapenna), 66thand2nd, 2020, è una narrazione emozionante e paradigmatica che tutti dovrebbero leggere non soltanto gli sportivi e gli appassionati e praticanti di maratona. Sabato 10 settembre 1960 si celebrò, alla chiusura dei Giochi Olimpici di Roma (XVII Olimpiade moderna), la Maratona (che, a parte sporadiche eccezioni riguardante alcuni sport minori) solitamente è la gara che, da sempre, chiude i giochi, poiché dei Giochi Olimpici moderni voluti da De Coubertin è icona e ne incarna l'essenza eroica.
In quella circostanza si assistette ad un'impresa d'eccezione quando uno sconosciuto atleta africano, l'etiope Abebe Bikila, infrangendo tutte le previsioni, vinse quella gara, per di più correndo a piedi scalzi. Nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa simile, che un umile pastore etiope (nelle sue origini) aggiudicasse al suo paese l'ambito oro olimpico, in una corsa che assunse grazie a lui un valore altamente simbolico, collocando Bikila tra i "miti" della maratona moderna e non solo (basti pensare alla figura di Dorando Pietri e, andando ancora più indietro all'emerodromo Fidippide, che morì per annunciare una vittoria, e alla cui impresa venne "inventata" la Maratona moderna).
Il racconto dell'impresa di Abebe è in soggettiva e il lettore s'immerge nel paesaggio della corsa che è, insieme, esterno ed interiore.
Abebe dialoga di continuo con la "Piccola Voce" che è il suo interlocutore interno ma anche con tanti personaggi della sua vita che vanno e vengono, entrando in scena e poi allontanandosi dal suo scenario mentale, per poi rientrarci: la moglie lontana, il suo allenatore che è il suo "piccolo padre", l'imperatore d'Etiopia che lui rappresenta: sì, perché la sua corsa umile che poi diventerà vittoriosa, sarà anche una benevola e non astiosa rivalsa (e, d'altra parte, Abebe fa parte della Guardia Imperiale): vincere a Roma sarà dunque per lui un modo per rendere un servigio alla sua nazione, sconfitta ed umiliata dagli Italiani nel lontano 1936. Ma nei suoi pensieri e nelle sue emozioni c'è anche Dio, al quale spesso si rivolge:
"Abbiamo profili tagliati per fendere l'aria, perchè sospesi nell'aria passiamo due terzi del tempo di una corsa: nella corsa come in cielo aspiriamo alla sospensione. Sospesi in eterno tra il ponte e l'acqua, in quell'intervallo impossibile troveremo il momento di rivolgerci alla misericordia di Dio. E' così." (p.41)
E poi: "Corro per fare guerra alla guerra e Dio si manifesta sempre a quelli che corrono: sentiamo la Sua fronte contro la schiena e Sue mani bollenti sotto le ascelle. E quando c'è lui a trainarci con la Sua mano possente ci accorgiamo di correre molto più veloce: è la prova assoluta della Sua presenza. La forza mentale non è come un'illuminazione, la forza mentale è dappertutto fin nei più piccoli dettagli, afferma la Piccola Voce." (p. 44)
Perché Abebe volle correre a piedi scalzi? Alcuni vollero attribuire a questa sua decisione un valore dimostrativo, come se egli - rinunciando alle scarpette - avesse voluto esprimere il suo orgoglio per le proprie origini di pastore degli altipiani e di tutti gli Etiopi come lui che, di umili origini, camminano e corrono scalzi. In realtà, molto prosaicamente, Abebe ci dice (nei suoi pensieri) che, pochi momenti prima dello start, se le leva perchè ritiene che siano troppo nuove e teme di potersi fare male, pregiudicando la sua corsa. In questa decisione sarà aiutato dall'avere - per via delle sue vicissitudini di vita - una suola callosa sotto i piedi, formatasi negli anni della sua giovinezza.
Il racconto si articola in brevi capitoli che vanno dal momento della partenza (il km zero) e che procedono di cinque chilometri in cinque chilometri, esattamente come fanno i podisti moderni quando vogliono ripercorrere le tappe della propria performance, più quegli ultimi due chilometri e le due centinaia di metri che, furono aggiunti alla distanza originaria in occasione dei Giochi Olimpici di Londra del 1908. In ciascun capitolo vi è il continuo contraltare tra la voce di un cronista lontano che, senza esserci, cerca di seguire l'evento in diretta e darne conto agli ascoltatori e quella silenziosa di Abebe che scorre come un fiume di libere associazioni oscillanti di continuo tra le esigenze di un capillare contatto con la realtà ed una condizione sognante. Tra le due voci, la voce quasi fastidiosa del radiocronista che nulla sembra comprendere e quella narrante (che è rappresentata dallo stesso Abebe, impegnato nella corsa) si percepisce una distanza abissale tra chi il gesto sportivo lo vede solo dall'esterno e da chi lo vive con ogni fibra del suo corpo, con la propria mente pensante e con le proprie emozioni.
L'arrivo di Abebe sotto l'arco di Costantino fu così repentino che gli stessi addetti ai lavori, giudici di gara, giornalisti, fotografi e video-operatori, cronisti non capirono subito che egli fosse arrivato in testa, anche perché- poco di tagliare la linea del traguardo - venne sommerso da un nugolo di fotografi, impazienti di immortalarlo.
Appena al di là del traguardo, Abebe stupì tutto il mondo poiché cominciò subito a fare - come un soldato disciplinato - gli esercizi di allungamento, accompagnati da saltelli vari, lasciando immaginare che avesse ancora dentro di sè una grande riserva di energia a cui poteva dar libro sfogo con tale esuberanza.
Il mondo si commosse ed esultò: non solo era stato battuto il precedente primato olimpico, ma anche - soprattutto - la Maratona da allora non sarebbe più stata la stessa, perché con Bikila come pioniere si sarebbero fatta strada in questa disciplina gli Africani e, in essa, avrebbero stabilito un predominio quasi assoluto.
"...ogni passo è singolo, perché si produce una volta soltanto. Nell'enumerazione di tutti i passi si forma la storia della corsa, il suo sviluppo e la sua conclusione. Corriamo sul margine di un cerchio - senza soluzione di continuità. L'immensità del mondo è una burla smisurata, mantenere l'ordine resta il nostro principale intento: Mille maratone fanno il giro completo del pianeta." (p.77)
Abebe Bikila rimarrà per sempre nella storia, nella storia dello sport, nella storia della corsa di lunga durata e nell'immaginario collettivo, come colui che vinse una maratona correndo a piedi scalzi. Non a caso in un film di qualche anno successivo (il famoso "Il Maratoneta" di Johb Schlesinger, ispirato al romanzo omonimo di William Goldman) nella mente del protagonista (Dustin Hoffmann nel film) ricorrono di continuo, mentre corre, le immagini iconiche di quell'impresa epocale.
(Risguardo di copertina) Roma, sabato 10 settembre 1960, penultimo giorno dei Giochi olimpici e ultimo del calendario etiope. Sulla linea di partenza i corridori si scaldano in attesa del colpo di pistola che sancirà l'inizio della maratona. Tra loro un atleta sconosciuto, serio in volto e taciturno. È scalzo. Il suo nome è Abebe Bikila, caporale della guardia reale del negus. È lì per vincere, e vincerà. Due ore, quindici minuti e sedici secondi di corsa sui sampietrini della via Sacra, l'asfalto rovente della Colombo, il basolato di via Appia, accarezzando a piedi nudi il selciato della Città Eterna come fosse la terra dei suoi altopiani. «Vincere a Roma sarà come vincere mille volte» aveva detto l'imperatore Hailé Selassié, una rivalsa a ventiquattro anni dalla presa di Addis Abeba a opera delle truppe di Mussolini. E così Abebe corre, misura il ritmo delle falcate, risparmia il fiato, ascolta i muscoli che vibrano e mordono il freno in attesa dello sprint finale. Ad accompagnarlo la sagoma sfocata del grande Emil Zátopek e un uomo in carne e ossa, pettorale 185, misterioso contendente con cui percorrerà appaiato più di venticinque chilometri per poi staccarlo nel finale e andare da solo verso il trionfo. Un oro olimpico che incorona non soltanto Abebe ma l'intero continente africano in un'epoca in cui gli imperi coloniali si stanno sfaldando e si alza forte il grido dell'indipendenza. Accordando la sua prosa al passo instancabile del maratoneta, Sylvain Coher s'insinua nella mente di Bikila sotto forma di Piccola Voce e racconta dall'interno una delle imprese più memorabili nella storia dello sport: l'epopea del corridore scalzo, la nascita di una leggenda.
Alcune notizie su Abebe (da wikipedia). Abebe Bikila partecipò altre due volte ai giochi olimpici, a Città del Messico (1964) dove vinse nuovamente l'Oro, migliorando il suo primato e a Tokyo (1968), dove tuttavia non si classificò però al traguardo. Oltre alle partecipazioni olimpiche conquistò l'oro di maratona in numerose competizioni internzionali di prestigio, anche in questo antesignano dei corridori kenioti che si affacciarono alla ribalta internazionale nei decenni successivi.
Nel 1969 Bikila, alla guida della sua auto nei pressi di Addis Abeba, ebbe un incidente, che lo lasciò paralizzato dalla vita in giù. Nonostante le cure e l'interesse internazionale, non riuscì più a camminare. Pur impossibilitato all'uso degli arti inferiori, non perse la forza di continuare a gareggiare: nel tiro con l'arco, nel tennis da tavolo e perfino in una gara di corsa di slitte (in Norvegia). Partecipò inoltre ai Giochi paralimpici di Heidelberg nel 1972 nel tiro con l'arco. Insomma, in questo percorso sfortunato, continuò ad applicare la filosofia del "un passo alla volta", facendo prova di resilienza e di determinazione.
Ma il suo destino era segnato: morì l'anno successivo, il 25 ottobre 1973, i 41 anni non acora compiuti, per un'emorragia cerebrale.
L'autore. Sylvain Coher (1971) vive tra Parigi e Nantes. Dopo gli studi in Lettere moderne, ha lavorato come istruttore di vela, sorvegliante in un convitto, libraio, editore, muratore. Dal 2002 si dedica interamente alla scrittura. Tra le sue opere Carénage (2011), Nord-nord-ouest (2015), che gli è valso numerosi premi, e Trois cantates policières (2015). Durante i giorni trascorsi come borsista residente a Villa Medici tra il 2005 e il 2006 sono nate le prime pagine di Vincere a Roma.
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